Chiedimi la luna
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Info su questo ebook
Aibek appartiene a una famiglia che, di generazione in generazione, si tramanda un lavoro di grande sapienza e abilità: accendere e spegnere la luna. Un compito scrupoloso, fatto di centimetri, per spostare con uno spazzolone granelli di luce sull'esatta porzione da illuminare. Ci vogliono tanta precisione e dedizione, perché è un mestiere solitario, lassù in mezzo all'universo.
Quando il padre si ritira, tocca ad Aibek diventare l'artefice di quella magia. Ma la luna è fatta anche di un'ombra scura e il ragazzo non resiste alla tentazione di esplorare quel territorio, ignoto e minaccioso.
È così che tutto cambierà. Improvvisamente lui si troverà sulla terra, la “palla bluastra” che ha sempre guardato con curiosità da lassù. Smarrito e spaventato, Aibek vivrà l'avventura di un mondo sconosciuto, senza comprendere lo scorrere del tempo, la pioggia, gli alberi, le strade, gli animali… e l'amore.
Sarà Adhara a guidarlo nel caos insensato della vita sulla terra, con la sua forza e la sua fragilità di giovane donna. E Aibek troverà nelle emozioni dell'amore la piena consapevolezza di sé e del suo destino.
Cristiano Caccamo
Cristiano Caccamo è diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia. Nel 2014 debutta al cinema con il film Cenere. Il debutto televisivo arriva nel 2015 con le serie Questo è il mio paese, Il paradiso delle signore, Che Dio ci aiuti e Don Matteo. Nel 2018 è protagonista di Puoi baciare lo sposo e nel 2020 del reality di Amazon Celebrity Hunted e del film Sotto il sole di Riccione per Netflix. Ha oltre 850mila follower su Instagram e Chiedimi la luna è il suo primo romanzo.
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Anteprima del libro
Chiedimi la luna - Cristiano Caccamo
STORIA
LA LUNA NUOVA
Qualche giorno prima, tutto era perfettamente ordinario lassù. Ogni piccolo spazio sembrava definito da piccoli spilli. C’era un vapore di nubi, e un vento asciutto. I granelli di luce si gonfiavano non appena fuori dai crateri.
La luna manteneva intatto il suo aspetto millenario, il suo essere madre. Era magnifica. Si teneva agganciata a un punto nero, illesa. In un modo così incantato che veniva voglia di scoprire a quali tralicci fosse appesa. Era una perla pesantissima persa in quel soffitto senza bordi, in quel vuoto immenso.
Se solo potessi mostrarvela.
Di notte c’era poco altro, in quel cielo smisurato.
Aibek guardava suo padre, mentre si apprestava a sbiancare la luna, ad accenderla, mentre se ne prendeva cura in maniera gentile: nulla nei suoi gesti era impreciso, spargeva quelle perline luminose con un atteggiamento quasi maniacale, come se volesse glassarla. Era un compito importante, che veniva tramandato da generazioni: lo aveva svolto suo padre, e prima ancora di lui il padre di suo padre, e prima ancora il padre del padre di suo padre e ancora prima il padre del padre del padre di suo padre.
Ok, la smetto!
Era un mestiere saper mantenere la giusta distanza tra i granuli, tenerli quasi incollati tra loro e non farli staccare; mai un movimento maldestro.
Immaginate qualcosa di così dannatamente in ordine da avere quasi voglia di incasinare tutto. Ecco, quel tipo di ordine.
Pareva ci fosse sempre un vento leggero e educato, pronto a riassettare la linea della luce.
Aibek guardò suo padre con ammirazione, con estasi. I suoi occhi erano pieni di luce, contornati da piccolissime lentiggini. Quello stesso sguardo che aveva il padre di suo padre, e ancor prima il padre del padre di suo padre.
Lo sto facendo ancora… d’accordo, smetto subito!
Forse è meglio che vi racconti un aneddoto prima di andare avanti. Aibek e il padre, dopo aver illuminato la luna, si ritrovavano a fare un gioco: si toglievano lo stivale destro e contavano quanti grani di luce ci si erano infilati dentro: chi era stato meno attento ne aveva sicuramente di più e per questo doveva cantare e ballare una canzone così forte da farsi sentire da tutti i mondi vicini. Era un’esibizione con il più grande pubblico, sembrava che gli astri si avvicinassero per poterla ascoltare.
"Nella luna c’è
un asino che
non attento sta
qui nell’aldilà
ora guarda insù
non lo vedi che
tutto quello che c’è
ha un senso e un perché."
Va bene, adesso torniamo alla nostra storia.
Ad Aibek, in quell’insù, sembrava bastasse lo spazzolone di suo padre per mantenere viva l’eternità.
Non pensate chissà quali attrezzi avessero a disposizione, o di quali formule magiche fossero a conoscenza per poter accendere la luna. Avevano soltanto uno spazzolone e degli stivali. Tutto qui.
Suo nonno gli raccontava di come la luna fosse culla sia di dolore sia di splendore; gli raccontava del perché chiunque avesse bisogno di sogni la cercasse sperando fosse pronta a dargli ascolto, fosse capace di mozzargli il fiato: affinché il cuore riprendesse a bussare nel petto. Gli spiegava che la luna era capace di condizionare gli umori di tutti gli esseri, di stravolgere le maree e la crescita delle piante, e che aveva delle carte segrete buone soltanto per l’amore. E che, se anche quella parte di cielo aveva una geometria perfetta, in fondo era merito loro.
Perché noi facciamo esattamente così: riponiamo i nostri desideri, le nostre responsabilità, in qualcosa di molto lontano.
Mi preme però dirvi una cosa a riguardo. Non sentitevi per questo giustificati quando vi svegliate di malumore e reagite male con chi vi sta vicino: è solo colpa vostra. O meglio, la luna non ha questo tipo di responsabilità.
Aibek stava dritto, con lo sguardo affondato nello spazio. Sembrava assente.
«Cosa mi sai dire di quella?» chiese al nonno.
«Quella palla bluastra? È piena di cuori penzolanti e tristi. Stanne lontano.»
Aibek per un attimo si sentì minacciato, si volse verso suo padre, che stava preparando la nascita della luna nuova, e sorrise. Tornò a guardarla, era spaventato ma fortemente attratto da quella palla lontana e, in un piccolo punto in mezzo a quel blu, gli parve di vedere come un luccichio.
MACCHIE DI LUNA
Una ragazza dai capelli neri, davanti all’unica finestra di casa sua, stava lucidando un anello con un brillante al centro. Lo strofinava con una cura ossessiva sfregandolo con forza con una pezza. Era così luminoso che sembrava brillasse di luce propria.
In città la conoscevano tutti. Si chiamava Adhara, come una delle stelle più luminose della volta celeste. Era esile quanto un filo di paglia. Da qualche anno lavorava al market aperto 24 ore su 24, ci arrivava quando il sole tramontava; faceva il turno di notte. Il market era diventato il suo rifugio: sua madre e suo padre non c’erano più; viveva a poche centinaia di metri da quel posto con Big, un pincher nano.
Adhara aveva modi sempre gentili, sembrava una fatina.