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Le grandi battaglie delle crociate
Le grandi battaglie delle crociate
Le grandi battaglie delle crociate
E-book650 pagine9 ore

Le grandi battaglie delle crociate

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Tre secoli di guerre che cambiarono la storia

Lo scontro totale tra Islam e cristianesimo che insanguinò il medioevo

La storia delle battaglie tra Islam e cristianesimo è una lunga scia di sangue, che visse la sua fase più acuta nei tre secoli circa in cui si concentrarono le crociate. La prima di queste imprese, ricche di epica quanto di meschinità e crudeltà, portò gli occidentali alla conquista di Gerusalemme nel 1099, grazie alle gesta di condottieri come Goffredo di Buglione e suo fratello Baldovino I. Ma meno di un secolo e una crociata dopo il Saladino recuperò la Città Santa all’Islam e sottrasse ai Franchi, come venivano chiamati in Oriente i cavalieri provenienti dall’Europa, gran parte delle loro terre. I crociati tentarono una reazione con alcuni dei più grandi condottieri dell’epoca, come Federico Barbarossa e Riccardo Cuor di Leone, ma nonostante gli sforzi i possedimenti cristiani si sarebbero progressivamente e irrimediabilmente erosi, fino a scomparire del tutto in Terrasanta. Dopo di allora, i cristiani si sarebbero dovuti preoccupare di fronteggiare l’avanzata musulmana nel cuore dell’Europa, andando incontro a nuove, devastanti disfatte come a Nicopoli e Varna.

Gli eserciti, gli scontri campali, gli assedi, i protagonisti di una terribile pagina di storia 

Tra le battaglie trattate:

• L’antefatto: Manzikert (1071)
• Alla volta di Gerusalemme: Antiochia (1097-1098)
• L’assedio e la conquista: Gerusalemme (1099)
• Il vento dell’Islam: Corni di Hattin (1187)
• La crociata del Leone: Arsuf (1191)
• Le battaglie anomale: Costantinopoli (1203-1204)
• Ai confini della Cristianità: Šiauliai (1236)
• Le spedizioni del re Santo: Damietta (1249)
• La fine d’Outremer: San Giovanni d’Acri (1291)
• Le crociate sul mare: Rodi (1306-1309)
• Gli ultimi fuochi: Nicopoli (1396)
Enzo Valentini
Saggista storico, si occupa da trent’anni di Medioevo e di Storia templare. Oltre agli interventi per conferenze e convegni, è autore di libri sull’argomento e di articoli per riviste specialistiche. Dal 1985 è segretario nazionale della Libera Associazione Ricercatori Templari Italiani ( LARTI). Con la Newton Compton ha pubblicato Storia segreta dei templari e Le grandi battaglie delle crociate.
LinguaItaliano
Data di uscita7 nov 2016
ISBN9788854199453
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    Anteprima del libro

    Le grandi battaglie delle crociate - Enzo Valentini

    Premessa

    «La Crociata ebbe il potere di canalizzare le abilità belliche, acquisite nelle piccole guerre, nel disegno di una strategia a largo raggio che non era del tutto priva di precedenti».

    (A.A. Settia, L’europeo aggressore)

    La storia dell’uomo è sempre stata punteggiata da innumerevoli guerre, battaglie, assedi e scaramucce, generate dai motivi più disparati: dalla necessità di espansione territoriale al consolidamento del potere politico, dal controllo di mercati e zone di produzione ai conflitti religiosi.

    Volendo realizzare un libro sui risvolti militari delle vicende umane, il primo problema che si è presentato è stato quello di applicare degli appositi filtri per restringere il campo dell’indagine, sia dal punto di vista geografico che temporale, analizzando gli episodi più importanti o più interessanti per il taglio tecnico dato alla pubblicazione.

    Fra le tante epoche storiche è stato individuato il periodo delle crociate perché, al di là dello scontro religioso fra Cristianesimo e Islam, il pellegrinaggio armato proclamato da Urbano ii a Clermont ha rappresentato il primo esercito, regolarmente costituito, che andava a combattere fuori dall’Europa dopo la caduta dell’impero romano.

    Certo, già altri soldati occidentali si erano spostati nell’impero bizantino, servendo come mercenari, oppure avevano navigato nel Mediterraneo, in servizio di scorta sulle galee di qualche repubblica marinara; si era trattato però di gruppi isolati e di situazioni sporadiche, lontane dal «disegno di una strategia a largo raggio» delle crociate, in cui si manifestarono «le abilità belliche, acquisite nelle piccole guerre». Ora, giustificati dall’alto valore della loro missione, i crociati avevano l’occasione di andare alla conquista di nuovi territori e di scontrarsi con popolazioni sconosciute, almeno sul piano militare.

    Individuato l’argomento principale, più difficile è stato precisarne effettivamente i limiti geografici e temporali: per grandi linee quelli scelti sono costituiti dalla Terrasanta e dai paesi confinanti, per un periodo che va dalla chiamata di Urbano ii fino alla caduta di Costantinopoli del 1453, termine che in realtà supera abbondantemente la fine ufficiale delle crociate, coincidente con il grande assedio di Acri nel 1291 e la cacciata dei cristiani dal suolo di Outremer. Questo spostamento cronologico si è reso necessario per dare al testo una conclusione logica, chiudendo, a metà secolo xv con la scomparsa definitiva dell’impero bizantino, un ciclo storico iniziato nel 1071, quando la vittoria turca a Manzikert aveva originato la richiesta di aiuto all’Occidente da parte di Alessio Comneno, che proprio quell’impero voleva salvare.

    Certamente, anche dopo questo evento epocale scoppieranno altre guerre contro l’impero turco, ormai alle porte d’Europa: le vittorie agli assedi di Vienna del 1529 e del 1683 servirono per fermare l’invasione dell’Occidente; il combattimento navale di Lepanto del 1571 fu necessario per ridimensionare il dominio turco nel Mediterraneo; nel 1697 la battaglia di Zenta sul fiume Tibisco, nel più ampio contesto del conflitto austro-turco, bloccò per l’ultima volta i grandi piani di espansione ottomana verso ovest. Furono però episodi eccezionali inseriti in una guerra più ampia, mai espressamente dichiarata ma sempre combattuta, e spesso considerati al pari delle crociate ufficiali; al contrario, lo stesso non accadde per gli assedi posti dai musulmani, a Rodi nel 1522 e nell’arcipelago maltese nel 1565, per interrompere il costante pattugliamento navale effettuato nel Mediterraneo dall’Ordine di Malta, che in questo modo proseguiva l’ideale dell’antico Ordine di San Giovanni.

    Con le difficoltà di identificazione della crociata e nella necessità di stesura di un piano di lavoro, sono stati cercati dei distinguo che potessero essere d’aiuto nella scelta di altri eventi militari da inserire nel testo, oltre a quelli già contenuti nei confini spazio-temporali specificati precedentemente.

    Riprendendo il tema principale del libro, ossia quello di raccontare la storia militare delle crociate, è stato deciso di escludere la Reconquista, oltre che per la vastità dell’argomento, soprattutto per la differente natura dei combattimenti posti in essere nel corso dei suoi sette secoli e mezzo di durata. Tranne in rari casi, uno per tutti l’epocale battaglia di Las Navas de Tolosa del 1212, che vide la vittoria degli eserciti cristiani, la guerra nella Penisola iberica non fu mai caratterizzata da grandi scontri campali; si trattò invece, per la maggior parte, di scaramucce, incursioni e scorrerie, come le spedizioni di razzia di Almanzor, a cavallo dell’xi secolo: una costante guerriglia di frontiera, finalizzata da parte dei cristiani allo spostamento sempre più a sud del confine fra regni spagnoli e territori di Al Andalus.

    Al contrario, sono state previste delle eccezioni, con l’inserimento delle crociate del Nord, per la sottomissione delle popolazioni pagane nel Baltico, e quelle albigesi, dirette contro gli eretici della Francia meridionale, come dimostrazione di quanto l’ideale crociato, nato a Clermont, divenne nei secoli successivi il motore per autorizzare nuove spedizioni militari contro qualsiasi nemico o pericolo della società dell’epoca, al di là del credo professato.

    Inoltre è stato aggiunto anche un capitolo sulle battaglie anomale, svoltesi in Terrasanta durante il periodo crociato, quelle in cui gli schieramenti non videro un’opposizione netta e definita fra Cristianesimo e Islam: nel 1244, a La Forbie, le alleanze furono mescolate, con i musulmani alleati dei cristiani contro altri loro correligionari; invece, nella guerra di San Saba che stravolse gli equilibri politici ed economici di Outremer, le motivazioni dello scontro armato tra le repubbliche di Genova e Venezia furono solo per un puro predominio commerciale.

    In conclusione, con le già esposte eccezioni, questo testo affronterà principalmente la storia militare di Outremer, le tattiche, le strategie, le armi e i soldati che vi parteciparono; molte delle battaglie descritte sono state già ampiamente narrate, sia dai cronisti dell’epoca che dagli scrittori moderni, altre sono quasi sconosciute. Quelle scelte, però, di entità più o meno grande, accadute in tempi e luoghi diversi, hanno avuto conseguenze epocali, modificando e stravolgendo radicalmente assetti politici, economici e militari, con effetti che andarono ben oltre i confini dei territori in cui si svolsero. Di questi combattimenti sono state analizzate le motivazioni, raccontato lo svolgimento e illustrati i contraccolpi e gli strascichi che ne derivarono.

    A corollario della narrazione sono stati inseriti delle appendici di approfondimento sui personaggi o su grandi strutture, come gli Ordini militari, che furono protagonisti degli eventi, nonché sui soldati dei vari eserciti, con le loro differenti dotazioni e tecniche militari, e su alcune armi particolari che hanno segnato il periodo preso in esame.

    Chiudono il testo un glossario di termini relativi alla guerra e una bibliografia ragionata, per comprendere meglio questi duecento anni di storia medievale, comunemente conosciuti con il nome di epopea delle crociate.

    Introduzione

    Questa genìa (i turchi), infatti, è sottomessa a Dioniso e ad Eros, molto proclive a rapporti sessuali di ogni genere, e, se si circoncide nella carne, non lo fa nelle passioni, ed è nient’altro che schiava e tre volte schiava dei vizi di Afrodite. E perciò venerano e adorano anche Astarte e Astaroth e tengono in maggior conto l’immagine della stella […].

    (I franchi), sentendo di spartizione e di ricchezze, disordinatamente imboccarono subito la strada che portava a Nicea, dimentichi, quasi, anche dell’esperienza militare e della disciplina che [si addice] ad uomini che vanno in guerra (la razza dei Latini è, d’altronde, avidissima di denaro, come prima si è detto, e quando si rivolge a far scorrerie su un territorio, non avvalendosi di alcuna ragione, è irrefrenabile), e, procedendo non in fila né a schiere, incapparono nei turchi appostati in imboscata presso il Draconte e furono miseramente massacrati¹.

    Nella prima metà del xii secolo Anna Comnena, figlia dell’imperatore bizantino Alessio i Comneno, descriveva con queste parole, non certo favorevoli, i nemici turchi e gli alleati cristiani, le due fazioni che si sarebbero scontrate nel corso della prima spedizione crociata. Due fazioni viste dagli occhi di un osservatore terzo, che non si fidava né degli uni né degli altri, ma che usava i secondi contro i primi.

    Si è parlato spesso delle crociate, dei pellegrinaggi armati per la salvezza dei Luoghi Santi, come uno scontro di civiltà, dell’Europa contro il mondo dell’Islam, dell’Occidente contro l’Oriente.

    In verità i confini non saranno mai così netti, forse solamente all’inizio, quando i franchi ancora non avevano preso ben conoscenza dei loro alleati e dei loro nemici. Successivamente, infatti, i confini di questi tre attori (europei, bizantini e musulmani) diventeranno sempre più sottili e le zone di grigio si faranno sempre più ampie: allora lo scontro iniziale si trasformerà in uno scambio, magari armato, di conoscenze sul piano umano, mercantile, artistico e sicuramente militare.

    Giunti in Terrasanta, i franchi incontrarono difficoltà nell’applicazione delle loro tecniche di combattimento: il clima diverso, il terreno sconosciuto, il nemico con una tattica differente e potenti armi mai viste prima di allora. Ma i crociati erano di due categorie: coloro che desideravano contribuire al recupero dei Luoghi Santi partecipando a una sola spedizione e poi, una volta assolto il voto di crociata, tornavano in patria, e coloro che avevano intenzione di stabilirsi definitivamente in Outremer. Naturalmente i primi non avevano necessità, né voglia, di imparare nuovi modi di combattere o modificare il loro armamento, cosa che invece diventava più importante per chi restava.

    Inoltre, pochi anni dopo la conquista della Città Santa, nasceva una nuova milizia cristiana, l’Ordine monastico-militare dei cavalieri templari, seguita dall’Ordine ospedaliero dei cavalieri di San Giovanni Gerosolimitano, da quello di Santa Maria Teutonica e, col tempo, da numerosi altri Ordini minori. Questi strani eserciti, che univano gli uomini di Chiesa a quelli di guerra, si erano resi necessari proprio per avere la presenza stabile di una forza militare che garantisse la difesa dei nuovi Stati latini, creati a seguito della prima crociata.

    Saranno questi monaci-cavalieri che, grazie alla loro continua presenza in Terrasanta, che sapranno adattarsi per primi ai nuovi scenari di guerra e alle nuove tattiche di combattimento, come tutti gli eserciti di occupazione di ogni tempo e latitudine.

    La prima modifica avviene nell’equipaggiamento individuale di ogni singolo soldato, con l’uso sempre più frequente delle armi sottratte al nemico, spesso più pratiche in combattimento come scimitarre e sciabole al posto della spada a lama dritta. La Regola del Tempio, ad esempio, prevedeva l’utilizzo di mazze turche da parte dei fratelli (articoli 427 e 557), nonché individuava nel maresciallo il responsabile delle armi strappate al nemico, che venivano riutilizzate dai cavalieri templari. In effetti lo scambio dovette essere stato reciproco se Jean de Joinville, nella cronaca della settima crociata, parla di saraceni che assaltano la sua nave armati di asce danesi.

    Per le nuove necessità militari, soprattutto per l’indispensabile conoscenza del territorio, verranno utilizzati corpi di soldati specializzati di origine indigena, al pari delle truppe coloniali organizzate dalle potenze occidentali in Africa e Asia, come gli spahis o gli ascari del Regio Esercito italiano. Si trattava di specifici reparti, composti per la maggior parte da arabi convertiti o da figli di sanguemisti, i cosiddetti turcopoli (in greco, figli dei turchi); erano già conosciuti nel mondo bizantino, ma saranno gli Ordini militari ad avvalersene per le nuove esigenze belliche di Terrasanta.

    Sul piano tecnologico gli occidentali si scontrarono con una nuova arma, chiamata fuoco greco perché utilizzata prima dai bizantini e in seguito anche dagli arabi. Sembra che sia stato inventato dall’architetto Kallinikos di Baalbek durante le guerre contro gli arabi, e viene citato per la prima volta nelle cronache di Teofane Confessore (758-818) e di Michele il Siriano (xii secolo), a proposito delle prime guerre arabo-bizantine del vii secolo; probabilmente, però, si tratta di un’invenzione modificata e perfezionata nel corso del tempo senza che se ne possa attribuire la paternità a un autore in particolare.

    La caratteristica principale del fuoco greco era di bruciare anche sull’acqua; per questo motivo era molto utilizzato nelle battaglie navali, come illustrato in una miniatura della Cronaca dello storico bizantino Giovanni Scilitze (circa 1040-1101/1110), in cui vengono raffigurati alcuni soldati greci a bordo di una piccola barca che, per mezzo di un lungo sifone, lanciano verso la nave nemica un liquido infiammabile che incendia il mare, avvolgendo tra le fiamme l’imbarcazione del generale ribelle Tommaso lo Slavo.

    Nell’Alessiade Anna Comnena racconta che suo padre l’imperatore Alessio Comneno

    conoscendo i Pisani esperti di combattimenti navali e temendo lo scontro con loro, su ciascuna prua delle navi fece costruire delle teste di leoni e di diversi animali terrestri, di bronzo o di ferro, con la bocca aperta, e le fece ricoprire di oro, sì da apparire una cosa terrificante alla sola vista; il fuoco, che doveva essere scagliato contro i nemici attraverso i sifoni, lo fece uscire attraverso le stesse bocche, in modo da sembrare che i leoni e gli altri simili animali lo eruttassero².

    Interessante, a proposito del fuoco greco, è il manoscritto di uno sconosciuto Marcus Graecus, probabilmente un bizantino di Costantinopoli, intitolato Liber ignium ad comburendum hostes, ossia Libro dei fuochi per bruciare i nemici. All’inizio dell’opera il suo autore specifica che il testo «contiene i metodi di provata virtù per bruciare i nemici come in mare così in terra».

    È un trattato, non molto corposo, all’interno del quale si trovano le informazioni necessarie sia per la fabbricazione delle sostanze infiammabili sia le avvertenze sulle procedure da seguire, come ad esempio evitare di miscelare gli ingredienti dentro un locale chiuso, perché è cosa pericolosa.

    Il fuoco greco si otteneva mescolando lo zolfo, il tartaro, la pece, il sale cotto, il petrolio e l’olio di gemma, tenuti insieme dalla sarcocolla, una resina utilizzata dai pittori; una volta acceso era praticamente inestinguibile e poteva essere spento solo con quattro semplici cose: «con aceto forte o con orina vecchia o con sabbia oppure con un feltro imbevuto nell’aceto più volte dopo averlo fatto essiccare ogni volta».

    La quantità e la qualità degli ingredienti, però, variava secondo l’uso che si doveva fare del prodotto finale: infatti si spiegava come fare l’olio di zolfo con cui bagnare il cotone posto sulla punta delle frecce incendiarie, come fabbricare una sostanza vischiosa che, una volta bagnata, prendeva fuoco e «con questo prodotto si può incendiare qualsiasi casa quando arriva la pioggia», oppure la miscela che, accesa, infiammava tutto ciò con cui veniva a contatto e «se vi si getta acqua sopra, si aumentano le fiamme». Interessanti sono le ricette per realizzare il fuoco volante:

    Nota che la composizione del fuoco volante nell’aria può essere di due tipi, il primo dei quali è: si prenda una parte di colofonia e altrettanto di zolfo vivo, due parti di salnitro; si polverizzi bene e si sciolga in olio di lino o di lamio, che è meglio. Poi si metta in una canna o in un legno cavo e si accenda. Essa vola in qualunque posto tu vorrai e brucia tutto.

    Il secondo modo per fare il fuoco volante è il seguente. Si prenda una libbra di zolfo naturale, due libbre di carbone di legno di vite o di salice, sei libbre di salnitro. Ridurre in polvere sottile le tre sostanze in un mortaio di marmo. Dopo si metta la quantità desiderata di polvere in un involucro per fare un fuoco volante o tonante. Nota che l’involucro per il fuoco volante deve essere sottile e lungo e riempito con la detta polvere ben compressa. Invece l’involucro per il fuoco tonante deve essere corto e spesso, ripieno per metà con la polvere e ben legato alle due estremità con robusto filo di ferro. Nota che in entrambi gli involucri deve essere fatto un piccolo foro affinché si possa accendere la miccia; la quale sia sottile alle estremità e nel mezzo più grossa e ripiena della stessa polvere. Nota che l’involucro del fuoco volante può avere molte pieghe; quello tonante ancora di più. Nota che si possono fare doppi fuochi tonanti e volanti inserendo un involucro nell’altro³.

    Forse erano questi i fuochi che gli egiziani lanciavano contro l’accampamento di san Luigi, durante il suo tentativo di conquista dell’Egitto. È il segretario del sovrano francese, Jean de Joinville, che descrive l’effetto che facevano questi oggetti volanti:

    Una sera, poco prima che noi montassimo di guardia alle torri e ai chats per la notte, successe che i saraceni fecero avanzare una macchina che si chiama petriera, cosa che non avevano ancora fatto, e misero il fuoco greco. […] Appena fecero il primo lancio, noi ci mettemmo sui gomiti e sui ginocchi, come ci era stato detto […] Lanciato, questo fuoco greco era tale che, visto da davanti, sembrava grande quanto un barilotto d’aceto e la coda di fuoco che ne usciva era lunga quanto una grande lancia. Faceva un tale rumore che sembrava la folgore del cielo; sembrava un dragone che volasse nell’aria. Quando cadeva, sprigionava una grande quantità di fuoco al chiarore del quale, nell’accampamento, sembrava che fosse giorno. Quella notte ci lanciarono il fuoco greco tre volte con la petriera e quattro volte con la balestra da torre⁴.

    Nel trattato è illustrato anche un utilizzo particolare del fuoco greco: gli emissari, che entravano nel campo o nella fortezza nemica con la scusa di intavolare trattative, dovevano portare dei bastoni cavi riempiti di liquido infiammabile, versandolo man mano lungo la strada percorsa; sarebbe stato poi il calore del sole a provocare un forte incendio.

    Il conflitto in Terrasanta, come in Europa, si combatteva anche sul piano non direttamente militare, attraverso deterrenti psicologici, finalizzati a incutere timore nell’avversario oppure a diffondere notizie errate sulla propria potenza militare. Saccheggiare, incendiare, distruggere una città appena occupata significava avere buone probabilità di conquistare la successiva senza quasi colpo ferire: la notizia delle crudeltà operate dai vincitori viaggiava rapida e terribile. D’altra parte, negli stessi anni delle crociate, nella sua cronaca il monaco normanno Goffredo Malaterra faceva dire a Ruggero d’Altavilla: «con le armi o con l’inganno purché si giunga alla vittoria», anticipando di secoli Il Principe di Machiavelli.

    Nel 1097, mentre si trovavano ad assediare Nicea, i crociati vennero assaliti dai turchi giunti in soccorso della città; come raccontato dall’anonimo autore delle Gesta francorum, i nemici

    avanzavano con volto giulivo […] ma, tanti ne arrivavano […], tanti ne avevano la testa mozza dai nostri, che poi gettavano con delle frombole le teste dei guerrieri decapitati oltre le mura della città, per incutere terrore tra i soldati della guarnigione turca⁵.

    Ben più crudele fu il comportamento del sultano Baibars, dopo la conquista del castello templare di Safed, in Galilea. Così raccontava il Templare di Tiro:

    E quando venne il 1267 dell’incarnazione di Cristo, questo sultano di Babilonia (Il Cairo) venne davanti [Acri], con tutto il suo esercito […] e sorprese la povera gente minuta nella piana di Acri, che era uscita a lavorare nei campi, e corse fino alle porte della città, e della gente minuta che aveva preso ne uccise cinquecento e più, dei quali non vi fu nessuno cui non fu tratto il fiele del corpo e tagliate le teste con i capelli attorno fin sopra le orecchie, che portarono a Safed e ci passarono attraverso una corda e le legarono attorno alla grande torre di Safed, e tanto vi restarono quanto durò la corda⁶.

    Spesso queste tattiche psicologiche venivano poste in essere anche dagli assediati nei confronti degli assedianti, per dimostrare la propria superiorità e di non temere la loro minaccia: nel 1153, durante l’assedio di Ascalona, gli abitanti della città appesero agli spalti i corpi dei templari che avevano tentato un’incursione attraverso una breccia nelle mura, provocata dai colpi di un mangano: catturati, erano stati uccisi e utilizzati per terrorizzare gli assalitori franchi.

    Inquadrabile anch’esso nell’ambito della guerra psicologica è l’utilizzo, da parte musulmana, di tamburi, cimbali, trombe e timpani (i nacaires descritti da Joinville), il cui fragoroso suono prima del combattimento aveva il duplice scopo di alzare il livello di tensione nelle proprie truppe e di innervosire l’avversario.

    Una curiosità, a questo proposito, è riportata dal domenicano fiorentino Riccoldo da Monte Croce nelle sue Epistole ad Ecclesiam triumphantem, in cui narra le condizioni di Acri dopo la conquista da parte dei musulmani nel 1291: insieme alle armi e alle vesti dei cristiani uccisi, nei mercati venivano venduti i numerosi oggetti religiosi saccheggiati nelle chiese, tra cui i fogli di pergamena tagliati dai libri sacri, che sarebbero stati utilizzati per costruire timpani e tamburi.

    Ma tra i fattori psicologici, questa volta motivazionali, rientrano anche quelli religiosi, esistenti in entrambi gli schieramenti, che combattevano in nome della propria guerra santa e giusta; il fronte crociato, però, poteva far conto sul possesso delle reliquie, un contatto tangibile con il divino che, proprio per questo, doveva garantire la vittoria dei cristiani: ecco allora che in testa agli eserciti franchi veniva portata la Vera Croce o la Sacra Lancia di Longino, trovate miracolosamente in quegli anni in Terrasanta, quasi un segno di Dio, oppure il latte della Vergine, in realtà una roccia bianca estratta da una grotta vicino Betlemme, portato dal vescovo Anschetino alla battaglia di Ascalona del 1123, che si risolse con la vittoria crociata. Al contrario, l’assenza o la perdita di queste reliquie influiva negativamente sull’esito del combattimento, come appunto la cattura della Vera Croce, da parte dei musulmani, nella sconfitta crociata dei Corni di Hattin del 1187.

    Ma il favore divino, come scrive il cronista Ambroise, era garantito anche ai singoli combattenti, grazie a scritte recanti il nome di Dio, che avevano il potere di deviare le frecce avversarie se indossate sotto l’armatura.

    Lo spionaggio è una pratica antica, e anche in Oriente si faceva grande utilizzo di spie e di infiltrati.

    Il sultano al-Mansur e i suoi successori, ad esempio, utilizzavano un capillare sistema di intelligence, costituito principalmente da mercanti e venditori ambulanti, avvantaggiati nella facilità di movimento grazie alle loro attività itineranti; si favoleggiava anche che il califfo al-Mamun (786-833) avesse assoldato come informatrici ben millesettecento anziane donne di Baghdad.

    Baibars, invece, aveva organizzato un veloce servizio di messaggeri segreti, affidato a Balaban al-Rumi, uno dei consiglieri più fidati del sultano mamelucco, che inizialmente diresse la struttura insieme a un altro dignitario, in seguito da solo. Questi corrieri, chiamati qussad, all’occorrenza fungevano anche da agenti e da spie, arrivando in alcuni frangenti a operare come sicari. Nessuno conosceva la loro identità e, nel caso fossero stati dei soldati, i comandanti erano all’oscuro degli incarichi e delle missioni che dovevano svolgere.

    A proposito della fuga di informazioni, Guglielmo di Tiro racconta come Boemondo fosse riuscito a risolvere, sia pure parzialmente, questo problema:

    C’era nel nostro campo un gran numero di queste spie; quando qualcuno di loro partiva, nel giro di qualche giorno, per andare a rendere conto dello stato dei nostri eserciti a coloro che li avevano inviati, ne arrivavano degli altri incaricati della stessa missione. Non era difficile agli uomini di questa specie di nascondersi fra i nostri; parlavano diverse lingue, alcuni dicevano di essere greci, altri siriani, altri armeni, e tutti interpretavano il loro personaggio con grande facilità di lingua, di costumi e di maniere. […]

    Poiché non si poteva trovare un mezzo efficace di difendersi da queste malvagità, si racconta che Boemondo […] ordinò, sul fare della notte, e mentre tutti erano, come sempre, occupati con i preparativi della cena, di far uscire di prigione dei turchi che tenevano ai ferri e consegnandoli ai boia li fece sgozzare; poi facendo accendere un gran fuoco, come per preparare la cena, ordinò che venissero arrostiti e fossero preparati con gran cura come per essere mangiati; infine ordinò ai suoi che, se fosse venuto qualcuno a chiedere notizie su questi preparativi, dovevano rispondere che i prìncipi avevano stabilito, nella loro riunione, che per il futuro tutti i nemici e le spie che fossero state catturate sarebbero state trattate nella stessa maniera, come nutrimento per i prìncipi e il popolo. […]

    Le spie che si trovavano tra i soldati, spaventati da questi fatti, credendo alla realtà di questa risoluzione, e non sospettando alcuna finzione, presero molto sul serio ciò che accadeva; […] si affrettarono a lasciare il campo e, di ritorno presso di loro, dissero a coloro che li avevano inviati: Questo popolo sorpassa in crudeltà tutte le altre nazioni e anche le bestie feroci. Non è sufficiente a questi uomini di togliere ai nemici le loro città, i loro castelli, e tutto ciò che possiedono, di gettarli in prigione, di torturarli come dei nemici, di dare loro la morte; bisogna ancora che si riempiano lo stomaco della loro carne, e che si ingrassino del loro sangue.

    Questi racconti si sparsero in tutto l’Oriente e arrivarono fino ai paesi più remoti; le nazioni più vicine e quelle che abitavano più lontano ne furono ugualmente spaventate. Così, grazie all’operato di Boemondo, il campo fu in gran parte purgato di questa grande peste delle spie […]⁷.

    Collegato allo spionaggio era l’uso da parte musulmana dei piccioni viaggiatori, veloce mezzo per comunicare le informazioni sottratte al nemico. Tutti i grandi condottieri musulmani li utilizzeranno, ma saranno in particolare Nur al-Din e successivamente Baibars a rafforzare la rete di collegamento tra i vari punti di sosta, affidando la cura degli animali a personale specializzato ben remunerato.

    L’anno 567 (1170-1172), el-Malec el-A’del Nour ed-Din (Nur al-Din) ordinò l’impiego dei piccioni viaggiatori, che chiamano anche piccioni da corsa, e che hanno l’abitudine di ritornare verso il loro nido, anche da contrade lontane. Ne stabilì in tutte le sue città, poiché i suoi stati erano diventati troppo vasti e il suo regno era in forte espansione. […] Egli scrisse, perciò, a tutte le città, ordinando la creazione della posta con i piccioni, e assegnò dei compiti alle persone incaricate di allevare e di crescere questi animali. Questa istituzione gli procurò una grande tranquillità di spirito, poiché le notizie gli arrivavano quasi istantaneamente. In ciascuna delle sue piazzeforti c’erano degli addetti che avevano presso di loro i piccioni appartenenti alla città vicina, e quando essi vedevano o udivano qualcosa di serio, lo riportavano in uno scritto che attaccavano all’ala di un piccione. L’uccello, liberato, volava verso la città d’origine e arrivava in meno di un’ora. Laggiù gli si toglieva il biglietto per legarlo a un altro piccione, appartenente alla città situata nelle vicinanze e nella direzione del luogo dove si trovava Norandino. Ciò si ripeteva fino a che il biglietto non gli fosse arrivato⁸.

    Esisteva una struttura ben organizzata che presiedeva a questo servizio, composta da personale addestrato allo scopo: il colombaio era sotto la responsabilità di un capo (sahib al-burg), che aveva il compito di consegnare il messaggio al destinatario; era coadiuvato dai guardiani (barrag), che scrutavano l’orizzonte per avvistare tempestivamente l’arrivo dei piccioni; esistevano poi altri addetti che avevano cura degli animali, ricoverandoli subito nelle gabbie appena giunti dal viaggio; i servitori si occupavano della gestione dell’edificio e della sua pulizia; gli stallieri accudivano le cavalcature; infine, molto probabilmente, uno scrivano doveva redigere i messaggi in partenza e leggeva quelli in arrivo.

    In genere i punti di sosta di questo servizio di comunicazione erano situati sulla sommità di colline, come il castello di Ajloun (Qala’at ar-Rabat), posto a controllo della valle del Giordano, sulla linea che collegava Il Cairo a Damasco: un messaggio, trasmesso con questo mezzo, arrivava da una città all’altra in meno di un giorno. La rapidità di trasmissione era vitale in caso di richiesta di soccorso: nel 1174 il governatore di Alessandria d’Egitto, assediata dalla flotta di Guglielmo ii di Sicilia, chiese rinforzi inviando un piccione viaggiatore a Saladino, distante circa duecento chilometri; l’aiuto del sultano, giunto dopo pochi giorni, impedì la caduta della città in mani cristiane.

    Spesso, però, i messaggeri volanti incappavano in incidenti di percorso, come accadde a quello lanciato nel maggio 1099, per mezzo del quale il governatore di Acri esortava i musulmani di Palestina a reagire contro l’invasione crociata; purtroppo, mentre era in volo, il piccione venne ucciso da un rapace e cadde proprio sopra le tende dei franchi, accampati nei pressi di Cesarea, che scoprirono così il contenuto del messaggio.

    Altrettanto vitale era la risposta ai dispacci ricevuti, come si deduce da un episodio raccontato da Jean de Joinville e accaduto durante la campagna d’Egitto di Luigi ix: «I saraceni annunciarono al sultano, per tre volte con i piccioni viaggiatori, che il re era sbarcato, senza però riceverne risposta perché il sultano era malato; vedendo questo pensarono che il sultano fosse morto e abbandonarono Damietta»⁹.

    Secondo quanto riferiscono i cronisti orientali, i franchi si meravigliarono di questa particolare posta aerea, o barid jawi come la chiamavano in Terrasanta; ben presto però presero pratica nell’addestramento degli uccelli, trasferendone l’uso anche in Europa. Principalmente furono gli Ordini monastico-militari a sfruttare per primi questa nuova tecnologia, costruendo in ogni loro insediamento, sia in Oriente che in Occidente, una torre colombaia dove alloggiare gli uccelli; la casa dei giovanniti, nel loro quartiere a San Giovanni d’Acri, era sormontata da un’alta torre chiamata il Colombaio degli Ospedalieri.

    Gli astuti normanni, abili in tutte le manifestazioni guerresche, riusciranno addirittura a sfruttare a loro favore, in chiave psicologica, i piccioni viaggiatori utilizzati dai musulmani. Nel 1068 il conte Ruggero d’Altavilla, dopo aver sconfitto pesantemente gli arabi nei pressi del castello di Misilmeri, trovò in una delle torri diverse gabbie di questi animali. Come racconta Goffredo Malaterra, il conte decise, quasi sadicamente, di comunicare ai musulmani di Palermo la tragica disfatta dei compagni, inviando i loro stessi piccioni, con brandelli di stoffa insanguinati «scritti a carattere di sangue», legati alle zampe degli uccelli.

    1 Anna Comnena, Alessiade. Opera storica di una principessa porfirogenita bizantina, a cura di G. Agnello, Palazzo Comitini Edizioni, Palermo 2010, pp. 202-203.

    2 Ivi, p. 225.

    3 Marcus Graecus, Liber ad comburendum hostes (Traité des feux propres a détruire les ennemis, composé par Marcus le Grec), Imprimerie de Delance et Lesueur, Paris 1804, pp. 5-6.

    4 Jean de Joinville, Storia di San Luigi, a cura di A. Lippiello, Il Cigno Galileo Galilei, Roma 1999, pp. 79-80.

    5 Gesta francorum et aliorum Hierosolimitanorum: The Deeds of the Franks and the other Pilgrims to Jerusalem, a cura di R. Hill, Clarendon Press, Oxford 1962, p. 15.

    6 Cronaca del Templare di Tiro (1234-1314). La caduta degli Stati Crociati nel racconto di un testimone oculare, a cura di L. Minervini, Liguori Editore, Napoli 2000, p. 113.

    7 Willermi Tyrensis Archiepiscopi, Historia rerum in partibus transmarinis gestarum, in Recueil des Historiens des Croisades - Historiens occidentaux, t. i, première partie, Imprimerie Royale, Paris 1844, pp. 189-190.

    8 Ibn al-Athir, Histoire des Atabecs de Mosul, in Recueil des Historiens des Croisades - Historiens orientaux, t. ii, deuxième partie, Imprimerie Nationale, Paris 1876, p. 289.

    9 Jean de Joinville, op. cit., p. 69.

    1. Le crociate - l’antefatto

    È urgente, in effetti, che voi vi affrettiate a marciare in soccorso dei vostri fratelli che abitano in Oriente, e hanno gran bisogno dell’aiuto che voi avete, già altre volte, promesso loro. I turchi e gli arabi si sono precipitati su di loro, come molti di voi avrete inteso raccontare, e hanno invaso le frontiere della Romania (l’impero bizantino), fino a quel luogo del mar Mediterraneo, chiamato Braccio di San Giorgio, estendendo sempre più le loro conquiste sulle terre dei cristiani, sette volte li hanno già vinti in battaglia, e ne hanno presi e uccisi un gran numero, e hanno rivoltato da cima a fondo le chiese e razziato tutti i paesi sottomessi alla dominazione cristiana. […] E per questo che vi chiedo e vi scongiuro, non nel mio nome, ma nel nome del Signore, voi araldi di Cristo, di esortare con frequenti proclami i franchi di ogni rango, gente a piedi e cavalieri, poveri e ricchi, a impegnarsi a soccorrere gli adoratori di Cristo, mentre si è ancora in tempo, e di cacciare dalle regioni sottomesse alla nostra fede la razza empia dei devastatori. Questo, io lo dico a quelli di voi che sono presenti qui, ma lo invierò agli assenti, è Cristo che lo ordina. Quanto a quelli che partiranno per questa guerra santa, se essi perdono la vita, sia durante la strada sulla terra, sia attraversando i mari, sia combattendo gli idolatri, tutti i loro peccati saranno rimessi in quel momento preciso […]. Quali crudeli rimproveri ci farà il Signore, se voi non soccorrerete coloro che, come noi, hanno la gloria di professare la religione di Cristo?¹⁰

    Con queste parole papa Urbano ii promuoveva nel 1095, a Clermont, il pellegrinaggio armato verso la Terrasanta, il primo di quelle particolari spedizioni che a partire dal xiii secolo verranno chiamate crociate.

    Tutto era iniziato più di venti anni prima, nel 1071, anno infausto per l’impero di Bisanzio.

    Il 15 aprile, dopo un assedio durato tre anni, l’ultimo caposaldo bizantino in Italia, la città di Bari, cadeva in mano dei normanni di Roberto il Guiscardo, facendo terminare il predominio greco dopo cinquecentotrentasei anni.

    Qualche mese più tardi, il 26 agosto, i soldati dell’imperatore venivano pesantemente sconfitti dai turchi selgiuchidi a Manzikert, nella loro lenta, ma progressiva, espansione verso occidente dalle originarie steppe dell’Asia centrale.

    Le due sconfitte non furono una coincidenza, quanto piuttosto le conseguenze della difficile situazione politica e militare in cui si trovava l’impero, erede dell’antica potenza di Roma, troppo grande e troppo ricco per non attirare gli interessi di molti da ogni parte del mondo conosciuto.

    In Italia, dopo i tentativi di invasione dei goti debellati dai generali Belisario e Narsete, durante la Guerra gotica (535-553), nella prima metà dell’xi secolo si erano affacciati i normanni, inizialmente come semplici mercenari, poi come guerrieri indipendenti con mire di conquista che porteranno a compimento con la presa di Bari nel 1071. In seguito cercheranno di espandersi ancora, sempre a danno dell’impero di Bisanzio, verso la penisola balcanica conquistando l’isola di Corfù e la città di Valona. Inoltre il 17 giugno del 1081 cingeranno d’assedio Durazzo, sia per mare che da terra, con un esercito di trentamila uomini e centocinquanta navi, secondo quanto riporta Anna Comnena.

    A fronte di questa minaccia l’imperatore Alessio Comneno cercò di riorganizzare l’esercito, assoldando mercenari da ogni luogo possibile, ma soprattutto cercando l’appoggio militare di Venezia, riconoscendo alla Serenissima ampie concessioni commerciali nei territori dell’impero.

    La repubblica fornì il sostegno della sua flotta che sconfisse gli avversari, in ripetuti scontri nelle acque di Durazzo e di Corfù; nonostante ciò l’esercito di Roberto il Guiscardo riuscì ad avere la meglio su quello imperiale e, dopo sette mesi di assedio, Durazzo cadde in mano normanna il 15 febbraio 1082.

    Questa vittoria permise agli invasori di proseguire nella conquista della Grecia settentrionale, col tentativo di arrivare sino a Costantinopoli: purtroppo lo scoppio di varie ribellioni in Italia costrinsero il Guiscardo a riattraversare il canale d’Otranto, lasciando il comando a suo figlio Boemondo; questi venne sconfitto dai bizantini, mentre la flotta della Serenissima riprendeva la città di Durazzo. Inoltre la morte dello stesso Guiscardo nel 1085, unita alla evidente forza della coalizione greco-veneziana, fermò definitivamente le mire espansionistiche dei normanni verso oriente.

    Probabilmente questi lunghi anni di guerra saranno all’origine della diffidenza fra bizantini e normanni, come si ricava dalla lettera di Boemondo a Goffredo di Buglione, a proposito dell’imperatore Alessio Comneno, di cui si farà cenno più avanti.

    Molto tempo prima di questi tentativi di invasione, l’impero aveva perso gran parte dei suoi territori: agli inizi del vii secolo i persiani sasanidi si erano impadroniti della Siria e della Palestina, e tra il 619 e il 622 il generale persiano Shahvaraz, al servizio di re Cosroe, aveva occupato l’Egitto; inoltre, intorno alla prima metà del vii secolo, popolazioni nomadi, come gli ungari e i turchi delle tribù peceneghe e oguz, si erano insediate in vaste regioni della penisola balcanica.

    Sul fronte orientale, invece, Bisanzio iniziava a sentire la presenza massiccia di nuovi arrivati: i turchi, che non erano completamente degli sconosciuti poiché singoli individui erano già entrati in contatto con il mondo bizantino o arabo, come mercenari o semplici schiavi. Si trattava di tribù di pastori che, dall’interno dell’Asia, si spostavano verso occidente riprendendo le antiche strade percorse nei secoli precedenti dalle popolazioni barbariche; i turchi non erano un popolo vero e proprio, quanto un insieme di clan indipendenti che condivideva il medesimo ceppo linguistico.

    Sul finire del x secolo molte tribù si riunirono sotto l’autorità di Seljuk, capostipite dell’omonima dinastia che, convertitasi all’Islam, si espanderà in Anatolia e nel Vicino Oriente. Con il figlio di Seljuk, Tughril Beg, nella metà del secolo seguente i selgiuchidi conquistarono una parte della Persia, stabilendo la capitale a Isfahan, arrivando poi fino a Baghdad e fondando un proprio Stato indipendente. Il passo successivo fu l’espansione verso la frontiera sud-orientale dell’impero di Bisanzio, con incursioni sempre più frequenti portate verso l’Anatolia e l’Armenia. Pur sconfitti dai bizantini a Erzurum, nel 1047, nella maggior parte degli scontri i turchi uscirono vincitori, saccheggiando e devastando quei territori; Tughril Beg, però, dopo una spedizione nella regione del lago di Van nel 1054, non riuscì a espugnare la fortezza di Manzikert.

    Se Tughril era relativamente interessato alla conquista di quei territori, alla sua morte avvenuta nel 1063 fu il nipote Muhammad ibn Da’ud Chagri, meglio conosciuto come Alp Arslan (leone valoroso), a intraprendere una sistematica opera di penetrazione verso l’interno dell’impero, impadronendosi completamente dell’Armenia grazie alle vittorie ottenute a Melitene (Malatya) e Sebastea (Sivas). Gli attacchi verso ovest si intensificarono sempre più: a partire dal 1065 la fortezza di Edessa fu attaccata ogni anno, ma senza risultato, viste le scarse capacità poliorcetiche dei turchi; nel 1067 Cesarea di Cappadocia (Kayseri) venne saccheggiata; nel 1068 l’avanzata si spinse verso nord fino a Neocesarea (Niksar), arrivando l’anno seguente a Iconio (Konya), a circa settecento chilometri da Bisanzio, e nel 1070 a Khonae (Honaz), in direzione sud-ovest verso la costa egea.

    Per fronteggiare questa pressante invasione, l’impero bizantino non aveva più il potente esercito di una volta. Infatti, nel 1059, era salito al trono di Bisanzio l’anziano Costantino x Ducas, la cui politica era stata fortemente indirizzata verso la Chiesa e la corte, a discapito dell’esercito: a fronte dell’aumento di funzionari statali, si ebbe così una drastica riduzione di soldati, per compensare le forti spese necessarie a mantenere l’apparato burocratico.

    Così le guarnigioni delle province non riuscirono più a fornire abbastanza uomini per le campagne militari contro gli invasori, mentre i reparti di cavalleria, forti di sessantamila unità, vennero quasi tutti congedati; anche la guardia imperiale, formata da elementi di valore, si ridusse in maniera consistente; il resto dell’esercito risultava composto per la maggior parte da mercenari, che in realtà costavano più dei soldati bizantini e dei quali poco ci si poteva fidare.

    Nel 1068, il generale Romano iv Diogene, successore di Costantino x avendone sposato la vedova Eudocia, tentò di riorganizzare e di aumentare le forze imperiali, arruolando altri mercenari, anche fra le tribù turche provenienti dalla Russia meridionale: gli effettivi arrivarono a circa novantamila uomini, di cui la metà di origine bizantina, pochissimi soldati di mestiere e quasi nessuno provvisto di un equipaggiamento adeguato.

    Questo era l’esercito di cui disponeva l’imperatore per affrontare i selgiuchidi di Alp Arslan nelle spedizioni militari intraprese, con alterne fortune, a cavallo degli anni Settanta dell’xi secolo.

    La campagna del 1068, condotta nella regione del Tauro, nell’Anatolia meridionale, vide la sconfitta dei turchi a Hierapoli, nei pressi dell’odierna Pamukkale, grazie anche all’aiuto dei mercenari normanni guidati da Robert Crispin, detto Francopulos (figlio dei franchi), che però l’anno successivo si ribellò all’imperatore; nel 1069 la vittoria arrise ai bizantini, dopo essere penetrati nel territorio di Eraclea Pontica (Karadeniz Eregli), sul Mar Nero.

    L’esito negativo della spedizione del 1070, invece, portò alla conquista di Manzikert da parte dei turchi e il disastroso tentativo di recupero da parte dei bizantini.

    Manzikert (1071)

    Durante il Medioevo l’antica città di Manzikert faceva parte del regno di Armenia, mentre attualmente, col nome di Malazgirt, è situata nella Turchia orientale, a nord del lago di Van.

    A partire dalla fine dell’viii secolo fu capitale di un emirato musulmano, governato dalla dinastia araba qaisita (dal suo fondatore al-Qaisi), ma nel 968/969 venne assediata dal generale Barda Foca il Giovane, che ne rase al suolo le mura dal momento che i bizantini non avevano intenzione di insediarsi nella città.

    Successivamente entrò a far parte di un grande principato che si estendeva fino a Mossul, poi fu in mano al re georgiano David iii il Grande; alla sua morte, avvenuta nel 1000/1001, Manzikert passò sotto la sovranità di Bisanzio, secondo un accordo stipulato con l’imperatore Basilio ii nel 990.

    Trovandosi su un importante snodo commerciale per le carovaniere provenienti dalla Persia, la città fu spesso soggetta a tentativi di occupazione, come quello dei selgiuchidi di Tughril Beg, che l’assediò nel 1054.

    Dopo inutili tentativi con le macchine da lancio in loro possesso, gli assedianti tentarono di minare le mura della città, ma il loro piano venne svelato da un turco che, per motivi sconosciuti, forse per una punizione ingiusta, avvisò i bizantini con una lettera legata a una freccia: i difensori effettuarono uno scavo di contromina, catturando i genieri nemici e decapitandoli sugli spalti.

    Tughril decise quindi di passare alle maniere forti, facendo arrivare dalla vicina città di Bitlis un’immensa balista, così grande che per il trasporto e l’avvicinamento alle mura occorsero ben quattrocento uomini.

    Alla vista della gigantesca macchina il comandante della guarnigione, Basilio Apocapa, uomo di grandi capacità militari, offrì una ricompensa al primo che avesse reso inservibile la balista. Si fece avanti un franco, forse un mercenario, che riempì tre bottiglie di fuoco greco, montò a cavallo e uscì dalla città dirigendosi verso l’accampamento nemico, sventolando in una mano una lettera. I turchi, credendolo un messaggero, lo lasciarono passare; quando fu abbastanza vicino, il franco tirò fuori le bottiglie e le lanciò contro la balista, incendiandola: nel grande trambusto che ne scaturì, l’incursore riuscì a rientrare sano e salvo all’interno delle fortificazioni, tra le acclamazioni dei compagni.

    Attendendo la logica reazione da parte di Tughril, Basilio predispose le difese della città, facendo posizionare sulle mura numerose macchine, ben fornite di pietre pesanti, grandi frecce e travi rinforzate con ferro, da lanciare contro gli assalitori. Inoltre, fece circolare l’ordine di non rispondere al nemico prima che fosse stato a distanza utile.

    L’attacco turco iniziò con il lancio di proietti contro le mura, continuando con l’avvicinamento della fanteria, tra la meraviglia degli assalitori per l’anomalo silenzio dei difensori. Quando iniziarono a poggiare le scale alle mura, per arrivare agli spalti, i turchi vennero investiti da una pioggia di proietti di ogni sorta, compresa la pece bollente, tanto da essere costretti a ritirarsi.

    L’esitazione e le difficoltà del nemico furono il segnale per una rapida sortita bizantina, che riuscì a catturare il comandante turco Alkan sotto gli occhi del sultano: questi, vista l’incerta possibilità di conquistare la città, decise di abbandonare l’assedio.

    Maggior fortuna ebbe Alp Arslan, nipote di Tughril, che nel 1070 sconfisse i bizantini e dopo un breve assedio riuscì a occupare la città, ottenendo così il controllo del territorio a nord del lago di Van. Romano chiese una tregua e offrì in cambio di Manzikert la città di Manbij, a nord est di Aleppo. Durante le trattative, però, i turcomanni agli ordini di Erigsen ibn Yunus vinsero e catturarono il generale Manuele Comneno, fratello del futuro imperatore Alessio, nei pressi di Sebastea (Sivas). Al rifiuto di Romano di pagare il riscatto, i turchi risposero saccheggiando il thema Thrakesion, dalla parte opposta dell’Anatolia, arrivando fin quasi al Mare Egeo.

    Come racconta il cronista di corte Michele Psello, non essendo più possibile trovare un punto d’accordo agli inizi del 1071 Romano Diogene

    partì per la sua terza e ultima spedizione contro i barbari, che erano ormai chiaramente ostili. In realtà, erano impegnati in incursioni di saccheggio sul territorio romano e, appena giunse la primavera, erano divenuti sempre più numerosi. Così Romano, ancora una volta lasciò la capitale per combatterli, accompagnato dal più grande contingente di alleati e di truppe indigene mai visto prima.

    Con il suo solito disprezzo di tutti i consigli, sia in campo civile che militare, partì con il suo esercito e si affrettò a Cesarea. Dopo aver raggiunto tale obiettivo, era indeciso se avanzare ulteriormente e cercava delle scuse per tornare a Bisanzio, non solo per il proprio interesse ma per quello dell’esercito. Quando si trovò nella disgrazia dell’impossibilità di una ritirata, avrebbe dovuto venire a patti con il nemico e porre fine alle sue incursioni annuali. Invece, sia perché in preda alla disperazione, o perché era più sicuro di quello che avrebbe dovuto essere, marciò per attaccare, senza prendere misure adeguate per proteggersi le spalle¹¹.

    Se l’imperatore era al comando di un esercito grandissimo, questo mancava di coesione nelle forze che lo costituivano, composte per quasi la metà di mercenari diversi tra loro per provenienza, capacità, fede religiosa, e soprattutto per affidabilità, come si vedrà nel corso degli eventi: insieme alle truppe regolari bizantine si trovavano cavalieri normanni armati pesantemente, arcieri turchi oguz a cavallo, peceneghi, guardie variaghe e fanteria armena.

    La spedizione iniziò subito con l’allontanamento dei nemitzoi, ossia dei mercenari tedeschi della guardia imperiale, che si erano ribellati e abbandonati al saccheggio dei territori attraversati nella ricerca di approvvigionamenti. Quello dei viveri, infatti, era uno dei grandi problemi per un’armata di circa quarantamila uomini che, pur avendo scorte alimentari per due mesi, erano comunque costretti a sottrarre le provviste alle popolazioni dei territori attraversati, inimicandosi il loro favore e inducendole anche a reazioni armate contro gli stessi bizantini.

    Di certo Romano considerava il suo intervento militare non tanto una spedizione di conquista (o riconquista), quanto piuttosto un’operazione di polizia, con lo scopo di ripristinare il controllo imperiale; per questo motivo aveva portato con sé un gran numero di soldati, che avrebbe poi dovuto lasciare di guarnigione nei punti strategici.

    La spedizione fece una prima sosta a Sebastea e una seconda a Erzurum, dove si aggregarono gli armeni del governatore locale, il duca Niceforo Basilakes, che verrà successivamente catturato durante un’operazione di ricerca di approvvigionamenti.

    Ripresa la marcia, l’esercito si spostò verso sud in direzione di Manzikert, che venne occupata facilmente il 22 o 23 agosto. Dopo aver ispezionato le fortificazioni della città e fatto sistemare le macchine d’assedio, Romano insediò il comando operativo: oltre ai soldati mandati nei dintorni a reperire rifornimenti, inviò una parte del suo esercito, cinquecento uomini del mercenario normanno Roussel di Bailleul, più un gruppo di turchi peceneghi, a riprendere la fortezza di Khilat (Ahlat), sulla sponda settentrionale del lago di Van. Ma il contingente di Roussel trovava difficoltà a concludere l’assedio e l’imperatore fu costretto a inviare un reparto di fanteria, composto da varieghi e armeni, agli ordini del generale Giuseppe Tarkaniotes, comandante in seconda dell’esercito imperiale: la situazione delle forze bizantine era tale che, come scrive il cronista Michele Attaliota nella sua Historia, i soldati mandati alla conquista di Khilat erano in numero largamente superiore rispetto a quelli rimasti a Manzikert.

    Sembra però che Romano non si preoccupasse di questa dispersione di uomini, almeno stando a quanto riporta Michele Psello:

    Ora ero a conoscenza (anche se lui non lo era) che lo stesso sultano, il re dei persiani e curdi, era presente in prima persona con il suo esercito, e la maggior parte delle loro vittorie era dovuta alla sua guida. Romano si rifiutò di credere a coloro che individuavano l’influenza del sultano in questi successi. La verità è che lui non voleva la pace. Pensava che avrebbe catturato l’accampamento barbaro, senza una battaglia. Purtroppo per lui, con la sua ignoranza della scienza militare, aveva sparso le sue forze; alcuni erano concentrati intorno a lui, altri erano stati mandati via per prendere qualche altra posizione. Così, invece di opporsi ai suoi avversari con tutta la forza del suo esercito, meno della metà erano in realtà disponibili¹².

    Da parte turca, Alp Arslan era impegnato in Siria, dove aveva inutilmente assediato Edessa e al momento era occupato con l’assedio di Aleppo: alla notizia delle manovre bizantine in Armenia, cambiò immediatamente obiettivo e il 26 aprile partì in direzione nord-est, passando sulla sponda destra del lago di Van. Lungo il percorso arruolò truppe curde e raccolse coloro che fuggivano dalle città occupate dai bizantini, riuscendo a radunare circa quattordicimila soldati; essendo ancora troppo pochi per fronteggiare il nemico, il sultano

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