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Gli angeli piangono
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E-book742 pagine12 ore

Gli angeli piangono

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Info su questo ebook

L'inferno. Il paradiso. E in mezzo una terra incantata dilaniata dalla guerra.

Dalle guerre coloniali di fine Ottocento fino agli anni Settanta del XIX secolo, uno straordinario e vivido ritratto dell'Africa e delle sue contraddizioni, in una nuova traduzione.

Rhodesia, 1895. Ralph Ballantyne, come suo padre Zouga, è un cacciatore, un cercatore d'oro e un convinto sostenitore della politica coloniale degli inglesi in Africa. Ma le tribù che i Ballantyne e altri come loro hanno sfruttato e massacrato senza pietà nel nome di una presunta civiltà non sono più disposte a sopportare passivamente l'avidità degli invasori che saccheggiano la loro terra, distruggendola. E stanno per ribellarsi…
Quasi cent'anni dopo, i discendenti di Ralph sono ancora in Africa. Quella terra ha cambiato nome e ora si chiama Zimbabwe, ma le guerre che l'hanno insanguinata non sono ancora finite. E sarà Craig Mellow, l'ultimo dei Ballantyne, a pagare il prezzo più alto per le azioni dei suoi antenati.

LinguaItaliano
Data di uscita16 lug 2020
ISBN9788830514898
Gli angeli piangono
Autore

Wilbur Smith

Considerato l’indiscusso maestro dell’avventura, è nato nel 1933 in Africa centrale e si è spento il 13 novembre 2021. Ha pubblicato più di quaranta titoli, tradotti in ventisei lingue, fra cui il ciclo ambientato nell'Antico Egitto e le celebri serie dedicate ai Courtney, ai Ballantyne e a Hector Cross. Nel 2015 ha fondato la Wilbur & Niso Smith Foundation, che promuove la cultura e la narrativa d'avventura. Fiore all'occhiello della fondazione è il prestigioso Wilbur Smith Adventure Writing Prize.

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    Anteprima del libro

    Gli angeli piangono - Wilbur Smith

    PARTE I

    Tre uomini a cavallo uscirono dal limitare della foresta, trattenendo un’impazienza che nemmeno le faticose settimane di ricerche incessanti erano riuscite a smorzare.

    Tirando le redini, si fermarono fianco a fianco e guardarono giù nell’ennesima valle poco profonda. Gli steli della secca erba invernale sostenevano capolini lanuginosi di un incantevole rosa pallido e la brezza leggera li agitava e li faceva danzare, cosicché il branco di antilopi nere sul fondovalle pareva fluttuare in un banco di turbinante foschia rosata.

    C’era un solo maschio, alto quasi quattordici spanne al garrese. La schiena e le spalle, lisce come raso, erano nere quanto quelle di una pantera, ma l’addome e i disegni elaborati del muso stupivano con il bianco iridescente della madreperla. Le grandi corna scanalate, curve come la scimitarra di Saladino, si piegavano all’indietro fino a toccare la groppa, e il collo si inarcava fiero come quello di uno stallone purosangue arabo. Ormai sterminata dai cacciatori nelle savane meridionali, la più nobile di tutte le antilopi africane era arrivata a simboleggiare, agli occhi di Ralph Ballantyne, quella nuova terra selvaggia e bellissima tra il Limpopo e il bacino ampio e verde dello Zambesi.

    Il grande maschio nero fissò con arroganza i cavalieri sul crinale, quindi sbuffò scrollando la testa bellicosa. Con la folta criniera scura che svolazzava e gli zoccoli aguzzi che scalpitavano sul terreno pietroso, guidò al galoppo le femmine color cioccolato oltre il crinale opposto, lasciando gli uomini ad ammirare in silenzio la loro magnificenza e la loro bellezza.

    Ralph Ballantyne, il primo a riscuotersi, si girò sulla sella verso suo padre.

    «Allora, papà?» domandò. «Riconosci qualche punto di riferimento?»

    «È stato più di trent’anni fa» mormorò Zouga Ballantyne, e la fronte gli si corrugò per la concentrazione; fu come se una punta di freccia gli si fosse scavata al centro della fronte. «Trent’anni, ed ero in preda alla malaria.» Poi si rivolse al terzo uomo, il piccolo ottentotto grinzoso, suo compagno e servitore sin da quei giorni lontani. «Che ne pensi, Jan Cheroot?»

    L’ottentotto sollevò il berretto militare sbrindellato, sistemandosi i capelli che spuntavano dal cuoio capelluto come batuffoli di pura lana bianca, grandi come grani di pepe. «Forse…»

    Ralph lo interruppe bruscamente. «Forse stavi solo delirando.»

    Il cipiglio sui bei lineamenti barbuti di suo padre si intensificò e la cicatrice sulla guancia passò dal bianco porcellana al rosa, mentre Jan Cheroot sorrideva impaziente; quando quei due erano insieme, erano più divertenti di un combattimento tra galli.

    «Per la miseria, ragazzo» lo rimbeccò Zouga. «Perché non torni ai carri a tenere compagnia alle donne?» Estrasse dal taschino la catena sottile e gliela fece penzolare davanti al viso. «Ecco qui» sbottò, «ecco la prova.»

    Dall’anello della catena pendevano un piccolo mazzo di chiavi e altre cianfrusaglie: un sigillo d’oro, una medaglietta di san Cristoforo, un tagliasigari e un frammento irregolare di quarzo, delle dimensioni di un chicco d’uva maturo. Venato come pregiato marmo azzurro, quest’ultimo era impreziosito al centro da uno spesso cuneo di scintillante metallo nativo.

    «Oro rosso grezzo» spiegò Zouga. «Pronto per essere raccolto!»

    Ralph sorrise, ma era un sorriso insolente e provocatorio, perché si stava annoiando. Settimane di vagabondaggi e ricerche infruttuose non erano nel suo stile.

    «Ho sempre sospettato che tu l’avessi comprato da un venditore ambulante sulla Grand Parade a Cape Town e che in ogni caso fosse soltanto pirite.»

    La cicatrice sulla guancia di suo padre si tinse di un rosso rabbioso; Ralph rise felice e strinse la spalla di Zouga. «Oh, papà, pensi che sprecherei settimane del mio tempo se lo credessi davvero? Tra la costruzione della ferrovia e tutta l’altra carne che ho messo al fuoco, sarei qui anziché a Johannesburg o a Kimberley?»

    Gli scosse dolcemente la spalla, con un sorriso che non era più beffardo. «È qui, lo sappiamo entrambi. Potremmo essere sopra il filone in questo preciso momento, oppure può darsi che sia appena oltre il prossimo crinale.»

    La cicatrice di Zouga si schiarì lentamente e Ralph proseguì in tono calmo: «La parte difficile, naturalmente, è ritrovarlo. Potremmo rintracciarlo nella prossima ora o dover cercare per altri dieci anni».

    Guardandoli, Jan Cheroot provò una punta di delusione. Li aveva visti litigare una volta, ma era stato molto tempo prima. Ora Ralph era nel fiore della virilità, aveva quasi trent’anni ed era abituato a gestire le centinaia di uomini rozzi cui dava lavoro nella sua società di trasporti e nelle squadre edili, mettendoli in riga con parole, calci e pugni. Era grosso, duro e tronfio come un gallo da combattimento, ma Jan Cheroot sospettava che il vecchio segugio fosse ancora capace di far rotolare il cucciolo nella polvere. Il nomignolo elogiativo che i matabele avevano dato a Zouga Ballantyne era Bakela, il Pugno, e lui era ancora veloce e snello. Sì, decise Jan Cheroot con rammarico, sarebbe valsa ancora la pena assistere a una zuffa, ma forse un altro giorno, perché gli animi si erano già calmati e i due uomini avevano ricominciato a parlare fitto fitto, chinandosi l’uno verso l’altro dalle selle. Ora parevano più che altro fratelli perché, nonostante la somiglianza inequivocabile, Zouga non sembrava abbastanza vecchio per essere il padre di Ralph. La pelle era troppo chiara e liscia, gli occhi troppo rapidi e vitali, e le vaghe striature argentee nella barba dorata avrebbero potuto semplicemente essere state schiarite dall’implacabile sole africano.

    «Se solo avessi misurato l’altitudine del sole… Le altre osservazioni che hai fatto sono tutte molto accurate» gemette Ralph. «Sono riuscito a rintracciare direttamente tutti i depositi d’avorio che avevi lasciato quell’anno.»

    «Ormai erano iniziate le piogge.» Zouga scosse la testa. «E per Dio, come pioveva! Non vedevamo il sole da una settimana, i fiumi erano tutti in piena, e noi marciavamo in tondo, cercando un guado…» Si interruppe e sollevò le redini con la mano sinistra. «Ma ti ho raccontato questa storia cento volte. Proseguiamo» suggerì a bassa voce, e scesero al trotto dal crinale verso la valle, con Zouga che si sporgeva dalla sella per esaminare il terreno in cerca di schegge del filone o si girava lentamente per scrutare l’orizzonte e provare a riconoscere la forma delle creste o la chiazza azzurra di una kopje distante contro il torreggiante cielo africano, dove le nuvole argentee del bel tempo veleggiavano alte e serene.

    «L’unico punto di riferimento certo su cui possiamo fare affidamento è il sito delle rovine di Grande Zimbabwe» borbottò Zouga. «Da lì abbiamo marciato otto giorni in direzione ovest.»

    «Nove giorni» lo corresse Jan Cheroot. «Ne hai perso uno quando è morto Matthew. Avevi la febbre. Ho dovuto curarti come un bambino e avevamo con noi quel maledetto uccello di pietra.»

    Zouga lo ignorò. «Non possiamo aver percorso più di dieci miglia al giorno. «Otto giorni di marcia, non più di ottanta miglia.»

    «E Grande Zimbabwe è da quella parte. A est di qui.» Ralph fermò il cavallo quando spuntarono sul crinale successivo. «Ecco la Sentinella.» Indicò una kopje di roccia, la lontana cima azzurra a forma di leone accovacciato. «Le rovine sono subito dopo, non potrei mai confondermi.»

    Per padre e figlio la città in rovina aveva un significato speciale. Lì, dentro quelle massicce mura di pietra, Zouga e Jan Cheroot avevano trovato gli antichi idoli con le sembianze di uccelli, abbandonati dagli abitanti ormai scomparsi. Nonostante le condizioni disperate in cui erano stati ridotti dalla febbre e dalle altre avversità della lunga spedizione dal fiume Zambesi a nord, Zouga aveva insistito per portare con sé una delle statue.

    Poi, molti anni dopo, era stato il turno di Ralph. Guidato dal diario del padre e dalle meticolose osservazioni eseguite con il sestante, aveva ritrovato la cittadella deserta. Pur inseguito dagli impi di confine di Lobengula, il re dei matabele, aveva sfidato il divieto imposto dal sovrano sul luogo sacro e aveva trafugato le statue rimaste. Perciò tutti e tre gli uomini conoscevano bene quelle rovine incantate e incantevoli e, mentre fissavano le colline lontane che circoscrivevano il sito, tacquero, assorti nei ricordi.

    «Mi chiedo ancora chi fossero i costruttori di Zimbabwe» disse Ralph alla fine. «Che ne è stato di loro?» Aveva un insolito tono sognante e non si aspettava una risposta. «Erano i minatori della regina di Saba? Era questa l’Ofir della Bibbia? Portavano a Salomone l’oro che estraevano?»

    «Forse non lo sapremo mai.» Zouga si riscosse. «Ma sappiamo che apprezzavano l’oro quanto noi. Nel cortile di Grande Zimbabwe ho trovato lamine e perline d’oro e lingotti, e deve essere stato a qualche miglio da qui che io e Jan Cheroot abbiamo esplorato i pozzi scavati nella terra e scoperto i frammenti di filone ammucchiati e pronti per la frantumazione.» Zouga lanciò un’occhiata all’ottentotto. «Riconosci qualcosa?»

    Jan Cheroot rifletté, con il viso scuro da folletto raggrinzito come una prugna seccata al sole. «Forse dal prossimo crinale» borbottò cupo, e i tre scesero verso la valle, identica alle altre cento che avevano attraversato nelle settimane precedenti.

    Ralph, che andava al piccolo galoppo, precedeva gli altri due di una decina di passi, costringendo il cavallo a costeggiare un folto boschetto di ebani selvatici, quando si alzò all’improvviso sulle staffe, togliendosi il cappello e sventolandolo.

    «Dagli!» urlò. «Se ne sono andati!»

    Zouga vide il lampo d’oro bruciato di un movimento fluido sul terreno aperto della china opposta.

    «Tre di quei diavoli!» L’emozione e l’odio trapelarono chiaramente dal tono e dal timbro della voce di Ralph. «Jan Cheroot, mandali a sinistra! Papà, impedisci loro di attraversare il burrone!»

    Ralph Ballantyne era un leader nato e gli altri due obbedirono automaticamente, senza chiedersi nemmeno per un momento perché avrebbero dovuto uccidere i magnifici animali che aveva stanato dal boschetto. Ralph possedeva duecento carri, ciascuno trainato da sedici buoi. King’s Lynn, la tenuta di Zouga, rilevata grazie alle concessioni terriere accordate dalla British South Africa Company ai volontari che avevano sterminato gli impi di Lobengula, occupava migliaia di ettari, popolati dai migliori capi delle mandrie sottratte ai matabele, oltre che dai tori purosangue importati dal Capo di Buona Speranza e dalla vecchia Inghilterra.

    Padre e figlio erano entrambi allevatori e avevano subito terribili depredazioni da parte dei branchi di leoni che infestavano quella splendida terra a nord del Limpopo e delle rive dello Shashi. Troppo spesso avevano udito i loro preziosi e amati animali urlare di dolore durante la notte, e all’alba avevano trovato le carcasse sbranate. Per entrambi, i leoni erano il peggior tipo di parassiti, e quella rara occasione di sorprenderne un branco in pieno giorno li riempì di euforia.

    Ralph sfilò il Winchester a ripetizione dal fodero di cuoio sotto il ginocchio sinistro, lanciando il castrone sauro all’inseguimento dei grandi felini gialli. Il maschio era stato il primo a fuggire e Ralph lo intravide a malapena, con la schiena inarcata e l’addome pendulo, la folta criniera scura ritta in segno di allarme, mentre si addentrava maestoso nel bush sulle zampe pesanti. La leonessa più vecchia lo seguì senza esitazione. Snella e coperta dalle cicatrici di mille cacce, aveva il manto azzurrognolo sulle spalle e sul dorso per via dell’età. Si allontanò a balzi. La più giovane, invece, non abituata alla presenza dell’uomo, era audace e curiosa come un gatto. Con l’addome color crema ancora vagamente maculato come quello dei cuccioli, si voltò sul limitare del boschetto per ringhiare al cavaliere. Le orecchie erano appiattite contro il cranio, la lingua rosa e ruvida arricciata sopra le zanne, i baffi bianchi e rigidi come gli aculei di un istrice.

    Ralph lasciò cadere le redini sul collo del castrone e il cavallo reagì all’istante, fermandosi di colpo per permettergli di sparare e tradendo l’agitazione solo con lo sforbiciare delle orecchie.

    Ralph alzò il Winchester e sparò non appena la piastra del calcio gli affondò nella spalla. La leonessa grugnì violentemente quando il proiettile si conficcò nella carne, diretto verso il cuore. Spiccò un salto altissimo, ruggendo come impazzita. Cadde e si rotolò sulla schiena, strappando gli arbusti con gli artigli gialli completamente sfoderati e infine allungandosi in un ultimo spasmo tremante prima di accasciarsi nell’abbandono della morte.

    Ralph ricaricò il Winchester e riprese le redini. Il castrone scattò in avanti.

    A destra, Zouga, chino sulla sella, stava risalendo il bordo del burrone, e in quel momento la seconda leonessa uscì allo scoperto, dirigendosi velocemente verso il profondo precipizio invaso dalla vegetazione. Zouga sparò senza fermarsi. Ralph vide la polvere schizzare sotto la pancia dell’animale.

    Basso e a sinistra. Papà sta invecchiando, lo schernì tra sé, arrestando il castrone sulle zampe rigide. Prima che potesse premere il grilletto, Zouga sparò di nuovo e la leonessa si afflosciò e rotolò come una palla gialla sulla terra sassosa, colpita al collo una spanna dietro l’orecchio.

    «Bravissimo!» Ralph rise entusiasta, affondando i calcagni nei fianchi del castrone mentre risalivano il pendio fianco a fianco.

    «Dov’è Jan Cheroot?» gridò Zouga, e per tutta risposta sentirono un colpo di fucile nella foresta a sinistra e girarono i cavalli in quella direzione.

    «Riesci a vederlo?» urlò Ralph.

    Gli arbusti davanti a loro erano più fitti e i rami spinosi sferzarono loro le cosce. Ci fu un secondo sparo, seguito immediatamente dai ruggiti furiosi e assordanti del leone, mescolati alle grida inorridite di Jan Cheroot.

    «È nei guai!» osservò Zouga preoccupato, mentre uscivano dagli arbusti folti.

    Davanti a loro si allargava una distesa di erba sottile sotto le alte acacie dalle cime piatte lungo il crinale. Cento iarde più in là, Jan Cheroot galoppava lungo la cresta, girandosi sulla sella per guardarsi sopra la spalla, il viso una maschera di terrore, gli occhi sgranati, di un bianco scintillante. Aveva perso cappello e fucile, ma frustava il cavallo sul collo e sulle spalle benché l’animale stesse già correndo a una velocità folle, fuori controllo.

    Il leone era una decina di passi più indietro ma guadagnava terreno a ogni balzo elastico, come se cavallo e cavaliere fossero immobili. I fianchi che si alzavano e si abbassavano erano viscidi e lucidi di nuovo sangue rosso vivo. Era stato colpito alle viscere, ma la ferita non l’aveva menomato né tantomeno costretto a rallentare. Anzi, l’aveva reso furibondo, tanto che i versi che gli uscivano continuamente dalla gola assomigliavano a tuoni.

    Ralph sterzò bruscamente per provare a intercettare l’ottentotto e modificare l’angolazione per sparare alla belva, ma in quel momento il felino interruppe la sua carica uniforme e zigzagante, si erse sopra i quarti tesi e contratti del cavallo e li dilaniò con i lunghi artigli curvi, cosicché la pelle scurita dal sudore si lacerò in profonde ferite parallele da cui il sangue fumante uscì in una sottile nuvola cremisi. Il cavallo nitrì e scalciò, colpendo al petto il leone, che barcollò e perse un passo. Si riprese all’istante e tornò all’attacco, affiancandosi al cavallo terrorizzato, gli occhi di un giallo imperscrutabile mentre si preparava a balzargli in groppa.

    «Salta, Jan Cheroot!» urlò Ralph. Il leone era troppo vicino all’ottentotto per arrischiarsi a sparare. «Salta, per la miseria!» Ma l’altro pareva non averlo udito, disperatamente aggrappato alla criniera aggrovigliata e svolazzante, paralizzato dalla paura.

    Il leone si alzò agilmente nell’aria, posandosi sulla schiena del cavallo come un enorme uccello giallo e schiacciando Jan Cheroot sotto il peso del suo massiccio corpo striato di sangue. In quel momento, cavallo, cavaliere e leone sembrarono scomparire divorati dalla terra, lasciando al loro posto solo una turbinante colonna di polvere. Tuttavia i ruggiti fragorosi della belva furibonda e le urla atterrite di Jan Cheroot diventarono ancora più forti mentre Ralph galoppava verso il punto del crinale in cui erano svaniti.

    Impugnando il Winchester, sfilò i piedi dalle staffe e saltò giù dalla sella, sfruttando lo slancio finché non si ritrovò sul bordo di una fossa dalle pareti a strapiombo, in fondo alla quale giaceva un groviglio di corpi ansimanti.

    «Il diavolo mi sta uccidendo!» urlò Jan Cheroot, e Ralph lo vide bloccato sotto il corpo del cavallo. L’animale, che doveva essersi rotto il collo cadendo, era senza vita, con la testa girata sotto la spalla, e il leone stava sbranando la carcassa e la sella, cercando di arrivare a Jan Cheroot.

    «Sta’ fermo!» gridò Ralph. «Dammi modo di sparare!»

    Ma a sentirlo fu il leone. Abbandonò il cavallo e si inerpicò lungo la parete verticale della fossa con l’agilità di un gatto che si arrampica su un albero, le lucide e muscolose zampe posteriori che lo spingevano senza fatica e gli occhi giallo chiaro puntati su Ralph, fermo sul bordo della buca profonda.

    Ralph si lasciò cadere su un ginocchio per prepararsi a fare fuoco, mirando all’ampio petto dorato. Le fauci erano spalancate, le zanne lunghe quanto l’indice di un uomo e bianche come avorio lucidato. I ruggiti assordanti gli echeggiavano nelle orecchie. Fiutò l’odore di carne putrefatta nel fiato del leone e goccioline di saliva calda gli spruzzarono le guance e la fronte.

    Sparò, ricaricò l’arma e sparò di nuovo, così rapidamente che i colpi furono un’esplosione ininterrotta. Il leone si inarcò all’indietro, restò appeso per un lungo momento alla parete della fossa, quindi vacillò e ripiombò sul cavallo morto.

    Sul fondo della buca non si muoveva più nulla e il silenzio era più intenso dei boati tonanti che l’avevano preceduto.

    «Tutto bene, Jan Cheroot?» chiese Ralph ansioso.

    L’ottentotto non si vedeva, completamente sepolto dalle carcasse del cavallo e del leone.

    «Jan Cheroot, mi senti?»

    La risposta fu un cupo sussurro sepolcrale. «I morti non sentono. È tutto finito. Si sono presi il vecchio Jan Cheroot.»

    «Vieni fuori» ordinò Zouga Ballantyne, avvicinandosi a Ralph. «Non è il momento di fare il buffone, Jan Cheroot.»

    * * *

    Ralph gettò all’ottentotto una corda di canapa, e padre e figlio tirarono fuori da sotto al cavallo lui e la sella.

    La buca in cui era caduto era una fossa stretta e profonda lungo la cresta del crinale. In alcuni punti era alta venti piedi, ma non superava mai i sei piedi di larghezza. Era perlopiù invasa da rampicanti ed erbacce, ma ciò non indeboliva la certezza che fosse stata scavata dall’uomo.

    «Il filone è venuto alla luce lungo questa linea» ipotizzò Zouga mentre seguivano l’orlo della vecchia fossa. «I minatori dell’epoca si sono limitati a estrarlo, senza prendersi il disturbo di riempire nuovamente la buca.»

    «Come hanno fatto a farlo brillare?» domandò Ralph. «Laggiù è tutta roccia compatta.»

    «Probabilmente accendevano dei fuochi e poi li spegnevano con l’acqua. La contrazione crepava la roccia.»

    «Be’, sembra che abbiano estratto fino all’ultimo briciolo di minerale, senza lasciarcene nemmeno un granello.»

    Zouga annuì. «Prima devono aver esaurito questa sezione e poi, quando il filone è finito, avranno cominciato a scavare buche per provare a intercettarlo di nuovo.» Si voltò verso Jan Cheroot. «Ora lo riconosci questo posto?» Quando l’ottentotto esitò, Zouga indicò lungo il pendio. «La palude nella valle laggiù e gli alberi di tek…»

    «Sì, sì.» Jan Cheroot batté le mani, con gli occhi che brillavano di gioia. «È lo stesso posto in cui hai ucciso l’elefante… Le zanne sono sulla veranda di King’s Lynn.»

    «L’antico deposito sarà poco più avanti.» Zouga si affrettò a proseguire. Trovò la bassa montagnola erbosa e si inginocchiò per frugare tra le radici, raccolse le schegge di quarzo bianco e le esaminò rapidamente a una a una, gettandole via. Di tanto in tanto ne inumidiva un frammento con la lingua, lo teneva controluce per provare a distinguere lo scintillio del metallo, quindi corrugava le sopracciglia e, deluso, scrollava il capo.

    Alla fine si alzò e si pulì le mani sui pantaloni.

    «Sì, è quarzo, ma gli antichi minatori devono aver selezionato manualmente il contenuto di questo deposito. Dovremo trovare i vecchi pozzi, se vogliamo vedere dell’oro nel minerale.»

    Dalla cima del vecchio deposito, Zouga si orientò velocemente.

    «La carcassa dell’elefante è caduta più o meno in quel punto» disse indicando e, a conferma delle sue parole, Jan Che-root ispezionò l’erba e raccolse un femore enorme, secco e bianco come gesso, che dopo trent’anni cominciava finalmente a sgretolarsi.

    «Era il padre di tutti gli elefanti» disse l’ottentotto, riverente. «Non ce ne sarà mai un altro uguale, ed è stato lui a condurci qui. Quando gli hai sparato, è caduto qui per mostrarci il posto giusto.»

    Zouga si girò di novanta gradi, indicando di nuovo. «L’antico pozzo in cui abbiamo seppellito il vecchio Matthew sarà laggiù.»

    Ralph ricordava la caccia all’elefante che suo padre aveva descritto nel famoso libro Odissea di un cacciatore. Il portafucili nero non era fuggito davanti alla carica dell’enorme maschio, anzi era rimasto e aveva porto a Zouga il secondo fucile, sacrificando la vita per salvare quella del padrone. Così Ralph capì e restò in silenzio mentre Zouga si piegava su un ginocchio accanto al cumulo di pietre che indicava la tomba del portafucili.

    Di lì a un minuto, Zouga si alzò, si spolverò i pantaloni e disse semplicemente: «Era un brav’uomo».

    «Bravo, ma stupido» commentò Jan Cheroot. «Un uomo saggio sarebbe scappato.»

    «E avrebbe scelto una tomba migliore» mormorò Ralph. «È proprio al centro di un filone aurifero. Dovremo dissotterrarlo.»

    Ma Zouga si accigliò. «Lascialo in pace. Ci sono altri pozzi lungo la vena.» Si voltò e gli altri lo seguirono. Cento iarde più avanti si fermò di nuovo. «Ecco!» esclamò soddisfatto. «Il secondo pozzo. Erano quattro in tutto.»

    Anche quell’apertura era stata riempita con pezzi di roccia indigena. Ralph si tolse la giacca e, dopo aver appoggiato il fucile al tronco dell’albero più vicino, scese nella depressione poco profonda fino a chinarsi sopra l’angusta entrata ostruita.

    «Voglio aprirla.»

    Lavorarono per mezz’ora, liberando i macigni con un ramo di omumborombonga e spostandoli di lato finché ebbero scoperto l’imboccatura quadrata. Era stretta: così stretta che solo un bambino sarebbe riuscito a passare. Si inginocchiarono e sbirciarono dentro. Era impossibile capire quanto fosse profondo il pozzo, perché l’oscurità era impenetrabile e c’era un puzzo di umidità, di funghi e pipistrelli, e di cose marce.

    Ralph e Zouga fissarono l’apertura, insieme disgustati e affascinati.

    «Dicono che gli antichi nelle miniere usassero gli schiavi bambini e i prigionieri boscimani» mormorò Zouga.

    «Dobbiamo capire se il filone è lì sotto» sussurrò Ralph. «Ma un uomo adulto non…» Si interruppe e ci fu un altro momento di silenzio pensieroso, quindi Zouga e Ralph si scambiarono un’occhiata e, sorridendo, si voltarono insieme verso Jan Cheroot.

    «Mai!» esclamò l’ottentotto. «Sono vecchio e malato. Mai! Prima dovrete uccidermi!»

    * * *

    Ralph trovò un mozzicone di candela nella bisaccia mentre Zouga annodava rapido le tre pastoie dei cavalli e Jan Cheroot osservava i preparativi come un condannato assiste alla costruzione della forca.

    «Dal giorno in cui sono nato, ventinove anni fa, non fai altro che parlarmi del tuo coraggio e della tua audacia» gli rammentò Ralph, mettendogli un braccio intorno alle spalle e guidandolo dolcemente verso l’imboccatura del pozzo.

    «Forse ho esagerato un pochino» ammise l’ottentotto mentre Zouga gli legava la corda sotto le ascelle e gli fissava una bisaccia alla vita minuscola.

    «Hai combattuto contro i selvaggi e dato la caccia a elefanti e leoni… Quali insidie potrà mai nascondere questa piccola buca? Qualche serpente, un po’ di buio, i fantasmi dei defunti, ecco tutto.»

    «Forse ho esagerato più di un pochino» sussurrò Jan Cheroot con voce rauca.

    «Non sei un codardo, vero?»

    «Sì.» L’altro annuì vigorosamente. «Altroché se lo sono, e questo non è un posto per codardi.»

    Ralph lo tirò indietro mentre si dibatteva all’estremità della fune come un pesce gatto sull’amo, lo sollevò senza fatica e lo calò nel pozzo. Le sue proteste si affievolirono a mano a mano che Ralph faceva scorrere la corda.

    Il giovane misurava la fune in base alla distanza tra le sue braccia allargate. Calcolando circa sei piedi per ogni tratto, doveva aver calato l’ottentotto per poco meno di sessanta piedi quando la corda si allentò.

    «Jan Cheroot!» urlò Zouga verso il pozzo.

    «Una piccola caverna.» La voce di Jan Cheroot era soffocata e distorta dall’eco. «A malapena riesco a stare in piedi. Il filone è nero di fuliggine.»

    «I fuochi che usavano per cucinare. Gli schiavi saranno stati tenuti laggiù» disse Zouga, «senza più rivedere la luce del giorno finché morivano.» Poi alzò la voce. «Che altro?»

    «Funi, corde di erba intrecciata e secchi, secchi di cuoio come quelli che usavamo nelle miniere di diamanti a New Rush…» Jan Cheroot lanciò un’esclamazione. «Vanno a pezzi quando li tocco, ormai sono ridotti in polvere.» Gli altri due udirono una serie di deboli starnuti e colpi di tosse e, quando ricominciò a parlare, aveva la voce arrochita e nasale. «Utensili di ferro, qualcosa di simile a un’ascia.» Quando riprese, sentirono il tremito della sua voce. «In nome del grande serpente, qui ci sono degli uomini morti, ossa di uomini morti. Voglio risalire… tirami su!»

    Scrutando il pozzo angusto, Ralph vide la fiammella tremolante della candela sul fondo.

    «C’è una galleria che si diparte dalla caverna?»

    «Tirami su!»

    «Vedi una galleria?»

    «Sì. Ora ti decidi a tirarmi su?»

    «Solo quando l’avrai seguita fino in fondo.»

    «Sei impazzito? Dovrei strisciare carponi.»

    «Porta con te uno di quegli attrezzi di ferro per staccare un frammento di filone.»

    «No. Ne ho abbastanza. Mi rifiuto di proseguire, con tutti i morti che sorvegliano questo posto.»

    «Molto bene» gridò Ralph, «allora butto nel pozzo il capo della corda.»

    «Non lo faresti mai!»

    «E poi rimetterò le pietre sopra l’entrata.»

    «Vado.» La voce di Jan Cheroot aveva la durezza della disperazione e la fune ricominciò a snodarsi nel pozzo come un serpente che entra nella tana.

    Ralph e Zouga si accovacciarono accanto all’apertura, passandosi l’ultimo sigaro e aspettando malvolentieri, con impazienza.

    «Quando hanno abbandonato la miniera, devono aver chiuso gli schiavi nel pozzo. Uno schiavo era un bene prezioso, questo dimostra che stavano ancora sfruttando il filone e che se ne sono andati in tutta fretta.» Zouga fece una pausa, inclinò la testa per ascoltare e poi si lasciò sfuggire un «Ah!» soddisfatto. Dalle viscere della terra sotto i loro piedi saliva il rumore lontano di un utensile metallico contro la roccia viva. «Jan Cheroot ha raggiunto la sezione di scavo.»

    Tuttavia passarono ancora molti minuti prima che rivedessero la luce tremolante della candela in fondo al pozzo e udissero le suppliche patetiche e piagnucolose di Jan Cheroot.

    «Ti prego, padron Ralph, ho fatto quello che volevi. Ora tirami su, per favore!»

    Ralph piazzò i piedi ai due lati del pozzo e cominciò a tirare la corda. I muscoli delle braccia si gonfiavano e si sgonfiavano sotto le maniche della leggera camicia di cotone mentre issava l’ottentotto e il suo carico verso la superficie senza mai fermarsi e, quando ebbe finito, il suo respiro era ancora calmo e regolare e non c’era nemmeno una goccia di sudore sul suo viso.

    «Allora, Jan Cheroot, cos’hai trovato?»

    Jan Cheroot era coperto dalla testa ai piedi di una fine polvere chiara su cui il sudore aveva disegnato rivoletti fangosi; puzzava di guano di pipistrello e dell’odore di funghi tipico delle caverne abbandonate da tempo. Con le mani che ancora tremavano di paura e stanchezza, aprì il lembo della bisaccia che aveva legata in vita.

    «Ecco qui» gracchiò, e Zouga prese un blocco di roccia grezza e ruvida.

    Aveva una tessitura cristallina che scintillava come ghiaccio ed era striata di azzurro e lacerata da minuscole crepe e imperfezioni, alcune delle quali provocate dai colpi dell’ascia di ferro con cui Jan Cheroot l’aveva staccato dalla parete rocciosa. Ma i frammenti di quarzo luccicante erano tenuti insieme dalla sostanza che aveva riempito ogni spaccatura e linea di faglia del minerale. Quel cemento era un sottile strato malleabile di metallo sfavillante che scintillò sotto il sole quando Zouga lo inumidì con la punta della lingua.

    «Per Dio, Ralph, guarda!»

    Ralph prese il blocco dalla mano di suo padre con la reverenza di un fedele che riceve l’eucaristia.

    «Oro!» mormorò, e il metallo brillò con quell’incantevole bagliore giallo che affascinava gli uomini fin quasi dal momento in cui avevano imparato a camminare eretti.

    «Oro!» ripeté Ralph.

    Per trovare quel lucente metallo prezioso avevano faticato gran parte della vita, padre e figlio; si erano avventurati in regioni lontane e, in compagnia di altri filibustieri, avevano combattuto cruente battaglie, contribuito a distruggere una nazione orgogliosa e dato la caccia a un re fino alla sua morte solitaria.

    Guidati da un malato dal cuore gonfio e danneggiato e dai sogni ambiziosi, si erano impadroniti di una terra sconfinata che ora portava il nome di quel gigante, la Rhodesia, e avevano costretto il suolo a cedere a una a una le sue ricchezze. Si erano impossessati dei dolci pascoli vastissimi e delle magnifiche catene montuose, delle foreste di legno pregiato, delle mandrie di bestiame dal pelo lucido, delle legioni di robusti uomini neri che, in cambio di quattro soldi, fornivano la manodopera per l’immenso raccolto. E ora, finalmente, tenevano tra le mani il tesoro più ambito.

    «Oro!» disse Ralph per la terza volta.

    * * *

    Piantarono i paletti lungo il crinale, ricavandoli dalle acacie che stillavano linfa trasparente dai tagli inferti dalle asce, e li conficcarono nella terra dura con il piatto della lama. Quindi eressero cumuli di pietre per segnalare i confini.

    Secondo il Fort Victoria Agreement, che entrambi avevano firmato quando si erano offerti volontari per combattere contro gli impi di Lobengula, ciascuno di loro aveva diritto a dieci concessioni aurifere. Naturalmente ciò non valeva per Jan Cheroot. Benché fosse andato nel Matabeleland con le truppe di pronto impiego di Jameson e avesse ucciso gli amadoda matabele sul fiume Shangani e all’attraversamento del Bembezi con lo stesso entusiasmo dei suoi padroni, era pur sempre un uomo nero e pertanto non poteva ricevere parte del bottino.

    Oltre a ciò cui Zouga e Ralph avevano diritto secondo il Victoria Agreement, entrambi avevano comprato molti blocchi di concessioni dai soldati dissoluti e spendaccioni dell’esercito di Jameson, alcuni dei quali le avevano vendute al prezzo di una bottiglia di whisky. Così poterono delimitare l’intero crinale e buona parte dei fondovalle su ciascuno dei suoi lati.

    Era un lavoro faticoso ma urgente, perché c’erano altri cercatori d’oro in circolazione, uno dei quali poteva aver seguito le loro tracce. Lavorarono nel caldo di mezzogiorno e alla luce della luna, finché, sopraffatti dallo sfinimento, mollarono le asce e caddero addormentati là dove si trovavano. Finalmente la quarta sera poterono fermarsi, certi di essersi assicurati l’intero filone. Tra i paletti non c’erano spazi vuoti in cui potessero insinuarsi altri cercatori.

    «Jan Cheroot, è rimasta una sola bottiglia di whisky» gemette Zouga stirandosi le spalle indolenzite, «ma stasera te ne lascerò bere a volontà.»

    Padre e figlio guardarono divertiti mentre Jan Cheroot riempiva il boccale fino all’orlo, facendo attenzione a non rovesciare neppure una goccia. Aveva ignorato completamente la riga che, intorno al fondo, segnava la sua razione quotidiana e, quando il boccale fu pieno, anziché sollevarlo con la mano, bevve il primo sorso mettendosi a quattro zampe come un cane.

    Ralph recuperò la bottiglia ed esaminò tristemente il liquore rimasto prima di versarne un goccio per sé e per suo padre.

    «Alla Harkness Mine» brindò Zouga.

    «Perché la chiami così?» chiese Ralph, abbassando il boccale e pulendosi i baffi con il dorso della mano.

    «È stato il vecchio Tom Harkness a darmi la mappa che mi ha condotto fin qui» rispose Zouga.

    «Potremmo trovare un nome migliore.»

    «Forse, ma questo è quello che voglio.»

    «L’oro scintillerà ugualmente, immagino» cedette Ralph, attento a mettere la bottiglia fuori dalla portata di Jan Cheroot, che aveva già vuotato il boccale. «Sono contento che facciamo di nuovo qualcosa insieme, papà.» Si mise comodo appoggiandosi alla sella.

    «Sì» mormorò Zouga. «È trascorso troppo tempo da quando abbiamo lavorato insieme nella miniera di diamanti a New Rush.»

    «Conosco proprio il tipo adatto per aprire i cantieri. È il più bravo, l’uomo migliore che si possa trovare nei bacini auriferi del Witwatersrand, e farò portare i macchinari con i miei carri prima che inizino le piogge.»

    Secondo i patti, Ralph avrebbe fornito gli uomini, i macchinari e il denaro per gestire la Harkness Mine una volta che Zouga l’avesse condotto fin laggiù. Ralph, infatti, era ricco. Alcuni dicevano che fosse già milionario, anche se Zouga sapeva che era improbabile. Nonostante ciò ricordava che Ralph aveva messo a disposizione i mezzi di trasporto e il commissariato sia per la colonna del Mashonaland sia per la spedizione contro Lobengula nel Matabeleland, e in entrambi i casi aveva ricevuto somme ingenti dalla British South Africa Company di Mr Rhodes, non in contanti, bensì in azioni della compagnia. Come Zouga, aveva speculato acquistando le concessioni terriere originali dagli scialacquatori vagabondi che avevano formato il grosso della colonna iniziale e li aveva pagati con il whisky, trasportandolo con i suoi carri dal capolinea della ferrovia. La sua Rhodesia Land Company possedeva più terre di quante ne avesse lo stesso Zouga. Ralph aveva speculato anche sulle azioni della British South Africa Company. Negli emozionanti giorni in cui la colonna aveva raggiunto Fort Salisbury, aveva venduto alla borsa di Londra, per tre sterline e quindici scellini, le azioni che aveva comprato a una sterlina da Mr Rhodes. Poi, quando le ambiziose speranze e l’ottimismo dei pionieri erano avvizziti nel veld acido e negli sterili corpi minerali del Mashonaland, mentre Rhodes e Jameson pianificavano in segreto la guerra contro il re dei matabele, Ralph aveva ricomprato le azioni per otto scellini. Le aveva viste quotare otto sterline quando la colonna era entrata nelle rovine in fiamme del kraal di Lobengula a GuBulawayo e la Compagnia aveva aggiunto ai propri possedimenti l’intero regno del sovrano dei matabele.

    Ora, ascoltando suo figlio che parlava con quell’energia e quel carisma contagiosi, intatti nonostante i giorni e le notti di fatica fisica, Zouga ricordò che Ralph aveva posato le linee del telegrafo da Kimberley a Fort Salisbury, che in quel momento le sue squadre edili stavano costruendo le linee ferroviarie attraverso quella regione desolata fino a Bulawayo, che i suoi duecento carri trasportavano merci fino agli oltre cento posti di scambio che gli appartenevano, sparsi nel Bechuanaland, nel Matabeleland e nel Mashonaland, e che da quel giorno Ralph era anche proprietario di metà di una miniera d’oro, probabilmente ricca quanto quelle del favoloso Witwatersrand.

    Zouga sorrise tra sé mentre ascoltava Ralph parlare nella luce tremolante del fuoco, e d’un tratto pensò: Per la miseria, potrebbero avere ragione, dopotutto… Può darsi che il cucciolo sia già milionario. L’orgoglio si mescolò a una punta di invidia. Zouga lavorava e sognava da molto tempo prima che Ralph nascesse, facendo sacrifici e sopportando avversità che lo facevano ancora rabbrividire al solo pensiero, e tutto per una ricompensa molto più modesta. A parte il nuovo filone, le uniche cose che gli restavano dopo una vita di duro lavoro erano King’s Lynn e Louise. Ma poi sorrise. Con quei due averi era più ricco di quanto lo sarebbe mai stato Mr Rhodes.

    Sospirando, si abbassò il cappello sugli occhi e, visualizzando chiaramente l’amato viso di Louise, scivolò nel sonno mentre, dall’altra parte del fuoco, Ralph continuava a sussurrare, parlando più con se stesso che con suo padre, ed evocava nuove visioni di ricchezza e potere.

    * * *

    Impiegarono due giorni per tornare ai carri, ma erano ancora a mezzo miglio dal campo quando furono avvistati, e una marea gioiosa di servitori, bambini, cani e mogli corse a dare loro un chiassoso benvenuto.

    Ralph spronò il cavallo e si sporse dalla sella per sollevare Cathy sul pomo, così energicamente che i capelli le caddero sul viso e lei urlò a squarciagola finché Ralph non la zittì baciandola sulla bocca, e continuò a baciarla spudoratamente mentre il piccolo Jonathan saltellava con impazienza intorno al cavallo gridando: «Anch’io! Prendi anche me, papà!».

    Quando finalmente Ralph staccò le labbra da quelle della moglie, la tenne ancora stretta a sé, solleticandole l’orecchio con i baffi scuri e ispidi mentre sussurrava: «Non appena saremo nella tenda, Katie amore mio, collauderemo per bene il tuo materasso nuovo».

    Cathy arrossì e cercò di schiaffeggiarlo, ma il gesto fu leggero e affettuoso. Ralph ridacchiò, quindi si chinò e, sollevando Jonathan per un braccio, lo depositò sulla groppa del castrone dietro la sella.

    Il bambino gli cinse la vita e chiese con una vocetta stridula: «Hai trovato l’oro, papà?».

    «Una tonnellata.»

    «Hai sparato ai leoni?»

    «A cento.»

    «Hai ucciso qualche matabele?»

    «La stagione della caccia è chiusa.» Ralph rise e gli arruffò i ricci folti e scuri, ma Cathy si affrettò a rimproverare il bambino.

    «Ti sembra una cosa da chiedere a tuo padre, piccolo pagano assetato di sangue?»

    Louise seguì la donna più giovane e il bambino a passo più tranquillo, muovendosi leggera e flessuosa sulla polvere compatta della strada carraia. I capelli, tirati all’indietro dalla fronte ampia, le scendevano lungo la schiena in una spessa treccia che arrivava fino alla vita, valorizzando gli zigomi alti.

    Gli occhi avevano cambiato di nuovo colore. Zouga restava sempre affascinato nel vedere come i mutamenti d’umore si riflettessero in quegli enormi occhi a mandorla. In quel momento erano di un azzurro più chiaro e più delicato, il colore della felicità. Louise si fermò accanto alla testa del cavallo e Zouga smontò e si tolse il cappello, studiandola solennemente per un istante prima di parlare.

    «Anche se è passato pochissimo tempo, avevo dimenticato quanto sei bella» disse.

    «Non è stato pochissimo tempo» lo contraddisse Louise. «Ogni ora lontana da te è un’eternità.»

    Era un campo complesso, perché era la casa di Cathy e Ralph. Non ne avevano altre, ma si spostavano come zingari dove i guadagni erano maggiori. C’erano quattro carri disposti sotto gli alti e curvi fichi selvatici sulla riva del fiume sopra il guado. Le tende erano di tela nuova, bianca come la neve, e un’altra, un po’ in disparte, serviva per le abluzioni. Ospitava una vasca da bagno di ferro zincato dove ci si poteva distendere completamente. C’era un servitore, il cui unico compito era badare al fusto da quaranta galloni sul fuoco dietro la tenda e portare quantità illimitate di acqua calda, di giorno e di notte. Un’altra tenda più piccola conteneva una comoda di cui Cathy aveva dipinto a mano il sedile con cupidi e mazzolini di rose, sistemando lì accanto il non plus ultra del lusso: fogli profumati di morbida carta colorata in una cassetta di sandalo.

    C’erano materassi di crine su ogni branda, confortevoli sedie di tela e un lungo tavolo a cavalletti per mangiare sotto il lembo sollevato della tenda dai lati aperti destinata ai pasti. C’erano borse termiche di tela per le bottiglie di champagne e di limonata, teche per i viveri schermate da garza a prova di insetti, e trenta servitori. Servitori per tagliare la legna e alimentare i fuochi, servitori per lavare e stirare affinché le donne potessero cambiarsi d’abito ogni giorno, altri per rifare i letti e spazzar via ogni foglia caduta sul terreno nudo tra le tende e poi per spruzzarlo d’acqua in modo che la polvere non si alzasse; uno di loro era addetto unicamente al signorino Jonathan, per imboccarlo, lavarlo, portarlo a cavalluccio o cantare quando faceva i capricci. C’erano servitori per cucinare e portare il cibo a tavola, servitori per accendere le lanterne e per legare i lembi delle tende all’imbrunire, e uno per svuotare il secchio della comoda ogni volta che la campanella tintinnava.

    Ralph varcò il cancello dell’alta staccionata di rami spinosi che circondava il campo per proteggerlo dalle visite notturne dei branchi di leoni. Cathy era ancora in sella davanti a lui e suo figlio dietro.

    Si guardò intorno soddisfatto, stringendo la vita di Cathy. «Per Dio, che bello essere a casa. Un bagno caldo, e tu puoi lavarmi la schiena, Katie.» Interrompendosi, esclamò stupito: «Per la miseria, donna! Avresti potuto avvertirmi!».

    «Non me ne hai dato la possibilità» protestò lei.

    In fondo alla fila di carri era parcheggiata una carrozza chiusa, un veicolo con le ruote molleggiate e i finestrini muniti di imposte di tek per proteggersi dal caldo. L’esterno era dipinto di un verde fresco e allegro sotto la polvere e il fango secco del lungo viaggio, e gli sportelli erano profilati di foglia d’oro come i bordi delle grandi ruote. L’interno era rifinito di cuoio verde lucido, con nappe dorate sulle tendine. Sul portabagagli fissato al tetto erano legati bauli di cuoio e ottone, e oltre la carrozza, nel kraal di rami spinosi, i grossi muli bianchi, identici per colore e dimensioni, mangiavano i fasci d’erba fresca che i servitori avevano tagliato lungo la sponda del fiume.

    «Come ha fatto a trovarci?» chiese Ralph mentre faceva scendere Cathy. Non aveva bisogno di chiedere chi fosse il visitatore: quella magnifica carrozza era famosa in tutto il continente.

    «Siamo a solo un miglio dalla strada principale che viene da sud» replicò Cathy, irritata. «Era impossibile che non ci vedesse.»

    «E ha con sé tutta la banda, a quanto pare» borbottò Ralph. Nel kraal, insieme ai muli bianchi c’erano due dozzine di purosangue.

    «Tutti i cavalli del re e tutti gli uomini del re» confermò Cathy, e in quel momento Zouga varcò il cancello in tutta fretta con Louise sottobraccio. Era emozionato dalla presenza del visitatore quanto Ralph ne era infastidito.

    «Louise mi ha detto che ha interrotto il suo viaggio apposta per parlare con me.»

    «Allora non farlo aspettare, papà.» Ralph fece un sorriso sardonico. Era strano come tutti gli uomini, persino il distaccato e imperturbabile maggiore Zouga Ballantyne, sembravano subire il fascino del visitatore. Ralph si vantava di essere l’unico capace di resistere, anche se a volte doveva fare un certo sforzo.

    Zouga stava percorrendo impaziente la fila di carri verso la staccionata interna, con Louise che allungava il passo per stargli dietro. Ralph indugiò di proposito, ammirando gli straordinari animali che Jonathan aveva modellato con l’argilla del fiume e che ora attendevano la sua approvazione.

    «Che ippopotami meravigliosi, Jon-Jon! Non sono ippopotami? Oh, capisco, gli sono cadute le corna, vero? Be’, allora sono i cudù senza corna più belli e più grassi che abbia mai visto.»

    Cathy lo tirò per il braccio. «Sai che vuole parlare anche con te» lo esortò, e Ralph si mise Jonathan sulle spalle, prese Cathy con l’altro braccio, perché sapeva che quel quadretto di vita familiare avrebbe irritato l’uomo che stavano per incontrare, e superò la staccionata interna del campo.

    I lati di tela della tenda destinata ai pasti erano stati arrotolati per far passare la fresca brezza pomeridiana e intorno al lungo tavolo erano seduti sei uomini. Al centro del gruppo spiccava una figura imponente, con indosso una giacca della taglia sbagliata, di costosa stoffa inglese, chiusa fino all’ultimo bottone. Il nodo della cravatta si era allentato e i colori dell’Oriel College erano smorzati dalla polvere della lunga strada dalla città diamantifera di Kimberley.

    Persino Ralph, i cui sentimenti per quel gigante sgraziato erano ambivalenti – un misto di ostilità e di ammirazione riluttante – restò colpito dai cambiamenti che pochi anni avevano determinato in lui. I lineamenti carnosi erano diventati cadenti, il colorito era acceso e malaticcio. Aveva solo quarant’anni, ma i baffi e le basette erano sbiaditi dal biondo rossiccio all’argento opaco, e dimostrava quindici anni di più. Soltanto gli occhi azzurro pallido avevano conservato la loro forza e il mistico scintillio visionario.

    «Come state, Ralph?» La voce era alta e chiara, incongrua in un corpo così massiccio.

    «Buon pomeriggio, Mr Rhodes.» Suo malgrado, Ralph lasciò scivolare a terra il figlio, che ne approfittò per svignarsela.

    «Come procede la mia ferrovia, mentre voi siete qui a divertirvi?»

    «In anticipo rispetto al previsto, e con spese più contenute» ribatté Ralph al velato rimprovero, e dovette fare un piccolo sforzo per staccare lo sguardo dagli ipnotici occhi azzurri e lanciare un’occhiata agli uomini che fiancheggiavano Mr Rhodes.

    A destra del grand’uomo c’era la sua ombra: un tipo piccolo, dalle spalle strette, elegante quanto il suo padrone era sciatto. Aveva i lineamenti compiti ma anonimi di un maestro di scuola e la fronte stempiata, ma occhi acuti e avidi che smentivano il resto.

    «Jameson.» Ralph lo salutò con un cenno freddo, senza usare il titolo del dottor Leander Starr Jameson né il più familiare e amichevole «dottor Jim».

    «Il giovane Ballantyne.» Jameson accentuò leggermente il giovane, conferendogli una sfumatura quasi offensiva. Fin dall’inizio, tra loro c’era stata un’ostilità reciproca e istintiva.

    A sinistra di Rhodes si alzò un uomo più giovane con la schiena diritta e le spalle larghe, un bel viso aperto e un sorriso cordiale che mostrava grossi denti bianchi e regolari.

    «Buongiorno, Ralph.» La sua stretta di mano era salda e asciutta, l’accento del Kentucky disinvolto e gradevole.

    «Harry, stavo parlando di te proprio questa mattina.» Ralph, sinceramente contento, si rivolse a Zouga. «Papà, questo è Harry Mellow, il migliore ingegnere minerario dell’Africa.»

    Zouga annuì. «Ci hanno già presentati.» Padre e figlio si scambiarono un’occhiata d’intesa. Il giovane americano era l’uomo che Ralph aveva scelto per sviluppare e gestire la Harkness Mine. Non gli importava che Harry Mellow, come quasi tutti i giovani scapoli brillanti e promettenti dell’Africa meridionale, lavorasse già per Cecil John Rhodes, e aveva intenzione di trovare l’esca più adatta per prenderlo all’amo.

    «Dopo dobbiamo parlare, Harry» mormorò, voltandosi verso un altro giovane seduto in fondo al tavolo.

    «Jordan» esclamò. «Per Dio, che piacere vederti.»

    I due fratelli si abbracciarono e Ralph non cercò di dissimulare il suo affetto, ma d’altronde tutti amavano Jordan, non solo per la sua innegabile bellezza e i modi gentili, ma anche per i numerosi talenti, per il calore e per l’interessamento sincero che elargiva a chiunque lo circondasse.

    «Oh, Ralph, ho tante cose da chiederti e tante da raccontarti.» La gioia di Jordan era intensa quanto quella del fratello.

    «Dopo, Jordan» si intromise Mr Rhodes in tono lamentoso. Non gradiva essere interrotto e fece cenno a Jordan di tornare al suo posto. L’altro obbedì all’istante. Era il segretario personale di Mr Rhodes da quando aveva diciannove anni e ormai assecondava automaticamente ogni minimo capriccio del padrone.

    Rhodes lanciò un’occhiata a Cathy e Louise. «Signore, sono certo che troverete noiosi i nostri discorsi e sicuramente avete delle faccende urgenti da sbrigare.»

    Alzando lo sguardo verso suo marito, Cathy vide il lampo di irritazione per la rozza arroganza con cui Mr Rhodes aveva preso possesso dell’accampamento e di tutto ciò che conteneva. Gli strinse la mano di nascosto per calmarlo e lo sentì rilassarsi leggermente. C’era un limite anche alle provocazioni di Ralph. Forse non era un dipendente di Rhodes, ma il contratto della ferrovia e cento strade per il trasporto su carri dipendevano da quell’uomo. Poi, guardando Louise, Cathy si accorse che era indispettita a sua volta. C’erano una scintilla azzurra nei suoi occhi e un lieve rossore sulle guance spruzzate di piccole lentiggini, ma la sua voce era calma e distaccata quando rispose per entrambe: «Avete ragione, Mr Rhodes. Vogliate scusarci».

    Era risaputo che Rhodes si sentiva a disagio in presenza delle donne. Non aveva neppure una serva alle sue dipendenze, non tollerava quadri o statue di donne nella sua lussuosa villa di Groote Schuur sul Capo di Buona Speranza, non aveva nemmeno collaboratori stretti che fossero ammogliati, e licenziava in tronco anche il dipendente più fidato se commetteva l’imperdonabile errore di sposarsi. «Non puoi obbedire ai capricci di una donna e servire me allo stesso tempo» spiegava quando lo cacciava via.

    Rhodes chiamò Ralph con un cenno. «Sedetevi qui, dove posso vedervi» gli ordinò, voltandosi immediatamente verso Zouga per tempestarlo di domande. I suoi interrogativi erano taglienti come frustate, ma l’attenzione con cui ascoltava le risposte dimostrava la sua stima per Zouga Ballantyne. Si conoscevano da anni, dai primi tempi dell’estrazione di diamanti alla kopje di Colesberg, poi ribattezzata Kimberley in onore del segretario coloniale che l’aveva incluso nei domini di Sua Maestà.

    Una volta, in quegli scavi, Zouga aveva posseduto concessioni che gli avevano fruttato il famoso diamante Ballantyne, ma ora il loro proprietario era Rhodes, che godeva di ogni singola concessione su quei giacimenti. Da allora usava Zouga come agente personale al kraal di Lobengula, perché parlava bene la lingua dei matabele. Quando il dottor Jameson aveva guidato le sue truppe di pronto impiego nella rapida e vittoriosa offensiva contro il re, Zouga l’aveva accompagnato come ufficiale di campo ed era stato il primo a entrare nel kraal incendiato di GuBulawayo dopo la fuga del sovrano.

    Dopo la morte di Lobengula, Rhodes aveva nominato Zouga custode della proprietà nemica, incaricandolo di radunare le mandrie dei matabele e di ridistribuirle come bottino di guerra alla Compagnia e ai volontari di Jameson.

    Quando Zouga aveva portato a termine quel compito, Rhodes avrebbe voluto nominarlo commissario capo per le relazioni con gli indigeni, affinché trattasse con gli induna dei matabele, ma Zouga aveva preferito ritirarsi nella tenuta di King’s Lynn con la sua nuova moglie, lasciando che l’incarico andasse al generale Mungo St John. Zouga, tuttavia, faceva ancora parte del consiglio d’amministrazione della British South Africa Company e Rhodes si fidava di lui come di pochi altri.

    «Il Matabeleland prospera, Mr Rhodes» riferì Zouga. «Scoprirete che ormai Bulawayo è quasi una città, con tanto di scuola e di ospedale. Nella regione ci sono già più di seicento donne e bambini bianchi, un chiaro segno che finalmente i coloni hanno intenzione di restare. Tutte le terre in concessione sono state occupate e in molte fattorie si lavora già. Il bestiame arrivato da Cape Colony si sta abituando alle condizioni locali e si accoppia bene con quello sottratto ai matabele.»

    «E i minerali, Ballantyne?»

    «Sono state registrate più di diecimila concessioni e ho visto alcune frantumazioni ricchissime.» Zouga esitò, lanciò un’occhiata a Ralph e, quando quello annuì, si rivolse di nuovo a Rhodes. «Negli ultimi giorni, io e mio figlio abbiamo ritrovato e recintato l’antica miniera che avevo scoperto negli anni Sessanta.»

    «La Harkness Mine.» Rhodes annuì vigorosamente, e persino Ralph restò colpito da quella dimostrazione di cultura e buona memoria. «Ricordo la vostra descrizione originale nell’Odissea di un cacciatore. Avete prelevato dei campioni dal filone?»

    Anziché rispondere, Zouga posò sul tavolo una decina di frammenti di quarzo e gli uomini allungarono il collo, rapiti dal luccichio dell’oro grezzo. Rhodes si rigirò un campione tra le grosse mani macchiettate prima di passarlo all’ingegnere americano.

    «Che ne pensate, Harry?»

    «Renderà cinquanta once la tonnellata.» Harry fece un fischio sommesso. «Forse troppo ricco, come il Nome e il Klondike.» Alzò gli occhi su Ralph. «Quanto è spesso il filone? Quanto è largo il giacimento?»

    Ralph scosse la testa. «Non lo so, le gallerie sono troppo strette per raggiungere la parete.»

    «Questo è quarzo, naturalmente, non come il filone di quarzite aurifera che abbiamo nel Witwatersrand» mormorò Harry Mellow.

    Il filone di quarzite era formato dagli spessi letti sedimentari di antichi laghi interrati, non ricco d’oro quanto quella scheggia di quarzo, ma spesso diversi piedi ed esteso quanto una volta lo erano stati i laghi, un filone madre che avrebbe potuto essere sfruttato per cent’anni senza che esaurisse le sue riserve.

    «È troppo ricco» ripeté Harry Mellow, accarezzando il campione. «Non posso credere che la vena sia spessa più di qualche pollice.»

    «E se non fosse così?» domandò bruscamente Rhodes.

    L’americano sorrise. «Allora non controllereste solo quasi tutti i diamanti del mondo, Mr Rhodes, ma anche gran parte dell’oro.»

    Quelle parole ricordarono di colpo a Ralph che la British South Africa Company aveva un diritto di sfruttamento del cinquanta per cento su ogni oncia d’oro estratta nel Matabeleland, e il risentimento tornò ad assalirlo. Rhodes e la sua onnipresente BSA Company erano come una gigantesca piovra che soffocava gli sforzi e le fortune degli altri.

    «Permetterete a Harry di venire con me per qualche giorno, Mr Rhodes, per esaminare il giacimento?» L’irritazione rese più aspro il tono della richiesta di Ralph, tanto che Rhodes alzò di scatto la grossa testa ispida, parve scrutargli l’anima per un istante, quindi annuì e, con un cambio repentino di argomento, abbandonò il discorso sull’oro e fece un’altra domanda a Zouga.

    «Gli induna dei matabele… Come si comportano?»

    Zouga esitò. «Si lamentano, Mr Rhodes.»

    «Davvero?» La faccia gonfia si accigliò.

    «Naturalmente il bestiame è la causa principale dei problemi» mormorò Zouga, e Rhodes lo interruppe.

    «Abbiamo catturato meno di 125.000 capi e ne abbiamo restituiti quarantamila alla tribù.»

    Zouga evitò di rammentargli che la restituzione aveva avuto luogo solo dopo le energiche proteste di sua sorella Robyn St John, medico missionario a Khami, nonché ex migliore amica e consigliera di Lobengula.

    «Quarantamila, Ballantyne! Un gesto molto generoso da parte della Compagnia!» ripeté solennemente Rhodes, e ancora una volta non precisò di aver acconsentito alla restituzione per scongiurare la carestia che, secondo Robyn St John, avrebbe decimato la nazione sconfitta dei matabele, provocando sicuramente l’intervento del governo imperiale a Whitehall e forse la revoca del Royal Charter, grazie al quale la Compagnia di Rhodes controllava sia il Mashonaland sia il Matabeleland. Alla faccia dell’atto di carità, pensò Ralph sardonico.

    «E dopo aver restituito quei capi agli induna, ce ne sono rimasti meno di 85.000 e la Compagnia ha recuperato a malapena i costi della guerra.»

    «Eppure gli induna sostengono di aver ricevuto solo gli animali di minor pregio, le vacche vecchie e sterili e i tori più deperiti.»

    «Per la miseria, Ballantyne, i volontari si sono guadagnati il diritto alla prima scelta. Logicamente hanno selezionato i capi migliori.» Rhodes puntò l’indice come una pistola verso il cuore di Zouga. «Dicono che le nostre mandrie, scelte tra il bestiame catturato, siano le migliori del Matabeleland.»

    «Gli induna non lo capiscono» rispose Zouga.

    «Be’, dovrebbero almeno capire che sono una nazione sottomessa. Il loro benessere dipende dalla benevolenza dei vincitori. Non erano così premurosi con le tribù che sconfiggevano, quando spadroneggiavano sul continente. Mzilikazi ha massacrato un milione di innocenti quando ha devastato il territorio a sud del Limpopo, e suo figlio Lobengula definiva le tribù minori i suoi cani, sentendosi in diritto di ucciderle o ridurle in schiavitù secondo i suoi capricci. Perciò ora non devono piagnucolare per aver assaggiato il sapore amaro della sconfitta.»

    A quelle parole annuì persino il mite Jordan. «Una delle ragioni per cui abbiamo marciato su GuBulawayo era proteggere le tribù dei mashona dai saccheggi di Lobengula» mormorò.

    «Ho detto che gli induna si lamentano» precisò Zouga. «Non che le loro lagnanze sono giustificate.»

    «Di cos’altro si lamentano?» chiese Rhodes.

    «Della polizia della Compagnia. I giovani matabele reclutati e armati dal generale St John se ne vanno in giro tutti impettiti per i kraal, usurpano il potere degli induna, scelgono le ragazze più belle…»

    Rhodes lo interruppe di nuovo. «Meglio questo che una resurrezione degli impi agli ordini degli induna. Riuscite a immaginare ventimila impi guidati da Babiaan, Gandang e Bazo? No, St John ha fatto bene a spezzare il potere degli induna. Come commissario per le relazioni con gli indigeni ha il dovere di impedire la ricomparsa delle tradizioni bellicose dei matabele.»

    «Soprattutto in vista degli avvenimenti in corso a sud di qui.» Il dottor Leander Starr Jameson parlò per la prima volta da quando aveva salutato Ralph, e Rhodes si girò di scatto verso di lui.

    «Mi domando se sia il momento di parlarne, dottor Jim.» «Perché no? Tutti i presenti sono uomini discreti e degni di fiducia. Siamo tutti devoti alla stessa luminosa visione dell’Impero e, il Signore lo sa, non rischiamo di essere origliati. Non in

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