Niente stoffe leggere
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Niente stoffe leggere - Domenico Calcaterra
Niente stoffe leggere
di Domenico Calcaterra
Meligrana Editore - Priamo
Copyright Meligrana Editore, 2013
Copyright Priamo, 2013
Copyright Domenico Calcaterra, 2013
Tutti i diritti riservati – All rights reserved
ISBN: 9788868150167
La copertina è una vettorializzazione realizzata con Photoshop della
Huyendo de la crítica (1874) di Pere Borrell del Caso
Meligrana Editore
Via della Vittoria, 14 – 89861, Tropea (VV)
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Priamo
Centro Culturale Sant’Antonio delle Fontanelle
Contrà Busa, 6
36062 Conco fraz. Fontanelle (VI)
Tel. (+39) 424 427098
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INDICE
Frontespizio
Colophon
Licenza d’uso
Domenico Calcaterra
Copertina
Fuga dalla critica. Una premessa
I
Farsi non contemporanei
Il complesso del trauma negato
Fame di realtà
II
Cattivi esempi
L’invenzione del reale
Autre Monde
La teodicea straziata di Emanuele Tonon
Violenza della storia e naufragio esistenziale
Romanzo e critica, critica e romanzo
La ferita nascosta di Vincenzo Consolo
La Capria stile libero
Spaesamento generazionale e ricerca d’identità
III
Vita e critica
Borgese e Le origini intellettuali del fascismo
L’autobiografia della Nazione e gli altri italiani
Genealogie
Gli umiliati maestri del disimpegno
Sicilia, sicilianità e letteratura
Riviste vecchie e nuove
L’arte del Piano B
Trasferte
IV
Il barocco e il visionario: Consolo e Perriera
Casi critici: Baldacci e Onofri
Nota ai testi
Indice dei nomi
Priamo
Meligrana
Licenza d’uso
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Grazie per il rispetto al duro lavoro di questo autore.
Domenico Calcaterra
Domenico Calcaterra (1974), dottore di ricerca in Letteratura Italiana presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Sassari. Cultore della materia in Letteratura italiana presso l’Università di Messina. Ha pubblicato Vincenzo Consolo. Le parole, il tono, la cadenza (Prova d’Autore, Catania, 2007), un corposo volume monografico dedicato alla trilogia romanzesca dell’ultimo dei grandi autori siciliani del Novecento (Premio Sebastiani - Il Minturno, 2007) e una silloge poetica Luci basse (Joker Edizioni, Novi Ligure, 2008). Suoi articoli e saggi sono apparsi su varie riviste letterarie come «Paleokastro», «Sincronie», «Marenostrum», «Lunario Nuovo», «Critica Letteraria», «La Clessidra», «Otto Novecento», «Giornale storico della Letteratura Italiana», «Segno», «O.b.l.i.o.», «Narrazioni». Collabora inoltre con diversi blog e riviste letterarie presenti in rete come «Letteratitudine», «Lankelot», «Sul Romanzo», «Il Recensore.com», «Fuori Asse», «Paradiso degli Orchi», «Nazione Indiana».
Contattalo:
domenico.calcaterra@gmail.com
Seguilo su:
http://www.facebook.com/domenico.calcaterra?fref=ts
Fuga dalla critica. Una premessa
Il catalano Pere Borrell del Caso è certamente pittore poco conosciuto. Diverso destino ha invece incontrato un suo dipinto, Huyendo de la crítica (1874), tra gli esempi più famosi e suggestivi di pittura d’illusione; al punto d’esser stato scelto, qualche anno fa, come biglietto da visita per una bella esposizione che celebrava le meraviglie del trompe-l’œil, a Palazzo Strozzi in Firenze. Il tema è quello, assai sperimentato, dell’intrigante rapporto fra raffigurazione e spazio reale. Borrell ritrae infatti un ragazzo scamiciato e ribelle nell’atto di scavalcare la cornice del quadro entro il quale appare confinato: con uno sguardo tra lo sgomento e l’atterrito (horror vacui?), si slancia verso la vera realtà, lo spazio dell’osservatore. A rendere quest’icona, di per sé eloquente, ancor più singolare, contribuendone ad intensificarne il riverbero di senso, appunto l’ironico titolo - «fuga dalla critica» - che fa esplicito riferimento a un destino di plausibile evasione. Titolo, si badi, per nulla accessorio. E mi sovvengono i versi dell’Ungaretti di Soldati: «si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie» - i quali, orfani del supplementare indizio del titolo che tutti conosciamo, ad ancorarli allo specifico d’una condizione storico-esistenziale, non avrebbero eguale forza. Lo stesso accade più o meno con quest’opera, dove il connubio tra immagine e didascalia cattura, si offre come stimolante punto di partenza a innescare una riflessione sul ruolo legittimo e ancora attuale della critica oggi, e della critica letteraria in particolare.
Nell’intenzione dell’autore pensata come icastica metafora dell’arte, stanca di sottostare al giogo degli squartamenti, l’opera si potrebbe modernamente intendere come esibita rivendicazione, per essa e il suo commento, di piena cittadinanza, anche nella vita.
In fuga, da chi e da cosa, dunque? Dagli asettici notomizzatori, i verificatori in camice, gli ordinati compilatori di referti; dal lazzaretto parassitario degli specialismi, dai gelidi pirotecnici furori filologici, dagli ottusi scienziati di professione. Epperò: verso dove? Di quale tensione è pregno quel perentorio accenno di potenziale e dinamico scatto, prima ancora che esso si compia?
Il desiderio fortissimo di un ricongiungimento, l’appassionato bisogno di ritornare alla vita; volontà di strappare l’arte, la letteratura, dal proprio orto concluso, in apparenza autoreferenziale, restituirla all’endogeno magma che l’ha generata. Non ho mai smesso di pensare l’attività del critico nei termini di un simile e decisivo tentativo di risalire la corrente: «rifare la strada» - ha scritto da qualche parte Debenedetti. Vissuta come atto di fede protestante
, la critica rivendica le ragioni della letteratura che sono, in uno, quelle della vita. Di più: si fa levatrice, come scrisse Michele Perriera, in quel libro di ariosa e intima verità condivisa che è La spola infinita (1995), d’una speciale «reincarnazione delle forme», redivive nelle «nostre attese non di letterati ma di esseri umani».
Dalla pagina al mondo, dal mondo alla scrittura: una prospettiva pendolare, che s’ingegna a tenere insieme due orizzonti (a prima vista inconciliabili) sotto un unico sguardo; a colmare, vivendolo, con un triplo salto mortale, il fecondo choc di vincere la paura e compiere quel salutare balzo nel vuoto (si rammenti l’espressione di curiosità raggelata del giovane ribelle di Borrell), al centro d’una realtà - la nostra, anche personale - ribollente e perennemente sotto costruzione. Come a dire che la critica, in ultimo, scaturisce da una fondamentale mancanza, un cronico deficit di cognizione. Somiglia, nel suo paradossale spazio d’esistenza, ad un allontanarsi per entrare in maggiore intimità, a un fuggire per ritornare. È perciò su quella soglia, spinti appena un passo fuori dalla distanziante cornice, che si consuma l’empatica frizione che ci dispone, in maniera diversa, verso noi stessi e l’altro da sé. Lasciandoci abitare, poco importa se un’enclave di sogno o di concretezza, d’evasione o di responsabilità. Ché altrimenti, come ha ricordato di recente Filippo La Porta in un suo articolo, quando non si produce quell’attrito «tutto svapora». Il miracolo che il critico accoglie, quando esso si compia, sta tutto qui. Tanto che si potrebbe parlare del palesarsi intermittente d’una verità particolare che viene a risvegliare la nostra percezione. Nel convergere di idee e destini, visioni del mondo e stili di vita (è ancora La Porta a farci da ventriloquo). Per dirla con il Proust de Il tempo ritrovato, è questo il solo modo di rintracciare «la vera vita, la vita finalmente riscoperta e illuminata».
Rimane pur tuttavia un ricercare che ha il sapore dello scostare il velo, scrollarsi di dosso la polvere dalla propria esistenza. Che assume la cifra impareggiabile d’una inconfessata necessità d’autobiografica auscultazione, fedele al solo metodo possibile: il non tenerne, per partito preso, alcuno. Inforcando le lenti, quanto si vuole deformanti e irrinunciabili, dell’immaginazione e dello stile. Si tratta di un’esperienza che, fiduciosa, sorge ad assecondare un soggettivo bisogno. Seppur in potenza anarchico, un soggettivismo comunque sempre incapace di misconoscere un certo rigore (si veda alla voce giudizio di gusto o di valore), scartando, come il Lousteau delle Illusioni perdute di Balzac, tra le stoffe della letteratura quelle meno resistenti, giacché «la critica è una spazzola che non si può usare sulle stoffe leggere, o si porterebbe via tutto». L’equilibristico aggirarsi al confine estremo tra passione e analisi: sta qui, forse, il punto di massimo distanziamento del critico puro dal puro scrittore.
Farsi non-contemporanei
Da diversi anni ormai gli scrittori italiani, quelli, anagraficamente parlando, dell’area TQ in ispecie, sembrano sentire l’obbligo di compiere il loro doveroso atto di responsabilità: un altare all’impegno che affonda le sue radici nella convinzione, oramai divenuta nuovo vangelo, credo, degli intellettuali, di vivere nella stordita dimensione di un presente d’inesperienza, del trauma del senza trauma
per citare una volta ancora il Giglioli fresco di stampa (in verità prospettiva sociologica, in Italia, nata vecchia, se si pensa che già nel suo opuscoletto uscito nel 2006 per Bompiani, La letteratura dell’inesperienza, Antonio Scurati ci aveva edotti sul trauma dell’inesperienza, per non dire di Benjamin e degli altri). L’orfananza di traumi reali porterebbe a riprodurre, come esperimenti in laboratorio, condizioni, sfondi, situazioni narrative estreme
, codificandosi in uno stile dell’eccesso che macina insieme e liofilizza, sulla pagina, cronaca e plasticosa aggressività linguistica, assunta a garanzia indubbia di iper-realismo (come dire, avere entrambi i piedi ben piantati nel terreno della nostra Storia presente). Sembra quasi che nessuno degli scrittori sappia svicolare dalla gabbia di un engagement che debba misurarsi con il collage dei soliti usati elementi (si pensi all’ultima di questa serie di narrazioni, Dove eravate tutti di Paolo Di Paolo, che sin dal titolo aspira all’apostrofe inquisitoria, e nella sua costruzione ne realizza in pieno, in chiave più o meno meta-narrativa, il modello). Tutti a rincorrere, in virtù della comune maledizione dei tempi di un immaginario bloccato
, un coercitivo sfondo (imposto e mai in concreto esperito), la fotostatica copia di una storia sempre uguale (nei modi, nei tempi, nel linguaggio): un masochistico correre, a braccia aperte, verso il muro grigio di un presente che, guardato sprezzantemente in faccia, rende miope il nostro scrutare. Risultato: una narratologia che, di variazione in variazione, rimane uguale a se stessa; costretta a galleggiare sull’usato e vischioso fondale della dittatura dei media, dell’exploit dei favolosi anni Ottanta, dell’avvento del berlusconismo (male più recente, tra i molti del nostro Paese, erroneamente e a lungo creduto come corpo estraneo, e invece tara genetica indubbia di una nazione). Ma ciò che davvero preoccupa di questa stagione di giovanile
irreggimentato neo-impegno intellettuale è il suo lugubre biglietto da visita: il vestire i panni di un sempre più ineluttabile destino, da abbracciare e percorrere. Ma questo, come, nel tentativo di rendere più salubre il clima intellettuale, fa bene a ricordare Vittorio Giacopini ("Pietrificati dalla Medusa d’oggi", Sole24ORE, 2 ottobre 2011), non è il solo dei possibili destini, ‹‹non è un percorso obbligato››, ma si può anche fare (si deve) altrimenti, ‹‹si può sempre››. Questo rinfrescare la memoria rispetto a una condizione sentita come obbligata e in realtà derivata da una masochistica e depotenziante autocastrazione, mi pare oggi più che mai un monito sacrosanto. Dismettere i panni del cronista, abbracciare uno sguardo traverso sul nostro presente, squarciare la camicia di forza neo-verista: tornare a quello strabismo (Giacopini, memore della lezione di Italo Calvino, chiama in causa il mito della Medusa che pietrifica e di Perseo col suo scudo che riesce a non soccombere) che sappia frapporre, fra noi e la realtà, un diaframma, segnare un punto di dialettico distanziamento: tornare per vie altre, davvero, a raccontarla, perché ‹‹farsi non-contemporanei vuol dire stare ai propri tempi, senza subirli››.
Il complesso del trauma negato
Dopo All’ordine del giorno è il terrore (2007), con il quale aveva criticamente profanato la mitologia del terrore (colta nei suoi nessi con la vita comune) grazie alla privilegiata entratura offerta dalla letteratura, Daniele Giglioli continua con Senza trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio (2011) ad esplorare i territori dei traumi (veri o presunti) di una contemporaneità malata, praticando un saggismo dallo stile accattivante e che polverizza gli steccati disciplinari, puntando dritto al bersaglio primo del suo argomentare. Qui, ripartendo dal dato dello slittamento della nostra epoca verso una compiuta «inesperienza», già in precedenza sondato da Antonio Scurati (La letteratura dell’inesperienza. Scrivere romanzi al tempo della televisione, 2006), nella quale i confini tra realtà e finzione si fanno sempre più sfumati e dove l’immaginario collettivo gioca il ruolo ingombrante di «ossatura morfologica», povero materiale da costruzione per dar forma alla messa in scena d’una esperienza fittizia, un Reale lacaniano complanare alla realtà, Giglioli riflette sul paradosso del trauma come solo paradigma di racconto in quella che definisce essere «l’epoca del trauma senza trauma; meglio ancora, del trauma dell’assenza di trauma». La rappresentazione del non traumatico sotto il segno del trauma sarebbe testimoniata, in letteratura, da una «postura condivisa», un complesso di atteggiamenti che Giglioli battezza scrittura dell’estremo. Scrittura e non stile, secondo la distinzione barthesiana; e perciò da intendere come atto performativo di «solidarietà storica». Alla base della crisi dei rapporti tra letteratura e mondo Giglioli individua la tara di una autoreferenzialità strabordante, il già menzionato offuscarsi dei contorni tra realtà e finzione (tipica delle poetiche postmoderne), e, ovviamente, lo strapotere dei mass media nello scenario di possibilità di rappresentazione del mondo. Ma è sempre un’artaudiana ideologia vittimaria a giustificare e legittimare per Giglioli (anche in questo caso)