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Invidioso io?: Un’emozione inconfessabile
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E-book255 pagine3 ore

Invidioso io?: Un’emozione inconfessabile

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Info su questo ebook

L’invidia fa male alle relazioni, alla convivenza con gli altri, complica la vita dell’invidiato e a volte distrugge delle belle realizzazioni, ma fa vivere male anche chi la rumina dentro di sé, perché gli impedisce di esprimere i suoi stessi talenti. Una buona spiritualità aiuta a vivere diversamente le nostre esperienze emotive, compresa l’invidia. Ma è tale se ascolta e fa propria la voce dello Spirito che crea legami d’amore e di reciproca compassione. Solo l’amore cambia il nostro modo di “vedere” e di comportarci di conseguenza: ci aiuta a vincere la tentazione dell’in-videre, tipico dell’invidia, per vedere con occhio compassionevole gli altri ma anche “l’altro” che siamo noi.
LinguaItaliano
Data di uscita28 set 2020
ISBN9788899515331
Invidioso io?: Un’emozione inconfessabile

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    Anteprima del libro

    Invidioso io? - Luciano Sandrin

    4,4

    Introduzione. Come un tarlo!

    Nel centro di Roma, a due passi dal Pantheon, c’è una sacrestia del 700, una delle più belle della città. Fanno bella mostra una serie di armadi in legno dipinto a finto marmo. Ma il marmo non è marmo e il legno è legno, e dove c’è legno si insinua un nemico invisibile, che prima o poi lascia traccia della sua presenza: una polvere farinosa. È il segno che un tarlo si sta mangiando pian piano il legno. Armadi belli di fuori ma con qualche animaletto che rode dentro. Se non si interviene in tempo si rischia di perdere tutto.

    È l’immagine che mi viene in mente introducendo questo mio piccolo libro sull’invidia. L’invidia è come un tarlo, non la vedi quando inizia a rodere. Ne osservi però le conseguenze quando può essere troppo tardi. È un’emozione nascosta, difficile da ammettere, inconfessabile. Qualcuno la mette tra le passioni tristi. L’invidioso può presentarsi con una bella immagine fuori, ma ha un vuoto dentro che lo fa soffrire.

    Ho trovato che il titolo Invidioso io? poteva essere il più adatto, perché dice con una domanda retorica quello che non vogliamo ammettere.

    È da un po’ che volevo scrivere qualcosa sull’argomento perché l’invidia la vedo in me e attorno a me, aperta o mascherata dietro sorrisi e gentilezza, nei vari ambienti di vita, in famiglia come nella società, nel mondo accademico come in quello religioso. Sei importante per noi! maschera, a volte, desideri non detti di farti uscire dal giro che conta. Nella persona invidiosa è il confronto che brucia. Perché l’altro sì e io no? È una domanda che, come un criceto, rumina nella ruota della mente e non si ferma mai.

    Nessuna meraviglia! Siamo umani! Ma è meglio non dormirci su e fare attenzione perché i risultati possono essere molto seri. E te n’accorgi quando è troppo tardi, quando il tarlo ha già fatto i suoi danni, a volte irreparabili.

    Sull’invidia ognuno ha le sue storie da raccontare. Anch’io ne avrei qualcuna. Ma non so se è il caso. Meglio non dire.

    C’è chi distingue l’invidia benigna, ma forse sarebbe meglio chiamarla emulazione positiva, e l’invidia maligna, che è quella particolarmente distruttiva. C’è anche un rapporto particolare con la gelosia. Invidia e gelosia sono distinte ma spesso con-fuse in chi le vive. Tutto questo, e altro ancora, è oggetto di questo mio libro. Sono partito da un’attenzione psicologica sul tema, ma le riflessioni hanno cominciato ad allargarsi qua e là prendendo spunto da altri ambiti disciplinari. Si aprivano finestre che, però, man mano ho chiuso. Le sollecitazioni erano tante ma non volevo fare un trattato sull’invidia.

    Sono convinto che negare l’invidia non serve a nulla e far finta che tutto vada bene porta solo guai. Ne abbiamo continue conferme. Meglio dare un nome alle emozioni, ai nostri sentimenti e alle nostre passioni, capirne per tempo i messaggi e le dinamiche che stanno sotto. È meglio prevenire, o cercare almeno di intervenire in tempo, che curare. Ma a volte bisogna anche curare. Mettere la testa sotto la sabbia non aiuta, anzi si rischia di soffocare.

    L’invidia fa male alle relazioni, alla convivenza con gli altri, complica la vita dell’invidiato e a volte distrugge delle belle realizzazioni, ma fa vivere male anche a chi la rumina dentro di sé, perché gli impedisce di esprimere i suoi stessi talenti. L’erba del vicino non è sempre la migliore. A volte il meglio è dentro di noi. L’invidia ci fa perdere l’occasione di coltivarlo e di farlo fiorire.

    E non pensiamo che basti una spruzzata di spiritualità per cambiare le cose. A volte rischia di essere un’etichetta che mettiamo sui nostri comportamenti, ma che nasconde altro. Una buona spiritualità aiuta a vivere diversamente le nostre esperienze emotive, compresa l’invidia. Ma è tale se ascolta e fa propria la voce dello Spirito che crea legami d’amore e di reciproca compassione. Solo l’amore cambia il nostro modo di vedere e di comportarci di conseguenza: ci aiuta a vincere la tentazione dell’in-videre, tipico dell’invidia, per vedere con occhio compassionevole gli altri ma anche l’altro che siamo noi.

    Anche a proposito dell’invidia è importante vedere cosa veramente passa dentro di noi e nelle persone che frequentiamo. E non passare oltre, ma cogliere i messaggi che questa emozione, questo sentimento, questa passione ci vuole mandare.

    Se passiamo oltre, come il sacerdote e il levita della parabola del samaritano, magari ci sentiamo tranquilli nell’obbedire alle nostre ritualità quotidiane, ma intanto le nostre bellezze, anche quelle più sacre, il tarlo dell’invidia se le mangia. E non abbiamo più niente da consegnare a chi viene dopo di noi o, forse, solo bei sogni, nostalgie e rimpianti: la polvere farinosa che il tarlo dell’invidia ci regala. È sempre importante capire, dare un nome a ciò che viviamo, e intervenire per tempo. Anche perché le ferite che l’invidia lascia dietro di sé sono difficili da curare. Spero che questo mio libro aiuti a diventarne consapevoli.

    Se per l’invidia del diavolo abbiamo perso il paradiso terrestre, per l’invidia di altri diavoli richiamo di perdere altri piccoli paradisi.

    1. L’invidia ci accompagna

    Fin dal principio

    In principio c’era la Parola ed era una parola d’amore. Ma molto presto è entrata anche l’invidia, e con l’invidia è entrato il male nel mondo. Ce lo ricorda la Bibbia: «per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono» (Sapienza 2,24). È entrata la morte delle relazioni, la morte che divide, la morte che viene augurata al rivale, la morte che tortura e lentamente uccide anche colui che invidia. Il diavolo invidia Dio ma invidia anche la felicità di Adamo ed Eva e li contagia con il suo virus, lo sguardo malato su Dio e su ciò che gli appartiene e che Lui, secondo la falsa narrazione del diavolo, tiene geloso per sé: l’albero della conoscenza del bene e del male. La parola diavolo significa proprio colui che divide. Il diavolo divide Adamo ed Eva, che si rimpallano le accuse, e li divide da Dio dal quale vergognosi si nascondono. Prima erano nudi davanti a lui, in piena confidenza, ora si coprono e si difendono. L’invidia divide e la divisione genera ulteriore invidia, che fa stare male senza alcun vero vantaggio. Dell’invidia ci si vergogna e ci si nasconde. Confrontarsi con Dio è stato un grande errore.

    L’invidia è un’emozione che apre alla conoscenza di sentieri inesplorati del cuore umano, va quindi compresa, elaborata e governata. Secondo Sigmund Freud e Melanie Klein l’invidia accompagna il bambino fin da piccolo, è costitutiva della condizione umana e dobbiamo trovare il modo di riconoscerla e gestirla. Per Giovanni Salonia, e altri con lui, «l’invidia è uno dei tanti modi con cui si reagisce al limite creaturale, avvertito in modo particolarmente intenso quando ci manca qualcosa e vediamo che l’altro la possiede»1. Va quindi compresa come una caratteristica che fa parte della nostra creaturalità ed elaborata nei suoi aspetti relazionali. A dire il vero l’invidia ha tanti volti ed espressioni diverse.

    Un particolare tipo di invidia è quella dell’oramai, mescolata alla nostalgia delle occasioni perdute, che si comincia a sentirla quando siamo avanti negli anni e abbiamo la sensazione che il treno sia passato e certi sogni non possano più essere realizzati. È l’invidia di ciò che poteva essere e non è stato, e l’invidia verso coloro che ce l’hanno fatta o hanno ancora tante occasioni per farcela, e noi no. A volte è mescolata a grandi o piccoli rimpianti.

    Qualcuno dice che l’invidia può essere anche positiva, un’invidia benigna, e fa l’esempio della famosa frase di Sant’Agostino: Se questi e queste, perché non io? Ma altri rispondono che questa si chiama emulazione. E ricordano che la vera invidia è sempre negativa, è sempre maligna: nel confronto con ciò che di buono e di bello l’altro possiede, non potendo averlo, l’invidioso fa di tutto per distruggere chi lo possiede. E i mezzi che si possono usare sono tanti: calunnie, maldicenze, bullying, mobbing e altro ancora.

    L’invidia nella sua versione negativa, a volte emozione passeggera e altre volte sentimento più strutturato, è un chiaro segno che la persona non ha ancora maturato ed elaborato una sana stima di sé, così da poter accogliere i doni dell’altro senza sentirsi minacciata nella propria identità. E tutto parte dal confrontarsi con l’altro, dal vedere (o dal credere di vedere), che piano piano diventa "in-videre, vedere in negativo, vedere-male, vedere il male, mal-occhio, vedere l’altro come un estraneo, un rivale o addirittura un nemico: vedere nell’altro ciò che ci manca, o anche semplicemente ciò che crediamo di non avere. O peggio ancora guardarlo con male-volenza che porta facilmente alla mal-dicenza".

    L’invidia è una malattia del vedere, dello sguardo. Un animo invidioso vedrà in modo rigido e ossessivo solo ciò di cui necessita per mantenere viva la propria invidia. Nasce da un vedere che non contempla, non accoglie, non gode del bene dell’altro ma vuole possedere ciò che l’altro ha di buono e, se non ci riesce, cerca di eliminare socialmente chi lo possiede. Nasce dalla convinzione che non c’è posto per due. È una percezione distorta che costruisce relazioni "mal-sane" e distruttive. È segno di un atteggiamento mentale (mindset) rigido e bloccato.

    Il confronto con la fortuna della persona invidiata può essere aggravato da ingiustizie vere, o percepite come tali, di cui la vita di tutti è piena. Il problema è che, mentre invidiamo i talenti altrui, non ci accorgiamo dei nostri o li sotterriamo. Visto che non possiamo essere i più belli del reame, che neanche Biancaneve sia riconosciuta e apprezzata come tale. L’invidia di ciò che Abele possedeva ha mosso la mano di Caino, ma lo faceva soffrire anche la gelosia per la preferenza percepita di Dio verso il fratello.

    Ciò che sostiene l’invidia è la ricerca di felicità o la rabbia per averla perduta. Ma è un errore pensare che si possa essere felici invidiando la felicità altrui. Crediamo di avere imboccato la strada giusta ma alla fine ci troviamo in un vicolo cieco, il navigatore emotivo ci ha portato fuori strada. Ci è mancata l’agilità emotiva per cambiare rotta in tempo2.

    Sintetizza molto bene Giovanni Salonia: «Non si può essere felici confrontandosi con gli altri o sperando che non ci siano felici sulla terra. Se – paradossalmente – l’invidioso riuscisse ad avere l’oggetto invidiato, non diventerebbe felice perché, nel fondo, lui non invidia l’oggetto in sé ma l’oggetto che fa felice l’altro. Si invidia sempre, in ultima analisi, la felicità dell’altro: se non sono felice io, nessuno deve essere felice»3. Si potrebbe dire che la persona felice non invidia. Anche la pubblicità gioca sull’invidia e sulla bellezza di essere invidiati come bisogno per confermare il proprio valore: una spendibile immagine sociale. A dire il vero c’è chi afferma che l’invidia rende più felici4. Ma su questo tornerò più avanti. Anche perché si potrebbe definirla emulazione e non invidia.

    È interessante anche capire quello che prova chi viene (o si sente) invidiato, cogliere cioè il bisogno di essere invidiati per confermare il proprio valore e il proprio narcisismo, il bisogno dello sguardo invidioso altrui, dello specchio sociale anche distorto, per sentirsi qualcuno. Su questo, a volte, qualcuno ci gioca un po’. A volte può essere l’invidiato che, più o meno consapevolmente, provoca le persone più fragili5.

    Per la Gestalt Therapy, nella quale Giovanni Salonia è un riconosciuto maestro, l’invidia è un blocco, o un tentativo non sano di evitare un percorso di consapevolezza di sé e un autentico incontro con l’altro, un vero con-tatto. Invece di riconoscere i propri limiti, la persona li evita e si concentra su ciò che vede, o crede di vedere, dell’altro e della sua felicità. Solo la capacità di riconoscere quello che siamo, limiti compresi, fa scoprire i propri talenti inesplorati, il tesoro nascosto nel nostro campo. L’invidioso non accetta il proprio limite e quindi non può partire da questa consapevolezza per superarlo o coglierne le possibilità anche non immediatamente visibili. Riprenderò questo discorso più avanti.

    Tutto è cominciato nel giardino dell’Eden, quando il serpente ha insinuato furbescamente, e bugiardamente, che il non mangiare la mela dell’albero sarebbe stato un divieto arbitrario di un Dio geloso e non un limite inerente al fatto che Adamo ed Eva erano due creature e che il Creatore era un altro. Le notizie false, le moderne fake news, c’erano fin da allora. L’invidia si nutre di tante bugie, ieri come oggi.

    L’invidioso fa del male a se stesso perché non si appropria di ciò che ha e non lo sviluppa. Gli manca l’atteggiamento mentale (mindset) di crescita e di sviluppo. Far fruttificare i talenti che abbiamo ricevuto è il talento più prezioso che, nutrito dalla gratitudine, dall’umiltà e dall’incontro gioioso con l’altro, conduce a far fiorire la nostra unicità e la nostra pienezza. Su questo la psicologia positiva, che non guarda solo ai nostri lati deboli ma soprattutto ai nostri punti di forza, ha aperto strade interessanti6.

    Personaggio mitico

    Nell’antichità romana l’invidia era vissuta come una forza potente e distruttiva, dalla qualche bisognava difendersi, una dea minore ma non meno potente e temibile delle altre divinità. È stato il poeta Ovidio a darne una prima e compiuta descrizione nelle Metamorfosi, al libro secondo7.

    Egli racconta che il dio Mercurio perse la testa per una giovane e bella donna di nome Erse, una delle tre figlie del re di Atene. Fece quindi di tutto per avere il suo amore. Scese dal cielo, entrò nella sua casa e si accordò con la sorella Aglauro, sua complice, in cambio di una bella ricompensa. La cosa non passò inosservata agli occhi di Minerva che volle punire la complice Aglauro, con la quale aveva un conto in sospeso, e incaricò Invidia di infettarla col suo veleno. Aglauro divenne invidiosa della sorella Erse e impedì a Mercurio di incontrare la sua amata. Mercurio cercò invano di vincere la sua opposizione e alla fine la punì pietrificandola. In pochi versi Ovidio ha tracciato un bell’identikit dell’invidia e dell’invidioso.

    È significativa la descrizione che Ovidio fa della casa di Invidia: «È una casa nascosta in fondo a una valle, una casa priva di sole, senza un alito di vento, tetra, tutta intorpidita dal gelo, dove sempre manca il fuoco e sempre dilagano le nebbie». È una casa nascosta come è nascosto il sentimento dell’invidioso, perché inconfessabile. Nessuno ammette di essere invidioso o nasconde questo sentimento sotto altre vesti perché se ne vergogna.

    La casa dell’Invidia è fredda perché manca il calore della vita. Lo spettacolo che Minerva si trova davanti quando va a trovarla è desolante. Invidia «si alza pigramente da terra, lasciandosi alle spalle brandelli di serpenti mezzo rosicchiati, e avanza con passo incerto: quando scorge la dea lucente d’armi in tutto il suo fulgore, manda un gemito, contraendo il volto nel conato dei sospiri. Il pallore le segna il viso, la magrezza tutto il corpo; mai dritto lo sguardo, ha denti lividi e guasti, il cuore verde di bile, la lingua tinta di veleno. Senza un’ombra di sorriso, se non mosso dalla sventura altrui, non gode del sonno, agitata com’è dall’assillo dei suoi crucci; con astio apprende i successi degli uomini e quando li apprende si strugge; strazia ed è straziata al tempo stesso: questo il suo tormento». Efficace la descrizione dello sguardo di traverso, strabico, dell’invidia, incapace di sorridere perché infelice. La bocca è corrosa dalla maldicenza.

    Anche se a malincuore, Invidia obbedisce a Minerva e infetta del suo veleno Aglauro che da quel momento sarà ossessionata dalla vista della felicità della sorella. Il finale è fin troppo significativo: la sua stessa invidia la ucciderà. Mercurio la punirà pietrificandola. L’accenno al collo, e quindi alle vie respiratorie, non è casuale perché il senso di soffocamento provato alla vista della felicità caratterizza l’antropologia dell’invidioso.

    Già gli antichi filosofi sottolineavano come proprio la prossimità tra invidioso e invidiato fosse fondamentale per l’innescarsi dell’invidia: una prossimità intesa a livello di tempo, di spazio, di età, di ceto sociale e di rapporti personali. È una prossimità, una vista, che non stimola l’emulazione o la sana competizione ma un sentimento di rabbia e di invidia che blocca, rende scontenti di se stessi, incapaci di osare e fa morire i propri stessi talenti. Come a dire che l’invidia è un boomerang pericoloso che, gira e gira, alla fine colpisce chi lo tira.

    Gli invidiosi hanno usato male in vita i loro occhi e Dante, per contrappasso, li ritrae crudamente nel Purgatorio con gli occhi cuciti da un filo di ferro. Se poi l’invidia si manifesta nello sguardo torvo, spesso si esprime con lingua acuminata e biforcuta. La calunnia e la diffamazione sono le sue armi preferite. La raffigurazione che fa Giotto, nella Cappella degli Scrovegni di Padova, mostra l’invidia come una vecchia donna, avvolta da fiamme che indicano il suo tormento interiore e dalla cui bocca esce un serpente che si ritorce contro i suoi occhi. Le sue orecchie animali di lunghezza spropositata dicono la sua attitudine ad ascoltare maldicenze e calunnie. Mentre la mano destra si protende a prendere qualcosa, con la mano sinistra stringe con forza un sacchetto di monete, a sottolineare il legame tra invidia e avidità.

    Passione triste

    Tutti gli studiosi sono concordi nel dire che l’invidia sia l’unico dei sette peccati capitali che nessuno è disposto ad ammettere. È una passione che non si può far vedere, una passione triste8. A differenza di altre passioni, non crea piacere, o forse solo il piacere malato nel vedere l’altro soffrire. Cresce nell’ombra, in silenzio, ed è tanto più insidiosa in quanto è spesso mascherata da falsa bene-volenza.

    L’unico indizio evidente è lo sguardo. Lo sguardo ha molto a che fare con l’invidia, come ci conferma la stessa etimologia della parola: in-videre vuol dire guardare male, guardare di traverso, guardare con male-volenza. In quello sguardo si esprime una sofferenza di fronte al bene, alle qualità, alla superiorità e alla felicità dell’altro, perché il bene dell’altro viene percepito come una minaccia alla propria identità, al proprio valore, fa sentire inferiori e perdenti. Si avvertono di più le proprie carenze. È come se, nel confronto, ci si sentisse derubati di qualcosa di dovuto.

    L’invidia, specialmente per la cultura di oggi, ha a che fare con il narcisismo. E il confronto perdente con l’altro viene vissuto come una ferita narcisistica, un colpo basso alla propria immagine. L’invidia è un’emozione sociale, una passione relazionale, dove il proprio bene e benessere, e il proprio valore, vengono misurati in relazione a quello dell’altro. L’invidia presuppone il confronto. E non si può ammetterla perché sarebbe come un dichiarare la propria inferiorità nei confronti dell’altro, un portare allo scoperto quello che viene attentamente nascosto.

    Nel confronto si annida il germe dell’invidia e questo è un bel problema perché è proprio il confronto una struttura fondante della socialità. Siamo esseri mimetici, portati a paragonarci agli altri, immersi in un tessuto relazionale all’interno del quale, fin da piccoli, si forma la nostra stessa identità. Potremmo quindi dire che siamo portati all’invidia. Ma questo si esprime, in particolare, quando il confronto avviene in un settore a cui teniamo molto, a cui diamo particolare valore perché è un tratto distintivo e costruttivo della nostra stessa identità, un campo nel quale sentiamo di poterci misurare con l’altro. Solo che non vogliamo perdere. La differenza che vediamo ci ricorda con dolore le nostre incapacità e i nostri desideri frustrati. Ed è quindi proprio nella prossimità e nella somiglianza che il confronto diventa particolarmente doloroso, una ferita narcisistica appunto, un’immagine che va in

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