Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Smetti di odiare il lunedì
Smetti di odiare il lunedì
Smetti di odiare il lunedì
E-book347 pagine4 ore

Smetti di odiare il lunedì

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

30 semplici consigli per tornare ad amare il tuo lavoro

Nel corso di una carriera che lo ha portato a lavorare in alcune delle più grandi compagnie del mondo come Twitter, Google e YouTube, Bruce Daisley ha cercato di capire meglio quale fosse il segreto del loro successo. E lo ha trovato! L’entusiasmo e la voglia di fare delle persone che lavorano in queste aziende è alla base di ogni impresa. Ma non sempre è così, e soprattutto è difficile mantenere la passione iniziale per il lavoro. E allora, come possiamo ricominciare ad amarlo? È possibile renderlo più soddisfacente, più produttivo e molto più piacevole? In questo libro l’autore propone i risultati delle sue ricerche dando consigli che abbracciano tutti gli aspetti della vita d’ufficio del XXI secolo e che combinano in egual misura intuizioni empiricamente testate e risposte pratiche e concrete.
Un utile strumento per ritrovare la felicità professionale e scoprire su cosa – nella nostra vita lavorativa – possiamo intervenire concretamente. Una lettura appassionante per sconfiggere lo stress e la noia da lavoro.

N°1 del Sunday Times e del Financial Times

Stanco ancora prima di entrare in ufficio?
Ritrova l’entusiasmo di un tempo!

La mancanza di passione e il senso di noia per il proprio lavoro fanno ammalare

Il libro perfetto per chiunque si senta demotivato e abbia il desiderio di ritrovare interesse e soddisfazione per il proprio lavoro

«Ama quello che fai e non lavorerai nemmeno un giorno in vita tua.»
Confucio

«Bruce Daisley ha come obiettivo quello di cambiare il rapporto col lavoro.»
The Times

«In questo libro, Bruce ti insegna a ridere mentre lavori e ad amare veramente ciò che fai.»
Biz Stone, cofondatore di Twitter

Bruce Daisley
studia gli ambienti di lavoro. Ha dedicato gli ultimi anni a intervistare i capi di grandi aziende cercando di sviluppare una teoria generale sui metodi per migliorare il proprio ambiente professionale. L’«Evening Standard» l’ha inserito tra i 1000 londinesi più influenti al mondo ed è stato definito dai media “una delle persone più talentuose nell’ambito della comunicazione”.
LinguaItaliano
Data di uscita4 dic 2019
ISBN9788822740403
Smetti di odiare il lunedì

Correlato a Smetti di odiare il lunedì

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Automiglioramento per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Smetti di odiare il lunedì

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Smetti di odiare il lunedì - Bruce Daisley

    EM492-Smetti.di.odiare.il.lunedi-bruce.daisley.jpges.jpg

    492

    Titolo originale: The Joy of Work

    Copyright © Bruce Daisley 2019

    Bruce Daisley has asserted his right to be identified

    as the author of this Work in accordance

    with the Copyright, Designs and Patents Act 1988.

    First published by Random House Business Books in 2019.

    All rights reserved

    Per le fotografie: © Unsplash (Parte terza, Introduzione, Luke Stockpoole per la casa;

    Tanja Heffner per l’uomo barbuto; Parte terza, Risonanza 8 Hian Oliveira per la faccia felice);

    © Pexels (Parte terza, Risonanza 8 Pixabay per la faccia arrabbiata).

    Tutti i tweet sono riprodotti per gentile concessione di Twitter,

    copyright © dei rispettivi account Twitter.

    Traduzione dalla lingua inglese di Emanuele Boccianti

    © 2020 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-4040-3

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Corpotre, Roma

    Bruce Daisley

    Smetti di odiare il lunedì

    30 semplici mosse

    per tornare ad amare il tuo lavoro

    marchio.tif
    Newton Compton editori

    Indice

    Introduzione

    Parte prima. Ricarica

    Introduzione

    Ricarica 1. Usare la tecnica del monaco

    Ricarica 2. Organizzare riunioni a passeggio

    Ricarica 3. Celebrare gli auricolari

    Ricarica 4. Guarire dalla febbre da fretta

    Ricarica 5. Accorciare la settimana lavorativa

    Ricarica 6. Spodestare lo schiavista che è in noi

    Ricarica 7. Disattivare le notifiche

    Ricarica 8. Andare a pranzo

    Ricarica 9. Darsi delle regole

    Ricarica 10. Prendersi un giorno di riposo digitale

    Ricarica 11. Dormire bene la notte

    Ricarica 12. Concentrarsi su una cosa alla volta

    Parte seconda. Sincronia

    Introduzione

    Sincronia 1. Spostare il bollitore

    Sincronia 2. Proporre una pausa

    Sincronia 3. Dimezzare le riunioni

    Sincronia 4. Organizzare un social meeting

    Sincronia 5. Ridere

    Sincronia 6. Dare la carica il primo giorno di lavoro

    Sincronia 7. Smetterla di essere un (cattivo) capo

    Sincronia 8. Sapere quando lasciare le persone per conto loro

    Parte terza. Risonanza

    Introduzione

    Risonanza 1. Inquadrare il lavoro come un problema da risolvere

    Risonanza 2. Ammettere di aver sbagliato

    Risonanza 3. Mantenere snella la squadra

    Risonanza 4. Concentrarsi sul problema, non sulle persone

    Risonanza 5. Introdurre una settimana sperimentale

    Risonanza 6. Proibire i telefoni alle riunioni

    Risonanza 7. Promuovere la diversità

    Risonanza 8. Sostituire le presentazioni con le letture

    Risonanza 9. Eseguire un’analisi preventiva

    Risonanza 10. Rilassarsi

    Epilogo

    Note

    Ringraziamenti

    Bibliografia

    A Billy, Coco e Tula

    Introduzione

    –––––––––––––––––––– • ––––––––––––––––––––

    Ama il tuo posto di lavoro

    Qual è il lavoro peggiore che abbiate mai fatto? Il giorno del mio sedicesimo compleanno, trenta centimetri più basso rispetto al mio attuale metro e ottanta, cominciai a lavorare in un fast food nel centro di Birmingham. Ero l’esatto opposto di un adolescente sicuro di sé, consapevole della mia voce stridula e con una seria mancanza di spavalderia. Inoltre ero nuovo al mondo del lavoro e avevo il terrore che se mi fossi messo a chiacchierare con qualcuno sarei stato licenziato. Proprio come nessuno studente ammetterebbe mai che gli piace andare a scuola, mi ero messo in testa che non è una buona cosa cercare gratificazione nel proprio impiego. Quel che dovevo fare era andare lì ed eseguire il compito che mi era stato dato, ovvero pulire i tavoli in silenzio.

    Grazie alla mia remissività divenni un impiegato modello; una volta addirittura obbedii alla richiesta del responsabile del locale di ripulire una grande quantità di escrementi di ratto da sotto un lavandino, usando solamente tovaglioli di carta. Consideravo fortunati quei giorni in cui ero esonerato dal pulire, dovevo indossare un costume, che mi ricopriva da capo a piedi, e avventurarmi lungo Corporation Street per distribuire buoni sconto a tifosi poco collaborativi.

    Ma, in fin dei conti, è stato quello il mio peggior impiego? Col senno di poi, direi che è possibile; a quel tempo probabilmente no. Poiché una volta capito che le chiacchiere coi colleghi erano permesse, anche i giorni più lunghi e difficili si rivelarono piacevoli. Divenne chiaro che la mia felicità era direttamente collegata al numero di volte che ridevo in una giornata. Fintanto che c’erano momenti di leggerezza, sentivo un legame con le persone intorno a me. E quelle lunghe ore passate a sfacchinare insieme a loro mi sembravano meglio che restarmene seduto a casa, ad aspettare che qualcuno inventasse internet.

    Seguirono altri impieghi in pub, ristoranti e alberghi (sia messo agli atti che è molto più facile farsi piacere lavori come questi, se da voi non ci si aspetta che portiate a casa di che mantenere una famiglia). Mentre vagavo da un posto all’altro cominciai a notare un fenomeno singolare. I migliori impieghi, scoprii, non erano necessariamente quelli in cui si realizzava l’ingegnoso piano di un qualche leader visionario; spesso anzi erano così piacevoli proprio nonostante i capi. Un ristorante messicano in cui lavorai risorse a nuova vita quando il disumano proprietario, dopo l’ultima scenata, lasciò il locale sbattendo la porta. Era un imbecille di proporzioni colossali, ma quel posto cominciò a sfornare una chimichanga portentosa non appena lui si fu tolto di mezzo.

    Fu così che cominciai a capire che la cultura di un posto di lavoro non si riduceva solamente ai capi. Tutti ne sono responsabili. Tutti noi possiamo avere un ruolo nel rendere un posto di lavoro accogliente e gratificante.

    C’è una frase famosa di Steve Jobs: «Dovete amare quello che fate». Chiaramente è più facile a dirsi che a farsi, ed è uno di quegli aforismi detti un po’ en passant che può lasciare un senso di inadeguatezza. Se quel che dovremmo fare è amare il nostro impiego, nel caso ciò non accada di chi è la colpa? Nostra? Alla fine quella frase potrebbe essere usata contro di noi? "Se davvero volessi questo lavoro, non chiederesti un aumento/non ti lamenteresti di quanto c’è da fare/non ti lamenteresti dello stress. Forse dovremmo cercare qualcuno che vuole davvero lavorare qui".

    Ma benché io creda che sia sbagliato scaricare il peso della gratificazione professionale sull’individuo, ognuno di noi può agire in modo da rendere il proprio lavoro come minimo un po’ più gradevole. Il problema è che tutti gli indizi indicano che si sta andando nella direzione opposta. Il sospetto che prima lavorare era molto più piacevole sembra avere fondamenta reali. A molti di noi non piace ciò che facciamo e ci esauriamo nel tentativo di non fallire. Una ricerca effettuata dalla società Gallup in ogni ambito lavorativo suggerisce che solamente il 13 per cento dei dipendenti è attivamente impegnato nella propria occupazione, cioè sono coinvolti ed entusiasti del ruolo ricoperto e dell’ambiente lavorativo. Nel caso della Gran Bretagna le cifre sono anche più basse: 8 per cento¹. Ci sentiamo logorati da un corrosivo senso di precarietà e da un sistema lavorativo che pare incidere sempre di più sul nostro tempo libero, facendoci annaspare tra email a cui rispondere e cellulari da tenere sempre d’occhio la domenica mattina, non sia mai che quel bip appena sentito annunci qualche emergenza dell’ultimo minuto.

    Nonostante l’esperienza con le deiezioni di ratto, in genere sono stato fortunato nella mia vita professionale. Nell’ultimo decennio ho avuto la fortuna di lavorare per società del calibro di Google, Twitter e YouTube. Prima, sono stato impiegato in aziende responsabili dei contenuti di riviste come «Heat» e «Q», «Capital Radio» e «Kiss». Sono stati bei posti in cui lavorare, e quando ho fatto carriera arrivando al mio attuale ruolo, diventando io stesso responsabile di gruppi di lavoro, è stata una bella soddisfazione sentirsi dire dai visitatori quanto trovassero gradevole l’atmosfera del nostro ufficio di Twitter a Londra, o dover rispondere a email in cui mi si chiedeva qualche suggerimento su come migliorare un ambiente di lavoro.

    Ma il motivo per cui ho deciso di trasformare un prolungato interesse per la cultura del lavoro in una ricerca ha a che fare con un periodo in cui a Twitter le cose non andavano tanto bene. Le persone sembravano non divertirsi più come prima. Qualcuno se ne andava. Altri avevano un’aria smunta e avvilita. Il problema era che io non avevo proprio idea di cosa fosse andato storto, o come affrontare la situazione.

    Assalito da mille dubbi decisi di fare il passo, forse bizzarro, di cominciare un podcast. Avevo la sensazione che registrarlo mi avrebbe consentito di interpellare esperti di psicologia del lavoro, coloro che capiscono veramente cos’è che fa funzionare questo tipo di ambienti. Con mia sorpresa, molte risposte che mi diedero sembravano davvero semplici. Così, insieme alla co-autrice Sue Todd, ne scelsi alcune e creai il New Work Manifesto, una semplice lista di otto cambiamenti che chiunque può fare per migliorare la propria professione. La reazione fu straordinaria. Agenti di polizia, infermieri, avvocati e funzionari di banca: tutti si misero in contatto per sapere come potere utilizzare e adattare questi concetti alla loro realtà.

    Quello che ho scoperto è che non mancano studi, ricerche e indagini scientifiche su cosa renda un impiego più gratificante. Il fatto è che nessuno dei risultati sembra mai riuscire ad arrivare alle persone che fanno lavori comuni. Di conseguenza in questo libro ho distillato la saggezza degli esperti in trenta semplici cambiamenti che chiunque può attuare da sé o proporre a una riunione di lavoro. Alcuni mi sono familiari da tanto tempo e li ho usati io stesso con successo. Altri sono correttivi utili per cattive abitudini che avevo sviluppato e notato nel prossimo. Qualcuno potrà apparire perversamente controintuitivo, ma funziona davvero.

    La nostra professione, non importa quale sia, può aiutarci a dare senso alla nostra vita. Potremmo anche essere riluttanti ad ammettere che l’amiamo, ma non dovremmo mai vergognarci di sentirci fieri del fatto che il nostro lavoro ci rende felici.

    Spero che questo libro vi aiuti a sentirvi nuovamente sereni.

    Sotto pressione

    Malgrado l’impressione di spensieratezza che proiettava intorno a sé, Julian era un uomo sotto pressione. Da ogni direzione arrivavano pretese e aspettative sempre più alte che gravavano sulle sue spalle: gente che lo chiamava per telefono solo per fargli un saluto, ma con un tono di insistenza aggiuntivo nella voce; colleghi ansiosi di sapere cosa aveva inventato nelle ultime sessioni creative. La maggior parte di noi probabilmente ritiene di avere un impiego troppo modesto in confronto a quello che fanno le rockstar, eppure le lezioni che possiamo apprendere da Julian Casablancas sono un contributo importante nella riconquista della soddisfazione per il nostro impiego. Fermiamoci un momento a ripercorrere la sua storia.

    Il primo album degli Strokes, Is this It, fu un enorme successo di critica e commerciale sin da quando venne pubblicato nel 2001. Con un punteggio di 91 si aggiudicò un posto tra i primi quaranta album di tutti i tempi sul sito Metacritic. Il «Guardian» lo valutò come uno dei migliori cinque del decennio, e la rivista «NME» il quarto migliore di sempre, e sostenne speranzosa che la band avrebbe potuto «salvare il rock». Un critico su «Rolling Stone» dichiarò che fosse «la cosa più gioiosa e intensa che abbia ascoltato quest’anno», descrivendolo come «la materia di cui sono fatte le leggende». Nel giro di un anno la band fece il tutto esaurito nelle più prestigiose sale da concerto del pianeta.

    Come per quasi tutti gli album di debutto di artisti sconosciuti, il processo creativo sottostante non aveva alcunché di affascinante. Gli Strokes, un gruppo di cinque musicisti originari di New York, avevano registrato il disco in uno studio essenziale, ridotto all’osso, situato nel seminterrato di un appartamento del Lower East Side, a Manhattan. Il compito di scrivere le canzoni ricadde interamente sulle spalle della voce principale, il cantante Julian Casablancas, che mentre era impegnato e preoccupato a inventare nuovi motivi, si ritrovò a conquistare la poco gratificante posizione di quarto miglior taglio di capelli del gruppo. Ma il risultato finale, pur lucidamente modellato su citazioni garage rock e sulla musica degli anni Sessanta e Settanta, aveva anche un sapore di novità. E man mano che andavano in tour e promuovevano il loro disco durante l’anno successivo, gli Strokes si costruirono velocemente un’appassionata schiera di fan. Presto si cominciò a parlare di come sarebbe stato il secondo disco.

    Se il debutto è paragonabile a piantare una bandiera nella sabbia, per il secondo album si tratta spesso di porre le basi per una reputazione. Sono molto pochi gli artisti che raggiungono lo status di icona con il primo lavoro, ma possono riuscirci con il secondo: Nevermind dei Nirvana, Back to Black di Amy Winehouse, Late Registration di Kanye West, Steam degli East 17. Di conseguenza per gli Strokes registrare un secondo disco che fosse all’altezza del trionfo del primo era il fondamentale passo successivo. E dal momento che Is this It aveva vinto il disco di platino, le aspettative erano altissime.

    Il risultato fu una continua pressione: pressione dai fan, pressione dai critici, pressione dalla famiglia che lo sosteneva, pressione dalla stessa band. Vennero fuori storie di sessioni di registrazione finite nel cestino e continue ripartenze da zero. Julian Casablancas era a tal punto preoccupato e stressato che si volle sfogare con un giornalista della rivista «Mojo» andato a trovarlo: «Mi pare di scoppiare per tutta la pressione che ho addosso. E se un critico o l’opinione pubblica dicessero: Stavolta ci ha proprio deluso? Una cosa del genere mi incasinerebbe la testa, mi farebbe star male»².

    Consapevole delle esigenze del pubblico che si aspettava un seguito coi fiocchi, la band si mise al lavoro e consegnò il nuovo album, Room on Fire, alla casa discografica in tempo perché arrivasse nei negozi nell’ultimo quadrimestre del 2003, periodo di picco di vendite. I cd cominciarono a essere stampati e inviati alla critica di settore. Quando Casablancas si trovò davanti le prime recensioni relative al lancio di ottobre deve aver avuto la testa piena di tutte quelle ansie di deludere il pubblico. Spero che si sia seduto prima di mettersi a leggere.

    Gli articoli erano in sostanza negativi. I recensori sostennero che il disco tentava di ripetere gli stratagemmi del debutto, ma mancava la freschezza dell’originale. Un giornalista del «Guardian» osservò che «per buona parte di Room on Fire ci si trova davanti quel che sembra una band stanca che cerca disperatamente di ricordare come facessero i pezzi buoni del primo disco… metà di Room on Fire è fatta di riempitivi senza ispirazione»³. «Entertainment Weekly», negli Stati Uniti, sintetizzò con una frase quel che molti ascoltatori pensavano del nuovo disco: «Praticamente una fotocopia sbiadita di Is This It»⁴.

    Era possibile che lo stress avesse soffocato gli istinti creativi di Casablancas? La sua inventiva era stata schiacciata dalla pressione di dover essere originale? Ci sono prove scientifiche evidenti che lo stress e le aspettative accumulatisi sulle sue spalle, tanto per mano sua quanto a opera degli altri, siano stati direttamente responsabili di aver distrutto la sua capacità creativa. È verosimile che oltre un certo limite la pressione abbia smesso di essere un pungolo energizzante e abbia di fatto soffocato la sua immaginazione. La sua testa si riempì di rumore e distrazioni invece che di idee. Quando ci sentiamo stressati spesso l’inventiva finisce fuori dalla finestra. Così andiamo a cercare rifugio in qualsiasi cosa abbia funzionato la volta precedente. Ripetiamo quando dovremmo innovare. Come disse il giornalista di «Entertainment Weekly» nel prosieguo del suo articolo: «Preoccupa che gli Strokes, così professionalmente giovani, si stiano già ripetendo»⁵.

    Perché tutto ciò dovrebbe essere importante per il nostro lavoro? Ebbene, perché lo stress sta progressivamente diventando la norma negli ambienti professionali. E le stesse forze che hanno un impatto così negativo sul processo di composizione musicale stanno anche cospirando per scardinare quello decisionale, che è alla base di qualsiasi ambito lavorativo. A queste forze negative si aggiunge l’evoluzione del modo in cui vengono svolti i compiti quotidiani. In parole semplici, il lavoro va peggiorando. E le prospettive future sono anche più scoraggianti. In sostanza siamo tutti incastrati tra due tendenze, che stanno profondamente alterando sia la natura del lavoro sia l’impatto psicologico che ha su di noi. Sono epocali, perciò le chiameremo megatendenze (megatrends). Una è la connessione costante. L’altra è l’intelligenza artificiale.

    Nel corso degli ultimi venti anni c’è stato un vero e proprio giro di vite a nostre spese, in fatto di impegno lavorativo. Ricevere email sul telefono ha trasformato fondamentalmente il nostro rapporto con il lavoro. Restiamo in contatto con l’ufficio mentre siamo sul treno, sull’autobus o sul divano. Lavoriamo più ore, anche se non ci sono prove che abbiamo fatto più cose.

    All’inizio sembrava fantastico. Ricevere la posta elettronica sui nostri dispositivi mobili ha spezzato la relazione tra il posto di lavoro e l’attività lavorativa. Eravamo liberi di rispondere ai messaggi ovunque fossimo – e questo diede effettivamente una sensazione liberatoria. Finalmente potevamo rispondere alle richieste dei clienti sulle tariffe premium stando comodamente seduti in salotto; o tampinare la compagnia dei trasporti per avere la fattura del pullman per Corby direttamente dal treno; Steve delle vendite poteva mandare a tutti un video che un suo amico di larghe vedute aveva condiviso con lui dopo un venerdì sera al pub. Non avevamo idea che trasferire la posta elettronica sui cellulari ci avrebbe portato a lavorare di più. E di certo non avevamo idea di quanto fosse questo aumento.

    Adesso però un’idea piuttosto accurata ce l’abbiamo. Una ricerca del 2012 indica che l’impiegato inglese medio ha visto lievitare la giornata lavorativa del 23 per cento, ovvero di due ore al giorno⁶: da sette ore e mezza a nove e mezza. Si tratta di un incremento sostanzioso, soprattutto se si tiene conto del fatto che gli stipendi non sono cresciuti proporzionalmente. Cosa più importante, la nostra disponibilità psicologica verso il lavoro si è estesa anche oltre questi orari standard aumentati. Un’indagine effettuata negli usa ha scoperto che il 60 per cento dei professionisti rimaneva connesso col proprio impiego per tredici ore e mezza ogni giorno feriale e altre cinque ore nei fine settimana – per un totale di oltre settanta ore di connessione⁷. E man mano che noi ci rendevamo sempre più disponibili, i nostri datori di lavoro hanno iniziato a dare per scontato che così dovesse essere: un sondaggio globale condotto dalla società Gallup indica che laddove le aziende avevano aspettative sulla reperibilità dei loro dipendenti al di fuori delle ore d’ufficio, il 62 per cento di questi si atteneva diligentemente a tali aspettative⁸.

    Come mostrerò in seguito, i benefici di una disponibilità così estesa non sono accertati. Anzi, tutto indica che più sono le ore dedicate al lavoro più entri in gioco la legge dei rendimenti decrescenti, e che a risentirne ci sia, prima tra tutte, la nostra creatività. Logorandoci, raggiungiamo quello che gli psicologi chiamano uno stato di disposizione affettiva negativa (è il termine tecnico di questo fenomeno, vedi p. 192). Questo, più di altro, può trasformare l’amore per la nostra professione in odio. Gli scienziati hanno dimostrato che a meno che non ci troviamo in una condizione di alto benessere personale, noi cominciamo a disprezzare il nostro impiego⁹. Contemporaneamente, quindi, quella connessione che ci consuma ci rende anche infelici. Metà delle persone che controllano la posta al di fuori dell’orario d’ufficio mostra oggi alti livelli di stress, dicono scienziati che hanno misurato i livelli di cortisolo presenti nella saliva¹⁰.

    L’altro trend – pardon, megatrend – è l’intelligenza artificiale.

    L’avvento dei robot è una prospettiva inquietante, in gran parte poiché nessuno sa davvero dove condurrà. Quello che sembra certo è che l’automazione avrà un profondo impatto su molti lavori a basso reddito. Ma dal momento che l’intelligenza artificiale può essere impiegata al meglio per svolgere compiti ripetitivi, il suo utilizzo e le relative conseguenze potrebbero essere molto più sconvolgenti. Uno dei settori spesso considerati a rischio è l’industria legale. Perché? Ebbene, un sacco di lavoro legale ha a che fare con lo studio di documenti per cercare precedenti in casi già dibattuti. In altre parole, si tratta di riconoscere schemi (pattern), che i computer possono individuare con rapidità ed efficienza¹¹. Perciò, benché la professione legale possa ora come ora attrarre, parecchi studi predittivi suggeriscono che quasi la metà di tutte le occupazioni del settore col tempo sarà spazzata via¹². Presto sarà un software per computer a determinare che questa disputa legale è simile a un altro caso che ha avuto tale esito.

    Di certo ci sono degli ottimisti là fuori. Matthew Taylor, amministratore delegato della Royal Society of Arts, che è stato incaricato dal primo ministro Theresa May di stilare un rapporto sul futuro dell’occupazione¹³, mi ha detto: «Pare che l’analisi degli effetti del trasferimento di sempre più attività commerciali su internet indichi la creazione di nuovi posti di lavoro. Perciò è vero, ci sono meno persone oggi impiegate nei negozi. Ma considerando il numero di gente che lavora nei magazzini e nelle consegne, l’incremento di questa cifra è molto maggiore della diminuzione del personale addetto ai negozi»¹⁴. Nondimeno, è difficile liquidare su due piedi la preoccupante previsione secondo cui ogni impiego attualmente retribuito meno di trenta sterline l’ora corra probabilmente il rischio di diventare vittima dei robot.

    Quali sono quindi le occupazioni che hanno capacità di resistenza? In linea di principio, più un compito è routinario più è facile sostituire un uomo con una macchina. Quello che dovrebbe essere chiaro per noi è che i lavori più difficili da rimpiazzare sono tendenzialmente quelli in cui bisogna usare il cervello per risolvere una serie imprevedibile di problemi. Occupazioni in cui l’individuo che li svolge si trova costantemente nella condizione di chiedersi che succede se?: che succede se proviamo a fare così? A cambiare il packaging dei prodotti, per esempio? Creatività, ma a livello concreto. Inventiva, intelligenza, riflessione: sono queste le capacità per cui l’intelligenza artificiale ha meno probabilità di subentrare nel breve termine.

    La conseguenza trascurata del primo megatrend, la connessione costante, è che il lavoro ci sta friggendo il cervello. C’è una ragione se l’esistenza in generale oggigiorno ci sembra più carica d’ansia, ed è che la parte più consistente della nostra vita, il lavoro, produce più stress di prima. Vero è che da sempre quel che facciamo per tirare avanti comporta notevoli fatiche, però alla generazione precedente, o anche a quella ancora prima, era stata risparmiata la mancanza di separazione tra impiego e tempo libero, quel bisogno sfibrante di controllare il telefono solo un’ultima volta in caso qualcuno ci stia cercando.

    Ma ecco il problema. Se vogliamo sopravvivere alle conseguenze dell’intelligenza artificiale dobbiamo coltivare tipologie di lavoro più creative. D’altra parte, la pressione causata dalla connessione costante ci sta rendendo così stressati che un atteggiamento creativo diventa sempre più difficile da raggiungere. Siamo intrappolati in un doppio vincolo. Come accennato precedentemente, gli scienziati a volte chiamano questa condizione disposizione affettiva negativa negativo. In questo libro mostrerò come cinquant’anni di ricerche scientifiche hanno portato alla luce gli svantaggi della disposizione negativa e i vantaggi di quella positiva. Le prove indicano che la possibilità di cambiare e migliorare le cose è nelle nostre mani. Quasi nessuno di noi ha il ruolo del capo nel proprio ufficio. Magari possiamo essere responsabili di alcune persone a noi sottoposte, ma molte delle decisioni su come vanno le cose sono prese dai dirigenti di livello più alto. Questo però non ci impedisce di intervenire sul modo in cui ci sentiamo, e su come il nostro gruppo più ristretto interagisce. Questo libro è per tutti coloro che si trovano in tale situazione. Che siate i capi di voi stessi, o che la vostra unica possibilità di produrre un cambiamento sia suggerire alla squadra di guardare tutti insieme un ted Talk su come migliorare le cose, voi potete comunque fare la differenza per la vostra vita e per quelli che vi stanno intorno.

    Smetti di odiare il lunedì è diviso in tre parti. Prese insieme, queste compongono un modello che serve a creare ambienti di lavoro più felici, ma ho anche cercato di fare in modo che ogni capitolo possa essere letto autonomamente.

    Ricarica. Nella prima parte, mi occupo dei modi in cui possiamo ricaricare la nostra energia personale. Come si fa a tornare ad avere la batteria completamente carica? Quali semplici trucchi rendono il lavoro più tollerabile? Come passare dalla disposizione affettiva negativa alla disposizione affettiva positiva?

    Sincronia. Nella seconda parte richiamo dettagliatamente le ricerche più innovative in modo da offrire consigli su come portare nella vostra squadra fiducia e connessione. Parto dal presupposto che probabilmente non siete voi ad avere la parola finale, che non possiate limitarvi semplicemente a dire alle persone con cui lavorate cosa devono fare. Ma non potete

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1