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Bla bla bla Sud.: Perché il PNRR non salverà il Sud e il paese
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E-book277 pagine3 ore

Bla bla bla Sud.: Perché il PNRR non salverà il Sud e il paese

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Info su questo ebook

Perchè il sud è rimasto indietro? È possibile un rilancio del sud senza modificare la centralità logistica, amministrativa e politica del Mezzogiorno e del Mediterraneo? De Sarlo inizia un ragionamento da fare per progettare un futuro diverso e migliore, con stile semplice e diretto, ricco di esempi e riscontri. Nella prima parte troviamo una disamina tra miti, pregiudizi e realtà sulla situazione meridionale. Nella seconda parte propone una soluzione per uno sviluppo possibile per colmare i gap che ancora esistono.
LinguaItaliano
Data di uscita29 giu 2023
ISBN9788869601712
Bla bla bla Sud.: Perché il PNRR non salverà il Sud e il paese

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    Anteprima del libro

    Bla bla bla Sud. - Pietro De Sarlo

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    Titolo dell’opera:

    Bla Bla Bla Sud

    © 2022 Altrimedia Edizioni

    ISBN: 9788869601712

    © Altrimedia Edizioni è un marchio di

    Diòtima srl - servizi e progetti per l’editoria

    Prima edizione digitale: Febbraio 2023

    Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.

    È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

    PREFAZIONE UNA SCOSSA

    MARCO ESPOSITO

    Una scossa. Per riscattare la terra meridionale e per ridare fiducia a chi la abita occorre una scossa. Che Pietro De Sarlo individua in un oggetto ben concreto: il Ponte sullo Stretto. Lo fa da ingegnere attento ai conti e alla durezza dei fatti. Lo fa da uomo di cultura che guarda con passione e sofferenza alla condizione degradata della terra dove è nato e cresciuto e dove, forse, vorrebbe tornare a vivere. E lo fa, soprattutto, con concretezza, inserendosi nel solco di un meridionalismo dell’agire. Perché, se è vero che il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza rischia di trasformarsi nell’ennesimo bla bla bla sulla coesione territoriale, De Sarlo non cade nella trappola del chiudersi in difesa e nel suo saggio si discosta dal diffuso chiacchiericcio intorno al tema Mezzogiorno, compreso quello di taluni rappresentanti politici meridionali, per smontare con argomenti e fonti affidabili le false credenze di cui si nutre tanta pubblicistica intorno al tema Sud.

    Il Ponte tra Scilla e Cariddi, condivido, potrebbe essere una scossa per il Sud perché unisce il valore simbolico di un’opera ingegneristica impegnativa, sulla quale come scrive De Sarlo «confrontarsi e vincere», con la valenza concreta di unire i territori al di là e al di qua del faro.

    Il Ponte, naturalmente, è solo un tassello di tutto quanto servirebbe al Mezzogiorno per non essere più periferia d’Europa. Ma se c’è un dibattito che suona vuoto e pretestuoso è quello di chi sottolinea che il Mezzogiorno ha bisogno prima di altre cose e poi semmai del Ponte. Come se fosse anche solo immaginabile, e come se qualcuno abbia mai proposto, un Ponte sullo Stretto in alternativa a una rete dignitosa di ospedali, oppure al posto degli asili nido o ancora, per restare al sistema dei trasporti, una meraviglia ingegneristica tra Sicilia e Calabria circondata da mulattiere o strade ferrate a binario unico non elettrificato o a scartamento coloniale di 95 centimetri in luogo dei 143,5 dello standard internazionale.

    In realtà il Ponte è con tutta evidenza un tassello previsto e quindi indispensabile del principale corridoio europeo, lo Scanmed, che va da Oslo a Palermo e che con i suoi 7.527 chilometri è il più lungo d’Europa. Quindi è inimmaginabile lo Scanmed senza il collegamento con il porto di Amburgo, senza il tunnel del Brennero, senza la piattaforma logistica dell’area tra Roma e Napoli, la più popolosa di quelle attraversate, e senza un collegamento stabile con la più estesa isola del Mediterraneo, la quale da sola conta più abitanti di ben nove dei ventisette Paesi che aderiscono all’Unione europea.

    Discutere del Ponte, peraltro, è uno straordinario pretesto per far uscire allo scoperto i discorsi detti e non detti sul Mezzogiorno d’Italia e che De Sarlo richiama con puntualità nelle pagine del suo saggio. Dietro il no al Ponte si nascondono scuse antiche e contemporanee. La meno fondata è, ovviamente, quella del Benaltrismo. Ma non scherzano quanto a scarso rispetto della logica anche gli argomenti di chi vede nella presenza della malavita organizzata – mafia in Sicilia e ‘ndrangheta in Calabria – una sorta di ostacolo naturale alle opere ingegneristiche. Come se la presenza di politici corrotti in Veneto, dimostrata da sentenze passate in giudicato, possa essere una ragione per lasciar affondare Venezia.

    Aprire un dibattito sereno sul Ponte è anche un modo per chiarirsi le idee tra meridionalisti. Tutti ugualmente innamorati di questa terra antica ma tutti innamorati soprattutto della propria ricetta. La quale talvolta considera l’idea stessa del Ponte come un modo per distrarre da obiettivi più concreti, con il rischio che parlando di Ponte (appunto il bla bla bla) si rinvii a tempi futuri qualsiasi concreto intervento.

    La sfida degli scettici va accolta. Perché deve cadere ogni alibi su un concetto banalissimo: nessuno vuole il Ponte e basta. Il Sud pretende il Ponte proprio perché il Sud, finalmente, vuole tutto. Pretende diritti di cittadinanza senza discriminazioni per residenza. Pretende un sistema di istruzione dal nido all’università che valorizzi le persone e non le abbandoni al primo momento di difficoltà. Pretende per le donne l’opportunità di far valere sé stesse, senza l’onere di doversi sostituire allo Stato per la cura dei piccoli come degli anziani non autosufficienti. Pretende la libertà di curarsi nella propria terra, di spostarsi non con una rete di trasporti del secolo in corso, di poter avere energia elettrica senza interruzioni, banda larga senza strozzature, reti idriche senza perdite vergognose. Il Sud deve pretendere che tutti facciano il proprio dovere, a Bruxelles, come a Roma e come, ancora di più, nel proprio municipio perché tutti sono chiamati a ricostruire non solo un Paese antico, ma la speranza di poter vivere in quel Paese, accogliendo le persone che vorranno venire a godere delle nuove opportunità.

    L’ostacolo al Ponte sullo Stretto però non è solo interno al Mezzogiorno – alla fine, un accordo riusciremmo a trovarlo – è nella miopia di alcuni (non tutti, per fortuna) settori del Nord Italia che sono convinti che lo sviluppo dei porti del Sud – Taranto, Gioia Tauro, Augusta – possa sottrarre fette di mercato a Trieste e a Genova. Come se a Napoli il titolare di un bar o di un negozio di abbigliamento tifasse contro i suoi concorrenti lungo via Chiaia o via Toledo, via Epomeo o via Scarlatti, alla Pignasecca o ad Antignano, augurandosi la loro chiusura per guadagnare i loro clienti. In una città con una sapienza antica nel commercio come Napoli ciascun operatore sa che il suo successo è legato a doppio filo con quello dei suoi vicini i quali, proprio perché concorrenti, concorrono tutti a rendere vivace e attrattiva quell’area commerciale. Ebbene, in quell’area commerciale globale che è il nostro piccolo pianeta, il centro sul quale convergono tre continenti è senza dubbio alcuno il Mediterraneo. E il centro del centro del Mediterraneo è lo Stretto di Messina, a metà rotta tra Gibilterra e il canale di Suez.

    Se un extraterrestre con fiuto per gli affari tra qualche anno dovesse scegliere il punto dove far atterrare la propria astronave e vendere ai terrestri l’Elisir di lunga vita, dopo aver visto per una dozzina di giorni il globo roteare intorno al proprio asse non avrebbe dubbi su dove puntare il suo unico dito. Atterrerebbe dove gli abitanti di quel pianeta multicolore hanno avuto l’arguzia di realizzare un’opera colossale, atterrerebbe dove s’incontrano razionalità e immaginazione. In fondo, l’extraterrestre farebbe la stessa scelta di Ulisse.

    NOTA DELL’EDITORE

    VITO EPIFANIA

    Alcune cose nascono così, durante una chiacchierata; sono figlie di una grande passione, della storia personale, delle proprie competenze o di una capacità di visione e hanno sufficiente energia per diventare un progetto, per trovare una linea di azione.

    Così è nato questo lavoro di Pietro De Sarlo, che ci dà dentro col suo stile e, appunto, la sua passione, intorno a temi difficili in un tempo che scorre via molto più velocemente di quanto sia necessario per scrivere.

    Non si deve essere per forza d’accordo con la lettura che De Sarlo dà di fatti, persone e situazioni – e in qualche caso non nascondo di avere, sul tema, opinioni e posture diverse da quelle del nostro autore -, si può e si deve condividere con lui, oltre e nonostante questa velocità con cui fatti persone e situazioni cambiano, evolvono o involvono, l’esigenza di analisi critica, una lettura profonda delle scelte e delle decisioni di governo, la grande passione civile e persino il senso di ribellione a tutto ciò che è ingiusto. E la chiara comprensione che ogni questione legata al Sud, alla sua storica arretratezza, è indissolubilemente legata al destino complessivo dell’Italia e di questa all’interno dell’Europa.

    Offriamo perciò questa lettura con il chiaro obiettivo di contribuire, in un momento in cui soffiano, di nuovo, venti forieri di strani modi di intendere lo sviluppo del Paese, al riavvio di un robusto, intenso e diffuso dibattito intorno a ciò che fu un tempo la questione meridionale.

    NOTA DELL’AUTORE

    Nello scrivere questo libro mi sono sentito spesso come un salmone che deve risalire la corrente di fiumi gelati per garantire la sopravvivenza della propria specie.

    Una fatica immane e solitaria. O si riesce nell’impresa o si muore.

    Il libro nasce su sollecitazione dell’editore, un saggio sulle prospettive del Sud con il PNRR. Incautamente mi sono subito gettato nell’impresa per rendermi immediatamente conto che per spiegare le ragioni della inutilità, o forse sarebbe meglio dire della marginale utilità del PNRR, sulle sorti del Sud avrei dovuto spiegare tante altre cose. Innanzitutto la inefficacia delle politiche europee degli ultimi 20 anni basate su un liberismo irragionevole. Poi quelle italiane, basate su pregiudizi contro il Sud, cullati da 160 anni di pubblicistica antimeridionale basata sul nulla. Sia le argomentazioni a sfavore del Mezzogiorno sia quelle a favore del liberismo non reggono a una verifica anche superficiale dei numeri.

    Eppure i numeri sono ancora più importanti dei fatti sia nelle analisi economiche sia nella comprensione delle dinamiche storiche. Come scrive Jacques Le Goff nella prefazione al libro di Marc Bloch Apologia della Storia o mestiere di storico sulla «indissociabilità della caccia dei dati dall’interpretazione» si fonda il mestiere dello storico che si esercita «mediante un costante andirivieni tra i dati e l’interpretazione di questi» e quindi Marc Bloch preferisce dati a documenti, e ponendo attenzione alla attendibilità delle «fonti ai documenti». Quante stupidaggini si sarebbero evitate se anche l’economia preferisse i dati rispetto all’approccio ideologico e pregiudiziale?

    C’è da chiedersi quindi come mai si siano così radicate nel ceto dirigente e del popolo questi pregiudizi e queste teorie.

    Certamente la propaganda dei media che, rispondendo a precisi interessi, non fa che alimentare l’illusione che i problemi siano semplici e che se le cose vanno male la colpa non è mai della classe dirigente del Paese, che si autopromuove in continuazione in circoli esclusivi e autoreferenziali privi di realtà, ma degli altri che di volta in volta vengono definiti populisti, sovranisti, neoborbonici o qualunquisti o con altri termini con connotazione negativa ignorando le questioni che sono alla base del dissenso.

    La conseguenza del pregiudizio e delle falsità si ritorce spesso proprio contro chi proditoriamente e per proprie e mai limpide finalità le promuove. Come nel caso della autonomia differenziata, che partendo da presupposti ideologici e da falsità numeriche, sta spingendo la P.A. a un inutile girovagare e a continue capriole concettuali al limite della criminalità costituzionale.

    Che fare quindi con una opinione pubblica manipolata o disattenta e che confonde la notorietà con le competenze, e gli slogan ripetuti come un mantra da un insieme di persone che fanno parte di una ristretta cerchia che ha in mano le sorti del Paese, o di aspiranti membri di questa setta? Setta che però è l’unica in grado di distribuire incarichi e prebende in modo stabile e duraturo e non episodico.

    La menzogna esercitata dall’élite di uno Stato da molti è considerata implicitamente lecita e affonda le sue radici nel mito della nobile menzogna riportato nel terzo libro de La Repubblica di Platone. Ma è sempre lecito mentire? Quando e quanto è lecito mentire se questo mira al bene dello Stato? Domanda semplice ma con implicazioni complesse. Se all’epoca di Platone la domanda era già legittima lo è ancora di più oggi in una realtà infinitamente più complessa e dove cosa sia il bene di una comunità è ancora più incerto da definirsi. Specialmente quando si confonde il bene di un’intera comunità con quello di una parte di essa e quando la menzogna serve a coprire gli interessi di una parte e la incapacità dei ceti dirigenti.

    Ricordate la favola di Andersen I vestiti nuovi dell’Imperatore? Un imperatore nudo passa tra una folla di adulatori che magnificano la grazia e la bellezza del suo vestito. Finché un bimbo urla: «Il re è nudo!» Eppure per smontare il castello di menzogne in cui viviamo basterebbe solo chiedere, come farebbe un bambino innocente, il perché delle tante affermazioni spacciate per verità assolute. Per esempio se si afferma che la riforma Fornero è a favore dei giovani, chiedere perché visto che giovani oggi senza lavoro non avranno contributi sufficienti domani per avere una pensione decente e che la permanenza degli anziani nel mondo del lavoro sottrae a loro posti occupabili. Oppure se si dice che il MES renderà la sanità italiana pari a un mondo di frutta candita chiedere come sia possibile visto che gli accordi sottoscritti non lo consentono. Ma chi dovrebbe fare le domande è uscito da troppo tempo dall’età dell’innocenza.

    Il punto viene chiarito bene da Cirino Pomicino nel suo ultimo libro Il grande inganno. La genesi di questa situazione, con accuse pesanti, Pomicino la fa risalire agli inizi degli anni novanta, quando il salotto buono del capitalismo italiano, scelse di costruire la Seconda Repubblica dando credibilità e sostegno, con i propri media, a quelli che l’autore chiama i vinti della storia, ossia a quelli del vecchio PC, ora PD, sconfitti ideologicamente dalla perestroika e dalla caduta del muro di Berlino. Il salotto buono era costituito da Carlo De Benedetti, Gianni Agnelli, Marco Tronchetti Provera, Carlo Pesenti, Enrico Cuccia, Cesare Romiti, Eugenio Scalfari. Gente che deve molto al pubblico potere e in specie al PD «che si trasformò nel braccio operativo della destra neoliberista europea». Ma attenzione, l’intreccio tra capitale, finanza e informazione genera: «Un’arma letale per le democrazie liberali... Una potenza di fuoco difficilmente sostenibile dalle istituzioni democratiche». Anche perché operano: «utilizzando nel contempo le insinuazioni personali e la gogna contro gli avversari, manipolando pesantemente la verità».

    Per tutto ciò e a ogni pagina e a ogni rigo ho avuto la tentazione di abbandonare l’impresa, per poi chiedermi che senso abbia questa mia fatica solitaria che difficilmente coinvolgerà le coscienze e i pubblici amministratori per farne oggetto di pubblico dibattito.

    Mi sono risposto con una vecchia favola africana, quella del colibrì e del leone, che racconta che un giorno nella foresta scoppiò un grande incendio. Tutti gli animali iniziarono a fuggire e tra questi il Re Leone. Mentre si allontanava di gran carriera vide un colibrì volare in direzione opposta: «Dove vai? Scappa che c’è l’incendio!» Il colibrì rispose: «Vado al fiume per prendere l’acqua da portare nel becco e spegnere l’incendio». Il Leone rise dicendo: «Pensi di spegnere l’incendio con le tue quattro misere gocce d’acqua?» «No», rispose il colibrì «faccio solo la mia parte». Appunto.

    RASHOMON

    La realtà può essere osservata da diversi punti di vista e in funzione di quello da cui la si osserva si matura un’idea diversa della realtà stessa. Quella che osserviamo è quindi una realtà soggettiva e non oggettiva e l’idea che ne abbiamo, specialmente quando la raccontiamo ad altri, è influenzata non solo dalla nostra cultura e dalla nostra storia ma, principalmente, dagli interessi personali, di classe o di clan che difendiamo.

    Nel 1950 Akiro Kurosawa, il grande regista giapponese, nel film Rashomon, ispirato al racconto Nel bosco di Akutagawa, rappresentò proprio la grande capacità dell’uomo di mentire, anche a sé stesso. Il film racconta dell’incontro di un monaco buddista con un boscaiolo e un passante mentre trovano riparo dalla pioggia, al limitare di un bosco, sotto la porta nelle mura in rovina della città di Rashomon. Nell’attesa che cessi la pioggia il monaco rievoca la storia di un processo per l’assassinio di un samurai, avvenuta proprio in quel bosco, a opera di un brigante che ne aveva violentato anche la moglie. Il monaco, che era stato coinvolto come testimone, poiché aveva incrociato le vittime lungo la strada poco prima dei tragici eventi, riporta le versioni dell’accaduto fornite al processo dal brigante, dalla moglie e dalla stessa vittima, interpellata tramite un medium. Le testimonianze divergono significativamente dando l’impressione che si tratti di fatti diversi e non del racconto dello stesso episodio. A chi dare ragione?

    A queste testimonianze si aggiunge inaspettatamente anche il racconto del boscaiolo, che aveva assistito al fatto e non aveva testimoniato per non essere coinvolto.

    La narrazione del boscaiolo pare più veritiera, perché non è parte in causa, ma si scopre poi che anche lui aveva approfittato della circostanza rubando preziosi oggetti dalla vittima e togliendo così credibilità alla sua versione.

    In apparenza può sembrare un film sui caleidoscopici aspetti della realtà poiché le versioni di tutti i protagonisti e dei testimoni divergono, invece la realtà è oggettiva ma la visione e il racconto sono influenzati dagli interessi particolari di ognuno oppure, come nel film, dalla necessità di salvare il proprio onore e la propria reputazione oltre che per coprire le proprie miserie e debolezze.

    Ci sono poi delle realtà per propria natura difficili da interpretare, come l’economia di un Paese. Come vedremo non ci sono ricette salvifiche e certe per guidare l’economia ma negli ultimi 20 anni, soprattutto a causa dell’introduzione dell’euro, si è diffusa nel mondo una visione ideologica dell’economia non più interpretata come analisi dei dati e costruzione di modelli capaci di valutare in modo appropriato i fatti e dare soluzioni ma con una serie di dogmi da applicare urbi et orbi e con gli stessi criteri in tutto il mondo: dalla Germania a Tahiti. Con la caduta del muro di Berlino è crollata la dialettica tra visioni contrapposte come quella socialista e quella liberista, l’economia pianificata e quella di mercato come se tra le due non ci fosse un mondo di possibilità intermedie diverse.

    Sembra quasi che la sinistra abbia maturato una sorta di senso di colpa per la creazione di quel muro e che la caduta dell’impero sovietico abbia annullato culturalmente e ideologicamente tutti i principi del socialismo e del comunismo. Insomma, insieme all’acqua sporca si è gettato anche il bambino. Ecco che i principi del liberismo sono dilagati senza trovare più contrapposizione fin quasi a far diventare sinonimi nella pubblica opinione liberismo ed economia.

    E così una scienza sociale, che in quanto tale è opinabile, è diventata un catechismo applicato con la stessa ipocrita ferocia della Santa Inquisizione gesuitica nel Medioevo.

    Mancano non solo il bagno di realtà e le verifiche fatte con il rigore del metodo scientifico, ma anche la dialettica democratica su quali siano le soluzioni migliori in funzione delle classi sociali che si intende tutelare.

    La fede nei dogmi liberisti è tale e ha fatto tanti proseliti che i partiti di sinistra, avversari storici del liberismo, ne sono diventati i paladini e vengono create delle istituzioni che sfuggono a ogni controllo

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