Sillabario di musica: Fantasie cromatiche di un violinista
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Anteprima del libro
Sillabario di musica - Gabriele Raspanti
Zibaldone
Preludio
Non creda il benevolo lettore di trovarsi fra le mani un piccolo lessico per l’istruzione musicale, compilato con scrupolosi intenti didattici e provvisto di utili consigli. Si tratta piuttosto di un diario sentimentale che ha un’ambizione scoperta, ed è quella di indurre chi lo leggerà, magari digiuno di musica, ad abbandonare la diffidenza o, peggio, l’indifferenza che ispirano solitamente le pagine dedicate a quest’arte, persino quando a dettarne la prosa e a scandire il suo ritmo sia una voce autorevole e ammantata del carisma di una fulgida carriera.
È risaputo che i musicisti, anche i maggiori, hanno raramente dimestichezza con le parole, perché si muovono con agio solo quando si trovano sul più congeniale perimetro tracciato dal pentagramma: qui possono dispiegare le loro grandi ali «come per abbracciare qualche arca santa», proprio come l’albatro immacolato e regale di Melville, posato sopra il ponte della nave. Che tuttavia, quando non può alzarsi il volo, rischia di trasformarsi in quello goffo e impacciato di Baudelaire, su un’altra più crudele nave.
Il mio è stato un piccolo cabotaggio, che dopo una paziente ricognizione, ha prodotto un indice alfabetico da cui sono scaturiti pensieri molto spesso renitenti ad essere legati da un filo logico, ma germogliati tutti dallo stesso terreno in cui hanno affondato le loro radici nel corso dei numerosi anni d’insegnamento, o grazie alla vicinanza ininterrotta con le nuove generazioni, o ancora durante l’assidua e pensosa frequentazione di librerie e sale da concerto.
Che la vita sia in ordine alfabetico – parafrasando in positivo il titolo di un libro del vasto catalogo einaudiano – è una bizzarria enciclopedica che mi piace assecondare ancorandola a queste pagine. Il libro, va detto, allude solo nel titolo ai celeberrimi sillabari di Goffredo Parise, la cui biografia movimentata e turbinosa offrirebbe di per sé materia per qualche altro nutrito indice. Frutto invece di una vita solo interiormente inquieta e spesso irresoluta, il mio è l’approdo in lettere di un’esistenza dedicata alla musica e ai libri, con esiti incerti e con la provvisorietà di una partita in cui i contendenti devono muovere ancora le ultime pedine.
Qui si parlerà, talvolta con ritrosia, talvolta con fervore, non solo di musica, ma anche di persone, luoghi, fatti, idee. E di qualche libro. Tra il serio, più spesso, e il faceto, qualche volta, le riflessioni si dispiegheranno seguendo la libertà dello stylus phantasticus barocco, fra Toccate, Ricercari, Fantasie e qualche concessione autobiografica, solo per quel tanto che basta a condividere con il lettore uno stato d’animo o un’impressione.
Se occorre poi trovare un intento pedagogico a ogni costo, sarà quello di indurre i lettori più curiosi all’ascolto delle musiche e alla lettura di quei libri qua e là soltanto evocati, ed anche, perché no, all’approfondimento dei tanti argomenti affrontati, forse non sempre sine ira et studio, ma sempre con quella partecipazione appassionata che chiede e ottiene facilmente il perdono, anche quando sfiora di sfuggita la partigianeria. L’auspicio è che il lettore strada facendo si lasci coinvolgere dalle riflessioni e dagli spunti che il libro cercherà di offrigli voce dopo voce, e decida di intraprendere a sua volta un viaggio con in mano il sillabario come guida, quasi un Baedeker d’altri tempi. Il che potrebbe offrire a me l’occasione per aggiungere nuove idee e magari riversare sulla carta altre voci per ulteriori sillabari. In questo modo sarebbe forse possibile tracciare nuovamente le linee di una storia del mondo in cinquecento parole, come quella che Eugenio D’Ors scrisse alle soglie della Seconda Guerra Mondiale. Fece appena in tempo, perché dopo di allora per descrivere il mondo in rovina le parole non sarebbero più bastate.
E nemmeno le lacrime.
Accordatura
Il vento che nasce e muore
nell’ora che s’annera
suonasse te pure stasera
scordato strumento,
cuore.
Che un sillabario musicale si apra con l’accordatura è un atto dovuto, quasi un rituale preliminare. Come in un concerto, anche qui gli strumenti prendono il «la» e annunciano una sinfonia di suoni e suggestioni. Non stupirà nemmeno che in esergo si leggano i versi di Eugenio Montale. Quando ancora la poesia non aveva preso il sopravvento, la sua voce di baritono brillante gli avrebbe forse garantito un avvenire nel mondo della lirica, se il suo insegnante di canto e mentore Ernesto Sivori non fosse scomparso improvvisamente. Quella morte liberò il giovane allievo dall’obbligo morale che lo vincolava a una promessa di riscatto che ogni maestro di bottega, sia pure nel regno aleatorio dei suoni, affida ai propri allievi. Con la consueta ironia che dispensava nei suoi resoconti biografici, il poeta stesso raccontò in un’intervista televisiva questo capitolo della sua vita, a cui aggiunse la confessione per nulla dolente che a conti fatti quella rinuncia fu la scelta più giusta: per intraprendere la carriera dell’artista lirico occorreva possedere, a suo dire, genio e imbecillità, e a lui difettavano entrambi. La vita, si sa, talvolta cambia rotta all’improvviso, ma assecondando un destino già scritto; a beneficio della poesia, in questo caso. Del resto, anche Einstein confessò, sul finire degli anni ’20, che se non fosse stato un fisico sarebbe diventato con ogni probabilità un musicista, e decisamente la fisica anche qui ne ha guadagnato.
Se Montale non calcò i palcoscenici dei teatri vestito in calzamaglia o in redingote, continuò tuttavia a frequentarne i palchi e le platee per il resto della vita, scrivendo, recensendo e perfino poetando sull’onda della suggestione di un preludio di Debussy o di una cabaletta di Verdi. Si spiega così perché la sua prima raccolta poetica pubblicata su un’effimera rivista torinese si intitolasse Accordi: allusione che non può ascriversi solamente a una generica volontà di connotare melodicamente i suoi versi. Quel titolo allude a un vero e proprio programma, nel senso più musicale del termine, e suggerisce il percorso al lettore, che diviene quasi un ascoltatore, con la brochure tra le mani.
E di accordi Montale fu alla perenne ricerca, dentro al pentagramma e fuori: per questo sono sicuro che egli fosse consapevole di ciò che sfugge anche ai più avvertiti frequentatori delle sale da concerto, per i quali l’accordatura consiste semplicemente nell’intonare uno strumento alla giusta altezza, secondo un diapason prestabilito. È vero, ma non è tutto. Perché c’è qualcosa di molto più profondo e di misterioso in quest’azione che gran parte dei musicisti compie ogni giorno, più volte, con pazienza che rasenta l’abnegazione: è la ricerca di una sintonia con l’universo.
La sapienza antica aveva popolato il cielo di suoni, quando ancora l’occhio nudo non poteva esplorarne la realtà fisica. Geniale creazione dei nostri avi, quella musica, inudibile alle orecchie ma viva nel pensiero, compensava con il suo silenzio magico la nostra cecità. Allora i pianeti erano musici sublimi a cui occorreva prestare devota attenzione.
Quando si accorda uno strumento perciò non si crea soltanto un rapporto con la materia terrena, tendendo o allentando una corda, ma si istituisce anche un’intesa superiore con l’universo. Così, se accordare più strumenti fra loro è indispensabile per suonare con la giusta intonazione, ancora più importante è trovare quella consonanza con il mondo iperuranio da cui l’accordatura discende, per ricostituire in terra l’armonia perfetta che l’uomo ha sempre attribuito all’universo sonoro.
Plotino scrive nelle Enneadi che «la musica sensibile è prodotta da una musica che precede il sensibile»: è solo questione di tempo, quindi, cosmico prima, umano poi. Non per caso i Greci avevano una parola per esprimere il «tempo opportuno», quello in cui avvenivano le cose, il kairòs, e una per esprimere l’eterno nella sua immota fissità, l’aiòn: forse tutta la musica del mondo è già scritta e a noi spetta solamente il compito di traghettarla quaggiù fra i vivi nel momento opportuno?
Ecco perché l’accordatura non è mai un’operazione neutra e priva di conseguenze, ecco perché accordare non serve solo a preparare la strada all’intesa fra musicisti, ma serve anche a creare il legame con un altrove inaccessibile al nostro udito, che guida segretamente l’armonia terrena con il suo concerto celeste. Principio unificatore della realtà sonora, la musica degli astri e delle sfere ha sempre ispirato l’uomo a cantare in terra la gloria pagana di una realtà ultraterrena prima, che si è poi cristianamente riversata su Dio, divenuto a sua volta il musico supremo: «Et io vorrei più tosto imparare ad accordare il mio animo, che non discordasse dalla concordia delle cose di Dio», scriveva il fiorentino Anton Francesco Doni a metà del Cinquecento, combinando fede e neoplatonismo rinascimentale. «Un accordo perfettamente intonato è l’espressione sonora della divinità, e conforma l’anima a ricevere la rivelazione della bellezza attraverso lo strumento dell’udito». Inutile provare a risalire alla fonte di questa citazione, perché è pura invenzione. Ma potrebbe essere tratta dal De Musica di Sant’Agostino, o rubata a un trattato di Leibniz, che ci ricorda come l’uomo quando ascolta la musica diventi matematico suo malgrado, compiendo calcoli e numerazioni involontarie. Non a caso questa emanazione del divino era ben chiara a chi teorizzava di suoni e di armonie, si chiamasse Agostino, Boezio o Marziano Capella: nel quadrivio la musica divideva il posto con l’aritmetica, la geometria e l’astronomia, scienze dei numeri e quindi divine. Perché la musica è sapienza antica quanto l’uomo, il quale ha dispiegato il canto ancora prima di cominciare a parlare. Dunque, trovare un accordo non è forse l’origine della socialità stessa e di ogni forma di convivenza? Ancora una volta la musica e i musicisti sanno indicare la via.
E se di cosmo si tratta quando parliamo di musica e di «accordi», questo spiega perché Haydn si sia commosso ascoltando per la prima volta l’introduzione corale del suo oratorio La Creazione e abbia esclamato in lacrime: «Non sono stato io a scriverlo. Non potrei averlo fatto». Semplice modestia o celeste consapevolezza? Anch’egli avrebbe potuto dire, come lo scrittore Wilhelm Heinrich Wackenroder, che la musica «l’abbiamo imparata non sappiamo dove e come, e soltanto si potrebbe credere che sia la lingua degli angeli».
L’accordatura come operazione preliminare a ogni esecuzione musicale è anche il preambolo mistico che precede di poco il buio nella sala o nel teatro, perché la musica possa scaturire dalla tensione del silenzio degli strumenti appena accordati e disposti come un coro angelico; quel silenzio in cui tutti i cuori ritrovano la voluttà dell’attesa. «Cuore» e «accordo»: due parole che poggiano su una stessa radice, un’unica relazione di cui si è perso il sentimento, quando al cuore si è sostituita per assonanza la corda. Ma accordare è rendere consonanti ancor prima delle corde proprio i cuori. Esercizio di pazienza e a