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Éric Baret 250 Domande sullo Yoga
Éric Baret 250 Domande sullo Yoga
Éric Baret 250 Domande sullo Yoga
E-book246 pagine2 ore

Éric Baret 250 Domande sullo Yoga

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Ecco un libro senza scappatoie, fatto di domande e risposte. Raccoglie un insegnamento coerente della pratica secondo lo sivaismo del Kasmir che poggia sul Vijnanabhairava Tantra e l’opera di Abhinavagupta.
Discepolo di Jean Klein, Éric Baret avrebbe potuto offrirci una buona compilazione. Non è il suo metodo. Lui scava, procede. É vero che sta dialogando con Marie Claire Regnier. Éric Baret sa che l’uomo si attacca a ciò che costruisce, e così lui distoglie lo sguardo. Anziché renderci attivi, mette l’accento sulla libertà che può essere la nostra.
La pratica di un'arte tradizionale richiede passione, prayatna visesha, sottomissione e devozione. Queste qualità sono sviluppate attraverso la relazione maestro-allievo, così come la esprime la tradizione. Per colui che si lascia portare da questa corrente, l’apprendimento della tecnica richiede una vita intera e il presentimento della libertà implica l’inutilità della pratica e la non-realizzazione di qualcosa di oggettivo.
Ai nostri giorni, pochi fra noi sono inclini a questa risonanza e l’assenza di insegnanti autentici basta ad allontanare da questa prospettiva la maggioranza.
I pochi dialoghi più oltre trascritti, si rivolgono giustamente a coloro che non hanno incontrato tale approccio e vogliono tuttavia esplorare questa tradizione. "Éric Baret 250 Domande sullo Yoga", più semplice rispetto ad altre opere, può forse permettere un chiarimento di numerosi elementi tecnici.
La sottigliezza di questo approccio, che è stato trasmesso da Jean Klein, è in effetti una creatività difficile da formulare sotto forma di monologo. È per questo che i dialoghi qui riprodotti non sono stati ritoccati se non in maniera minimalista. Numerose ripetizioni proprie dell’oralità sono state mantenute per conservare la dinamica dello scambio.
Marie-Claire Reigner, pur avendo una grande conoscenza di quest’arte, ha accettato di formulare in questo libro le domande più sovente ascoltate durante gli incontri.
LinguaItaliano
Data di uscita24 nov 2020
ISBN9788892720947
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    Anteprima del libro

    Éric Baret 250 Domande sullo Yoga - Marie-Claire Reigner

    XI

    PREFAZIONE

    Libero nell’ascolto, libero da aspettativa.

    Ecco un libro senza scappatoie, fatto di domande e risposte. Raccoglie un insegnamento coerente della pratica secondo lo śivaismo del Kaśmīr che poggia sul Vijñānabhairava Tantra e l’opera di Abhinavagupta. Discepolo di Jean Klein, Éric Baret avrebbe potuto offrirci una buona compilazione. Non è il suo metodo. Lui scava, procede. É vero che sta dialogando con Marie Claire Regnier. Éric Baret sa che l’uomo si attacca a ciò che costruisce, e così lui distoglie lo sguardo. Anzichè renderci attivi, mette l’accento sulla libertà che può essere la nostra Non vi è alcuno ad ascoltare in questo ascolto libero da ogni intenzione, da ogni fabbricazione, da ogni pratica.

    É una sfida. Éric Baret insegna, dà l’impulso, incita a cercare una via. É importante non valorizzare l’ostacolo, perchè creiamo dei legami pensando che ci porteranno dei risultati stabili.

    Il libro raggruppa un insieme di temi. Attraverso undici capitoli si scoprono autentiche piste costitutive dello śivaismo del Kaśmīr e il suo differenziarsi dalla tradizione indiana. Sono approcciate la questione del respiro in relazione al tempo e al non tempo, la relazione col corpo, respiro e respirazione, il cibo e gli asana che Éric Baret chiama pose, la questione della liberazione, l’apertura del cuore, la tranquillità dello spirito, la sessualità tantrica, e il presentimento della nondualità nella vita.

    Il libro termina con una breve passeggiata biografica.

    Nei capitoli sono definiti con precisione lo yoga tantrico e la pratica che esso propone.

    Éric Baret presenta un metodo interessante perchè sa svelare degli orientamenti: rivolta il problema senza imporre nè costringere. Scopre sempre un altro modo di vedere la situazione. La pratica degli asana non è un obbligo. Lui preferisce la spazialità del respiro. Il corpo deve essere compreso come Coscienza, vacuità, respiro, senza limite. Il suo modo di accostare la domanda è stimolante. L’elemento spirituale ne è il solo appoggio e, si può dire, l’origine, la sorgente. É dal non formale, da Śiva, che viene il presentimento della non-dualità. Poichè proprio di questo si tratta, imparare a sentire profondamente ciò che porta questo mondo e cosa è la Coscienza. Éric Baret la fa sorgere come una presenza nella freschezza di una pienezza, nella bellezza di una incomparabile semplicità.

    Sviluppa così il concetto di ascolto che supera diversi gradi: l’oggetto, il soggetto, poi l’assenza di soggetto - il momento in cui l’ego si apre alla Coscienza. I gradi allora cessano, e così la loro comprensione, poichè la Coscienza si incarna nella pratica. L’oscillazione del pensiero presenta un’interfaccia: se ci fa vedere l’esteriore complesso, punta assolutamente, fa sentire lo spazio senza parole, lo stato non intenzionale. Éric Baret non impone alcuna legge direttiva. Sa presentare lo śivaismo del Kaśmīr con precisione, ma non tiene ad applicare a tutti ciò che non è adatto all’uno o all’altro, - cosa che lui definisce il lato democratico di questa pratica. Non esita a presentare ed integrare approcci differenti delle scuole Trika, Kaula e Krama. Simultaneamente insiste sull’opposizione fra ciò che è esteriore ed interiore. Dettaglia tutto passando al di là delle abitudini che non gli sembrano pertinenti (malati, per esempio), così come in talune affermazioni sul senso delle cose.

    Disinscrive quel che sembra essere definito. Privilegia l’importanza della vibrazione dove si colloca il corpo di densità.

    La sua cura più essenziale consiste nel far cadere le certezze, nel valorizzare l’ascolto nel quale le forme si dissolvono e che rappresenta la morte dell’immagine del corpo.

    É sempre interessante constatare come si forma la trasmissione di una tradizione o come essa non si rinnovi. Il punto è centrale e occorre rimanere molto attenti. Lo śivaismo del Kaśmīr, quando lo si distingue dagli Yoga Sūtra di Patañjali, sottolineando la sua attitudine di esclusione verso ciò che non è la Coscienza, non è una rilettura degli Yoga Sūtra. Questi riposano in effetti su di un lavoro molto sottile di trasformazione dove tutto ha posto ma può collegarsi alla sua causa, trasformarsi, recuperare la sua vera natura e disingrammarsi da ogni struttura precedentemente stabilita. É la ricchezza di un tale confronto e ci sarebbe molto da dire.

    Éric Baret provoca la discussione, quando raccoglie, in fretta, talvolta, quello che la parola delle Upaniṣad e dei Darśana ha permesso di elaborare. L’insegnamento che propone porta a liberarsi dagli ostacoli e dalle tensioni, a privilegiare il presentimento. Se la tradizione non è considerata come una memoria ma come una attualizzazione sempre presente di elementi della società, lui insiste sull’esperienza e il silenzio.

    E l’esperienza così valorizzata nel Vijnanabhairava Tantra costituisce un dispiegarsi di possibilità formanti una completa, vasta architettura interiore.

    L’esperienza può essere fatta semplicemente con una forma conosciuta (una brocca), nella quale si mediterà dopo aver rinunciato alle pareti.

    É il grande spazio dove il respiro diventa pura energia.

    Alyette Degraces

    PREAMBOLO

    Il lettore attento noterà inevitabilmente una apparente contraddizione fra certe citazioni all’inizio dei capitoli e lo spirito non volontarista dei colloqui proposti. Nelle citazioni, la parola yoga è presa nel senso di visione globale, intuizione inclusiva di tutti i parametri della vita, brahmasvada, la dimensione spirituale. Questo primo senso è quello dei testi antichi. Nelle discussioni, la stessa parola è sovente impiegata nel senso di pratica fisica o respiratoria, separata dall’orientamento profondo. Allo stesso modo, le nozioni di conquista o acquisizione devono essere comprese come evidenza dell’ardore non intenzionale, tapas. Con la maturità, la pratica dello yoga posturale e respiratorio diventa secondaria e lo yoga tradizionale può allora compiersi non mosso dall’intenzione ma dalla volontà stessa, icchā, della vita.

    Lo yogi cessa il suo immaginario e lo yoga si libera da ogni nozione di sviluppo personale.

    Compreso questo, il lettore scoprirà l’unità di pensiero, ekavakyata, di questa tradizione.

    "Lo yoga è praticato nell’intenzione di realizzare il nostro desiderio profondo di pienezza: è una scienza, o piuttosto un’arte per liberarci da quello che per errore crediamo essere noi stessi. Il fondamento dello yoga è l’osservazione silenziosa: vedere, sentire, senza smarrirsi nel visto e nel sentito.

    Nello specchio del vostro mentale, le cose appaiono e scompaiono: siate guardinghi, vedetelo senza essere effettivamente implicati. Scoprirete voi stessi in questa osservazione.

    Liberarsi dall’identificazione con la persona è il fine ultimo dello yoga - se ve ne è uno."

    Jean Klein, Etre, Ed. Almora

    INTRODUZIONE

    Si tratta di comunicare una

    presenza che non fa rumore,

    una presenza che è nel cuore

    del silenzio e che il silenzio solo

    può trasmettere.

    MAURICE ZUNDEL

    Il vero mondo non è ancora.

    La pratica di un’arte tradizionale richiede passione, prayatna visesha, sottomissione e devozione. Queste qualità sono sviluppate attraverso la relazione maestro-allievo, così come la esprime la tradizione. Per colui che si lascia portare da questa corrente, l’apprendimento della tecnica richiede una vita intera e la non-realizzazione della pratica di qualcosa di oggettivo fa parte della libertà presentita.

    Ai nostri giorni, pochi fra noi sono inclini a questa risonanza e l’assenza di insegnanti autentici basta ad allontanare questa prospettiva per la maggioranza.

    I pochi dialoghi più oltre trascritti si rivolgono giustamente a coloro che non hanno incontrato questo approccio e vogliono tuttavia esplorare questa tradizione. Con Corpo di silenzio e Corpo di vibrazione, i principi e le applicazioni di questo lavoro sono stati esplicitati. Quest’opera, più semplice, può forse permettere un chiarimento di numerosi elementi tecnici. La sottigliezza di questo approccio che è stato trasmesso da Jean Klein è in effetti una creatività difficile da formulare sotto forma di monologo. É per questo che i dialoghi qui riprodotti non sono stati ritoccati se non in maniera minimalista. Numerose ripetizioni proprie della trasmissione orale sono state mantenute per conservare la dinamica dello scambio.

    Marie-Claire Regnier, pur avendo una grande conoscenza di quest’arte, ha accettato di formulare in questo libro le domande più sovente ascoltate durante i nostri incontri.

    Il suo sapere, cancellandosi dietro un interrogare intenso, permette all’insegnamento di scaturire in risposte non elaborate. Che ne sia qui profondamente ringraziata.

    Numerose altre domande e risposte avrebbero potuto attualizzarsi, dato che la scienza dello yoga è un pozzo senza fondo e la creatività di Jean Klein resta ineguagliata. Patrick Lebail lo chiamava: il miglior yogi di Parigi. L’essenza di ciò che viene formulato qui è basata sugli scritti Shastramata e non su un’invenzione originale.

    La lettura di questa applicazioni non deve essere vista come una licenza per praticare senza contatto effettivo con questa tradizione. Senza legame con quelli che hanno beneficiato della trasmissione di Jean Klein, il ricercatore avrà sovente difficoltà a sentire profondamente questo ascolto, questa vibrazione, origine e fine di quest’arte. Detto questo, essendo il silenzio di tutti, la sua rivelazione è libera da ogni contingenza. Così le restrizioni legate all’insegnamento tradizionale esplodono quando la prospettiva si attualizza chiaramente. La libertà è data ad ogni istante, tale è il cuore dello yoga.

    Capitolo I

    La prima condizione

    è la vostra dismissione.

    MAURICE ZUNDEL

    In generale lo yoga è approcciato con un lavoro posturale. Poi vengono i prāṇāyāma, il lavoro del respiro. Lo yoga del Kaśmīr ha questa stessa codifica? L’accento è messo sulle posture o sui prāṇāyāma? È un insieme?

    Il lavoro delle pose è generalmente insegnato prima di quello dei prāṇāyāma per la buona ragione che per praticare i prāṇāyāma occorre che il corpo sia in una relativa disponibilità. In seno allo yoga del Kaśmīr, come in altri yoga, il lavoro delle pose precede il lavoro respiratorio. Occorre avere una verticalità, una distensione del bacino per poter arrivare alle specifiche muscolari, tattili ed energetiche, di cui necessita il prāṇāyāma. Per contro lo yoga del Kaśmīr non è progressivo come gli Yoga Sūtra, vale a dire con Yama, Niyama, Āsana, Prāṇāyāma, eccetera. Non si deve andare dal meno verso il più. Dopo il prāṇāyāma non ci si deve impegnare nelle altre tappe dello yoga, come nella pratica del lavoro interno. Il prāṇāyāma non è una tappa ma un’organizzazione dell’energia per permettere un ascolto diretto.

    La risposta alla domanda è dunque allo stesso tempo sì è no: no nel senso in cui non è prima le posture e poi il prāṇāyāma.

    Il lavoro delle posture è appropriato al fine di realizzare una seduta distesa propizia per il prāṇāyāma.

    É più importante mettere l’accento sul corpo, la sensorialità, lo spirito o la Coscienza?

    L’accento è messo anzitutto sulla sensazione. Non si può mettere l’accento sulla Coscienza perché la Coscienza è una esperienza non oggettiva. L’accento è messo sull’oggetto, sul corpo. Senza relazione psicologica con questo oggetto-corpo, lo si lascia libero da intenzione.

    Questo oggetto passerà attraverso un certo numero di trasformazioni, dal più grossolano verso il più sottile, vale a dire dalla pesantezza, dallo spessore verso la distensione, l’elasticità, l’energia, la vibrazione. Si lascia dunque che questo oggetto-corpo si dispieghi, che abbandoni la sua corporeità, divenga energia, vibrazione (spandana) della Coscienza (saṁvida) e che anche abbandoni la sua struttura energetica per diventare silenzio. La sensazione del corpo si riassorbirà nell’ascolto. Quando il corpo si riassorbe, il soggetto che osserva il corpo si riassorbe ugualmente, poiché non esiste un soggetto senza oggetto. Senza soggetto né oggetto c’è puro ascolto.

    L’accento è messo sul corpo per lasciare che si elimini. L’accento non è messo sul corpo come nello yoga classico, dove c’è un’intenzione, una volontà di padroneggiare e dove si spera qualche cosa dal corpo.

    Non c’è speranza, si lascia libera la percezione. La percezione sorge dal silenzio e vi si riassorbe.

    Solo colui che ha già fatto l’esperienza della pura Coscienza può mettere l’accento direttamente sulla Coscienza.

    Finché non c’è questa esperienza diretta, mettere l’accento sulla Coscienza è un immaginario. E così l’accento è messo sulla sensazione, ma è un accento che non aspetta niente. Non si interpreta la sensazione, non la si giudica, non la si manipola. La si lascia vivere, e ciò che vive per natura morirà, come un fiore che si apre e poi muore. In quel momento l’energia si reintegra nella Coscienza.

    Se non si arriva a lasciar morire la sensazione, come si può procedere?

    Non si tratta di arrivare o no. Si è lì, in questo ascolto. Jean Klein chiamava ciò una attesa senza attesa. Non ci si aspetta nemmeno che l’energia si riassorba. Si lascia che l’energia si riassorba. Talvolta l’energia si riassorbe, talvolta no. Non è una decisione che si possa prendere. E ancor meno è un mezzo, ma una pura constatazione. Non c’è la minima aspettativa. L’essenziale del lavoro psicologico consiste nel liberarsi dall’aspettativa.

    Alla domanda: Cosa fare se non funziona?, si risponde che non si fa proprio niente, si lascia fare le cose. Se non funziona, non è il momento. Occorre avere questa disponibilità senza speranza, altrimenti è ancora energia spesa verso qualche cosa.

    Ora, il fatto di spendere dell’energia verso un futuro impedisce all’intensità del presente di essere ottimale, cosa che è necessaria per questo riassorbimento.

    Nel corso di un incontro, se ho difficoltà a realizzare una postura proposta, devo evitare di eseguirla? Come devo procedere? Devo farla a metà?

    Durante gli incontri non si propone essenzialmente di realizzare delle pose, è esplorata una direzione. Una linea è mostrata o spiegata. All’inizio, non c’è che un andirivieni. Provate una posa e incontrate un ostacolo sotto forma di tensione; ritornate, l’ostacolo lascia.

    Ripartite con più attenzione, reincontrate l’ostacolo un po’ meno vigorosamente, dato che andate meno lontano; ritornate molto coscientemente: la tensione lascia. Non si cerca dunque di fare la posa, si tratta di sentire ciò che impedisce di fare la posa. Si cerca di svegliare tutte le tensioni che sono generalmente addormentate. La presa di una posa è lì per risvegliare le tensioni addormentate. Si scoprono queste tensioni e non si fa nulla, si lascia fare. Si sente la tensione e, al ritorno della posa, questa eliminazione è sentita nel corpo. Non c’è alcuna relazione psicologica con la tensione. Quando si può sentire una tensione senza essere tesi, si resta talvolta in una posa malgrado la tensione. La posa è lo spazio nel quale la tensione può aumentare prima di liberarsi. Ma finché ci si sente tesi, occorre ritornare. Se un giorno, nella stessa posa, ci si dice: Sento il dorso teso ma io sono disteso, allora si può restare nella posa col dorso teso. In questa distensione profonda la tensione del dorso progressivamente si vuoterà.

    Lei parla di pose, ma nello stesso tempo dice che non sono delle posture. Durante gli incontri lei dà in ogni caso il nome delle posture?

    Generalmente, non si nominano le pose, talvolta questo può concepirsi per quelli che le conoscono. Non è un problema nominare una posa. Qualche volta si effettuano pose tradizionali, ma molto meno che nello yoga moderno.

    Quando si nomina trikoṇāsana quasi nessuno fa trikoṇāsana. Si accosta. Si esplora il contatto col suolo, la reazione dell’anca, le differenti difese che si rivelano in questa posa. Questo non è per fare la posa ma per andare verso di essa. Accade che non si possa dire il nome di una posa perché molte non hanno nome. Sono dei quarti di posa, delle semi pose.

    Il nome delle pose non ha grande importanza. Si fornisce il nome delle pose per ragioni pratiche. L’importante non è cercare di fare la posa ma di scoprire cosa accade quando la si accosta. E in quale momento il corpo ricrea una struttura di difesa. È questo sentito che andiamo a esplorare concretamente.

    Lei inizia sempre le sedute con una seduta meditativa per ascoltare ciò che è. Non si medita su niente. Ora, io ero stata abituata a meditare con una intenzione. È destabilizzante essere semplicemente lì senza fare niente, con l’idea incosciente che qualcosa dovrebbe accadere.

    Anzitutto, non ci si aspetta niente del tutto, ci s’installa funzionalmente. I partecipanti arrivano agli incontri con le loro problematiche, le loro emozioni, la loro agitazione. Il fatto di non fare nulla è una forma di rispetto, di accoglienza. Si lascia tutto ciò che si è portato deporsi per ritrovare questo stato naturale, senza attesa, senza intenzione. Anzitutto, non ci si aspetta affatto che accada qualcosa; d’altronde, non accadrà niente. La meditazione per noi non è una meditazione intenzionale verso qualcosa, avente un fine.

    La meditazione è questo stato di ascolto. Non c’è nessuno che ascolta in questo ascolto libero da ogni intenzione, da ogni fabbricazione, da ogni pratica. Non è una meditazione, è semplicemente essere disponibili a ciò che è.

    Come prima di un concerto o prima di uno spettacolo, c’è un momento di disponibilità. Prima di parlare, occorre anzitutto ascoltare.

    C’è dunque un momento d’ascolto che si fa, perché dall’ascolto delle cose si presentano o no, ma non c’è niente da aspettarsi. Non è certo una meditazione nel senso classico del termine, di separazione dall’ambiente.

    Negli Yoga Sūtra, Patañjali parla di ekāgratā, la concentrazione su un solo punto. Esiste anche nello śivaismo del Kaśmīr o si accostano le cose con un altro orientamento?

    La risposta è allo stesso tempo sì è no. Ekāgratā è la concentrazione su un punto. Per lo śivaismo del Kaśmīr non c’è che Coscienza. Quale che sia il punto di cui si parla, è la Coscienza. C’è sempre concentrazione su un solo punto, perché tutto è Coscienza.

    Per contro, la concentrazione di Patañjali esclude ciò che non sia questo povero punto, ed essa non è presente nel nostro approccio, perché è una disciplina di esclusione. Tutto ciò che non è oggetto di concentrazione è escluso più o meno intensamente secondo la tecnica utilizzata.

    Lo śivaismo del Kaśmīr è non-violento, democratico, non esclude niente, né alcuno. Non si esclude un pensiero perché arriva; ed è lo stesso per un altro oggetto d’attenzione. Per noi, tutto ciò che si presenta è l’essenziale. La Coscienza è senza limite, nulla di ciò che si presenta può essere altro che Coscienza. È dunque più una disponibilità a ciò che è qui, che una esclusione di ciò che dovrebbe non essere lì, come echeggia negli Yoga Sūtra. Così, c’è sempre ekāgratā, ma sulla Coscienza, perché null’altro può esservi.

    Le tappe dei diversi samādhi dello Yoga Śāstra sono approcciati nello śivaismo del Kaśmīr? Se sì, quali ne sono i mezzi?

    I due samādhi, savikalpa e nirvikalpa, vale a dire il samādhi con oggetto e il samādhi senza oggetto, sono considerati come delle tappe possibili che possono presentarsi spontaneamente. Ma il samādhi essenziale, per lo śivaismo del Kaśmīr è il sahaja samādhi, il samādhi naturale che giustamente non è legato a una causa.

    Il risveglio è senza sforzo, ayatnaja. Per

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