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Il potere della spada
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E-book1.025 pagine12 ore

Il potere della spada

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Info su questo ebook

Una famiglia potente. L'ombra della guerra.

Dalle roventi dune del Kalahari alle miniere di diamanti, dai cieli azzurri di Cape Town ai fasti di Berlino, uno dei romanzi più affascinanti di Wilbur Smith, in una nuova traduzione.

Centaine de Thiry Courtney ne ha passate tante in tutta la sua vita, ma non ha mai smesso di combattere e ha trasformato ogni ostacolo in una sfida da vincere. E ci è riuscita. È diventata ricca e potente, possiede una delle miniere di diamanti più redditizie di tutto il Sudafrica e sogna per suo figlio Shasa, erede del suo impero, un futuro grandioso. L’altro figlio, Manfred, ha cercato di dimenticarlo. Come ha fatto con il padre, Lothar de la Rey, l’uomo che un tempo amava e che adesso odia con tutta se stessa. E ora che la Grande Depressione inizia a farsi sentire anche in Africa, forse ha finalmente la possibilità di vendicarsi di lui e di tutto il dolore che le ha causato.
Ma il mondo sta cambiando, e si preannunciano conflitti ben più drammatici di quelli che il mondo ha visto fino a quel momento. Centaine e i suoi figli devono prepararsi ad affrontare la minaccia di una guerra spaventosa… e non è detto che saranno tutti schierati dalla stessa parte.

LinguaItaliano
Data di uscita16 lug 2020
ISBN9788830514874
Il potere della spada
Autore

Wilbur Smith

Considerato l’indiscusso maestro dell’avventura, è nato nel 1933 in Africa centrale e si è spento il 13 novembre 2021. Ha pubblicato più di quaranta titoli, tradotti in ventisei lingue, fra cui il ciclo ambientato nell'Antico Egitto e le celebri serie dedicate ai Courtney, ai Ballantyne e a Hector Cross. Nel 2015 ha fondato la Wilbur & Niso Smith Foundation, che promuove la cultura e la narrativa d'avventura. Fiore all'occhiello della fondazione è il prestigioso Wilbur Smith Adventure Writing Prize.

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    Anteprima del libro

    Il potere della spada - Wilbur Smith

    La nebbia soffocava l’oceano smorzando colori e suoni. Ondeggiò e ribollì quando il primo mulinello della brezza mattutina soffiò verso la terraferma. Il peschereccio si trovava a tre miglia dalla costa, a ridosso della linea della corrente, laddove le acque profonde e ricche di plancton risalivano dagli abissi oceanici e incontravano le calme acque interne in una fascia di verde più scuro.

    Nella cabina di pilotaggio Lothar De la Rey si appoggiò al timone in legno mentre guardava fuori nella nebbia. Amava quei tranquilli e intensi minuti di attesa all’alba. Sentiva nel sangue un formicolio elettrico, la brama del cacciatore che lo aveva già sostenuto in moltissime occasioni, una dipendenza potente come quella dall’oppio o dai liquori.

    Ripensando al passato rammentò la stessa alba rosa chiaro che si propagava furtiva sulle colline di Magersfontein mentre lui, sdraiato contro i parapetti delle trincee, aspettava che i fanti della divisione Highland sbucassero dall’oscurità per marciare, con i kilt ondeggianti e i nastri del berretto che svolazzavano sui loro Mauser in attesa, e gli venne la pelle d’oca.

    Da allora c’erano state un centinaio di altre albe trascorse, come quella, nell’attesa di sferrare l’attacco contro una preda di enormi dimensioni – un leone del Kalahari dalla criniera ispida, un vecchio bufalo scabbioso con un palco di corna corazzate, un sagace elefante grigio dalla pelle raggrinzita e dalle preziose lunghe zanne in avorio – ma adesso la preda era più piccola di qualsiasi altra eppure talmente numerosa da risultare vasta come l’oceano da cui arrivava.

    Le sue riflessioni si interruppero quando il ragazzo uscì sul ponte dalla cambusa. Era scalzo, con lunghe gambe abbronzate e forti. Era alto quasi come un adulto, quindi dovette chinare la testa per entrare nella timoniera reggendo due tazze di latta piene di caffè fumante.

    «Zucchero?» chiese Lothar.

    «Quattro cucchiaini, papà.» Il ragazzo ricambiò il sorriso.

    La nebbia gli si era condensata sulle lunghe ciglia in stille di rugiada che lui eliminò battendo le palpebre come un gatto sonnolento. Benché la sua chioma ricciuta e bionda mostrasse ciocche color platino schiarite dal sole, ciglia e sopracciglia erano folte e nere, mettendo in risalto gli occhi color ambra.

    «Oggi pesce selvatico.» Lothar incrociò le dita della mano destra nella tasca dei pantaloni per scacciare la malasorte, visto che lo aveva detto ad alta voce. Ne abbiamo bisogno, pensò. Per sopravvivere abbiamo bisogno di pesce selvatico.

    Cinque anni prima aveva ceduto per l’ennesima volta al richiamo del corno da caccia, alla lusinga dell’inseguimento e delle lande selvagge. Aveva venduto la prospera compagnia di costruzioni stradali e ferroviarie faticosamente avviata, si era fatto prestare tutto il denaro possibile e aveva scommesso sulla nuova attività.

    Aveva scoperto tempo prima gli illimitati tesori nascosti nelle fredde acque verdi della corrente del Benguela. Li aveva intravisti per la prima volta durante gli ultimi, caotici giorni della Grande guerra, quando era impegnato nella resistenza finale contro gli odiati inglesi e il loro burattino traditore, Jan Smuts, a capo del suo esercito dell’Unione sudafricana.

    Da una base segreta fra le alte dune del deserto che fiancheggia l’Atlantico meridionale aveva rifornito e armato gli U-boot tedeschi che stavano flagellando le flotte mercantili britanniche, e durante i tediosi giorni in cui aspettava l’arrivo dei sottomarini aveva visto l’oceano agitato dalla propria sconfinata abbondanza. Quel tesoro era a disposizione di chiunque volesse prenderlo e, negli anni che erano seguiti all’ignobile pace di Versailles, Lothar aveva architettato i suoi piani mentre sgobbava fra la polvere e nella calura, aprendo valichi montani con cariche esplosive o costruendo strade sulle pianure arroventate dal sole. Aveva risparmiato, programmato e pianificato per prenderlo.

    Aveva trovato le imbarcazioni in Portogallo, attrezzate per la pesca a strascico delle sardine ma malconce e marcescenti. Lì aveva scovato anche Da Silva, un uomo anziano che sapeva tutto del mare. Insieme avevano riparato e attrezzato i quattro vecchi pescherecci e poi, con equipaggi ridotti all’osso, li avevano portati verso sud scendendo lungo il continente africano.

    In California aveva trovato lo scatolificio, aperto da una compagnia ansiosa di sfruttare i branchi di tonni che aveva però sovrastimato la loro abbondanza e sottostimato i costi necessari per catturare quegli elusivi e imprevedibili polli del mare. Lo aveva acquistato a prezzo stracciato e poi spedito per intero in Africa, ricostruendolo sulle compattate sabbie del deserto attigue alla stazione baleniera fatiscente e abbandonata, che aveva dato alla baia desolata il nome di baia di Walvis.

    Durante le prime tre stagioni lui e il vecchio Da Silva avevano trovato il pesce selvatico e mietuto i banchi sconfinati finché Lothar non aveva saldato i debiti da cui era impastoiato, poi aveva ordinato nuove imbarcazioni al posto dei decrepiti pescherecci portoghesi ormai giunti al termine della loro utile esistenza e così facendo si era indebitato ancor più di quanto non avesse fatto all’inizio dell’impresa.

    Poi i pesci erano scomparsi. Per qualche misteriosa ragione a loro ignota gli enormi banchi di sardine erano svaniti, e ne erano rimaste solo minuscole sacche sparse. Mentre perlustravano inutilmente le acque, spingendosi al largo per cento miglia e più, setacciando la linea costiera ormai deserta a una distanza dallo scatolificio nettamente superiore a quella che sarebbe stata economicamente vantaggiosa, i mesi erano trascorsi inesorabili, e ognuno di essi aveva portato nuovi avvisi di interessi maturati che Lothar non poteva pagare, e i costi di gestione della fabbrica e delle imbarcazioni si erano accumulati a tal punto da costringerlo a supplicare per ottenere altri prestiti.

    Due anni senza pesce. Poi, quasi in modo teatrale, proprio quando lui era ormai pronto a dichiararsi sconfitto, c’era stato un leggero spostamento nella corrente oceanica o un cambiamento nel vento dominante e i pesci erano tornati, ottimi pesci selvatici, che ogni giorno all’alba spuntavano folti come nuova erba.

    Fa’ che duri, pregò mentre scrutava nella foschia. Ti prego, Dio, fa’ che duri. Tre mesi, non gli serviva altro, solo tre brevi mesi e avrebbe saldato i debiti e riacquistato la libertà.

    «Si sta sollevando» annunciò il ragazzo, e lui batté le palpebre e scosse leggermente il capo, riscuotendosi dai ricordi.

    La nebbia si stava aprendo come un sipario rivelando una scena da melodramma, dai colori che sembravano troppo sgargianti per poter essere naturali mentre l’alba fumava e sfavillava come uno spettacolo pirotecnico, un’esplosione di arancione e oro e verde che scintillava sull’oceano conferendo la tinta del sangue e delle rose alle colonne di foschia, tanto che le acque stesse sembravano ardere di fiamme ultraterrene. Il silenzio rendeva lo spettacolo ancora più magico, un silenzio greve e lucido come cristallo che diede loro l’impressione di essere diventati di colpo sordi, e che tutti gli altri sensi fossero stati loro sottratti e concentrati nella vista, mentre guardavano sbalorditi.

    Poi il sole riuscì a filtrare, un brillante raggio di solida luce dorata forò la sommità del banco di nebbia e danzò sulla superficie, illuminando la linea della corrente. Sulle acque costiere, placide e lisce come olio, spiccavano chiazze di un blu opaco. La linea dove incontravano l’autentica corrente oceanica era diritta e affilata come la lama di un coltello, la superficie dietro di essa increspata come velluto verde spazzolato contropelo.

    «Daar spring hy!» gridò Da Silva dalla coperta a prua, indicando il limite delle acque scure. «Ecco che salta!»

    Mentre i raggi del sole, basso sull’orizzonte, colpivano l’acqua, un unico pesce spiccò un balzo. Era poco più lungo della mano di un uomo, una minuscola scheggia di argento brunito.

    «Accendi!» gridò Lothar con la voce arrochita dall’eccitazione e il ragazzo gettò la sua tazza sul tavolo da carteggio, rovesciando le ultime gocce di caffè, e si lanciò giù per la scaletta che portava in sala motori.

    Lothar fece scattare gli interruttori e spinse in avanti la manetta dell’acceleratore mentre sotto di lui il figlio si piegava sopra la manovella.

    «Girala!» gli gridò Lothar e il ragazzo si irrigidì e tirò con forza per resistere alla compressione di tutti e quattro i cilindri. Pur avendo meno di tredici anni era già forte quasi come un uomo e i muscoli gli si gonfiarono sulla schiena mentre lavorava.

    «Adesso!» Lothar chiuse le valvole, e il motore, ancora tiepido dopo la corsa dal porto fino a lì, si accese con un ruggito. Uno sbuffo di oleoso fumo nero sgorgò dallo sfiato di scarico sulla fiancata, poi il peschereccio prese a muoversi a ritmo costante.

    Il ragazzo salì di corsa la scaletta, schizzò fuori sul ponte e raggiunse Da Silva, a prua.

    Lothar fece rotta lungo la linea della corrente. La nebbia si diradò e loro riuscirono a vedere le altre imbarcazioni. Erano rimaste anch’esse ferme nel banco di nebbia ad aspettare i primi raggi del sole, ma adesso stavano filando bramose lungo la corrente, le scie che lasciavano lunghe V increspate sulla superficie calma e le onde di prua che spumeggiavano scintillanti nella luce dell’alba. Lungo i parapetti gli equipaggi allungavano il collo per scrutare il mare e il loro chiacchierio eccitato sovrastava il pulsare dei motori.

    Dalla timoniera in vetro Lothar godeva di una visuale a trecentosessanta gradi sulle zone di lavoro del peschereccio lungo cinquanta piedi e controllò un’ultima volta che fosse tutto pronto. La lunga rete era già appesa alla murata di dritta, la cima con i galleggianti arrotolata con cura. A secco pesava sette tonnellate e mezzo, da bagnata sarebbe stata sicuramente più pesante. Era lunga cinquecento piedi e in acqua, appesa ai galleggianti in sughero e simile a un sottilissimo sipario, sarebbe arrivata fino a settanta piedi di profondità. A Lothar era costata più di cinquemila sterline, una somma superiore a quella che un normale pescatore avrebbe guadagnato in vent’anni di incessante fatica, e anche ognuna delle altre tre imbarcazioni aveva la propria. Alla poppa di ogni peschereccio era legata con una robusta cima una lancia in legno a fasciame sovrapposto lunga diciotto piedi, detta bucky.

    Con una lunga occhiata attenta Lothar si accertò che tutto fosse pronto per il lancio, poi riprese a guardare davanti a sé proprio mentre un altro pesce saltava, talmente vicino che vide le striature scure sul suo fianco sfavillante e notò la differenza fra il verde etereo sopra di esse e l’intenso color argento scintillante sotto. Poi ricadde nell’acqua lasciando una piccola increspatura scura sulla superficie.

    Quasi fosse un segnale convenuto, l’oceano prese vita. Le acque si scurirono come se una densa nube le avesse immerse di colpo nell’ombra, ma quella nuvola giungeva da sotto, dagli abissi, e le acque si agitarono come se un mostro si stesse muovendo sotto la superficie.

    «Eccolo!» urlò Da Silva girando verso Lothar il viso temprato, abbronzato e rugoso, e allargando le braccia per indicare la distesa oceanica brulicante di pesci.

    Di fronte a loro, largo un miglio e talmente lungo che il suo margine estremo era celato dalla nebbia rimasta, si stagliava un unico banco scuro. In tutti i suoi anni da cacciatore Lothar non aveva mai visto un simile accumulo di vita, una tale moltitudine di esemplari di un’unica specie. Facevano sembrare insignificanti, al confronto, le locuste capaci di velare e celare il sole del mezzogiorno africano e gli stormi di minuscoli quelea il cui peso complessivo spezzava i rami degli enormi alberi su cui si appollaiavano. Persino gli equipaggi dei pescherecci lanciati a piena velocità si zittirono per fissare intimiditi la scena mentre il banco di pesci rompeva la superficie e le acque diventavano bianche e scintillanti come un enorme cumulo di neve; innumerevoli milioni di minuscoli corpicini squamati catturavano la luce solare mentre venivano scagliati sopra il pelo dell’acqua dalla spinta della sottostante miriade di loro simili.

    Da Silva fu il primo a riscuotersi. Si voltò e scese di corsa lungo il ponte, rapido e agile come un giovanotto, fermandosi solo accanto alla porta della timoniera.

    «Maria, madre di Dio» pregò ad alta voce, «fa’ che abbiamo ancora una rete, alla fine della giornata.»

    Dopo quel monito eloquente sfrecciò fino a poppa e si calò nella lancia mentre gli altri membri dell’equipaggio lo imitavano tornando vigili e correndo ai propri posti.

    «Manfred!» chiamò Lothar e il figlio, rimasto a prua come ipnotizzato, annuì e lo raggiunse, obbediente.

    «Prendi il timone.» Era una responsabilità enorme per un ragazzo così giovane, ma aveva già dimostrato la propria abilità così tante volte che Lothar non ebbe alcuna remora mentre usciva dalla timoniera. Da prua gli segnalò cosa fare senza mai voltare la testa e sentì il ponte inclinarsi sotto i suoi piedi quando il figlio manovrò il timone seguendo la sua indicazione e iniziò a descrivere un ampio cerchio intorno al banco di sardine.

    «Quanti pesci» sussurrò Lothar. Mentre con lo sguardo valutava distanza, vento e corrente, il monito del vecchio Da Silva occupò una posizione di rilievo nei suoi calcoli: il peschereccio e la sua rete potevano reggere centocinquanta tonnellate di quelle agili sardine argentee, forse duecento se abilità e fortuna li assistevano.

    Davanti a lui si stagliava un banco di milioni di tonnellate. Un lancio poco oculato rischiava di riempire la rete con dieci o ventimila tonnellate, il cui peso e slancio avrebbero potuto lacerare le maglie, forse strappare addirittura l’intera rete spezzando la cima con i galleggianti o persino divellere i supporti dal ponte e tirare tutto giù negli abissi. Cosa ancora peggiore, se cime e supporti avessero retto, il peschereccio avrebbe rischiato di capovolgersi per il peso. Lothar avrebbe potuto perdere non solo una preziosa rete, ma anche l’imbarcazione e le vite delle persone dell’equipaggio, oltre che quella di suo figlio.

    Guardò involontariamente dietro di sé e Manfred gli sorrise dietro la finestra della timoniera, il viso animato dall’eccitazione. Con gli occhi color ambra scura che scintillavano e i denti candidi era il ritratto di sua madre, e Lothar provò una fitta di amarezza prima di rimettersi al lavoro.

    Quei pochi istanti di disattenzione gli fecero rischiare il disastro. Il peschereccio stava sfrecciando verso il banco di sardine, nel giro di qualche secondo lo avrebbe raggiunto e il rumore avrebbe spinto tutti i pesci, che si muovevano all’unisono come un unico organismo, a scomparire di nuovo negli abissi oceanici. Lui segnalò bruscamente di virare e il ragazzo reagì con prontezza. L’imbarcazione ruotò su se stessa e loro sfrecciarono verso il margine del banco, tenendosi a cinquanta piedi di distanza ad aspettare l’occasione propizia.

    Voltando la testa per dare un’altra rapida occhiata, Lothar vide che anche i comandanti degli altri pescherecci restavano a distanza, intimiditi dalla miriade di sardine intorno a cui stavano girando. Swart Hendrick, un uomo gigantesco la cui testa calva brillava come una palla di cannone nella luce dell’alba, lo guardò torvo. Compagno d’armi in guerra e in un centinaio di imprese disperate, come lui era passato agevolmente dalla terra al mare e ormai era un provetto marinaio così come un tempo era stato un provetto cacciatore di avorio e di uomini. Lothar fece un rapido gesto accostando una mano messa di taglio all’altra per consigliare cautela davanti a un pericolo; Hendrick rise silenziosamente e gli indicò con un cenno che aveva capito.

    Aggraziate come ballerine, le quattro imbarcazioni si mossero a zigzag e piroettarono intorno all’enorme banco mentre gli ultimi brandelli di nebbia si diradavano e venivano spazzati via dalla leggera brezza. Il sole schiarì l’orizzonte e in lontananza le dune del deserto scintillarono come bronzo appena forgiato: un fondale di grande effetto per la battuta di caccia che si stava svolgendo.

    I pesci erano ancora in formazione compatta e Lothar cominciava a disperare. Ormai erano in superficie da più di un’ora, molto più a lungo del solito, quindi potevano inabissarsi e scomparire da un momento all’altro, ma nessuno dei suoi pescherecci aveva ancora gettato la rete. Erano intralciati dall’abbondanza, come mendicanti di fronte a un tesoro illimitato, e lui sentì la temerarietà montargli dentro. Aveva già aspettato fin troppo.

    Gettate, e che io sia dannato!, pensò. Segnalò a Manfred di avvicinarsi e strizzò gli occhi per ripararli dal bagliore mentre viravano verso il sole.

    Prima che potesse commettere quella follia sentì il fischio di Da Silva e voltandosi a guardare vide il portoghese che, ritto sul banco per vogatori della lancia, gesticolava freneticamente. Dietro di loro la compatta massa circolare di sardine stava cominciando a gonfiarsi e a cambiare forma. Una parte dei pesci si staccò dal corpo principale creando una sorta di tentacolo, un’escrescenza, no, somigliava piuttosto alla sagoma di una testa sopra un collo massiccio. Era quello che stavano aspettando.

    «Manfred!» gridò Lothar, e mulinò il braccio destro. Il ragazzo ruotò il timone facendo virare e tornare indietro il peschereccio, la prua puntata verso quello che sembrava il collo del banco come la lama della scure di un boia.

    «Rallenta!» Lothar sventolò la mano e l’imbarcazione decelerò avvicinandosi lentamente ai pesci. L’acqua era talmente limpida da consentirgli di distinguere le singole sardine, ognuna incapsulata in un arcobaleno di luce solare iridata, e sotto di esse la massa verde scuro del resto del banco, denso come un iceberg.

    Con delicatezza lui e Manfred portarono la prua sopra l’ammasso brulicante, l’elica che ruotava a malapena per non spaventarlo inducendolo così a inabissarsi. Lo stretto collo si divise e la piccola sacca di sardine che somigliava a una testa si staccò. Come un cane da pastore con il suo gregge Lothar fece in modo di isolarla segnalando al figlio di indietreggiare, virare e avanzare lentamente.

    «Ancora troppo vasto!» mormorò fra sé e sé. Erano riusciti a staccare dal grosso del banco una minuscola parte, ma secondo lui equivaleva comunque a mille tonnellate, forse di più, a seconda della profondità dell’ammasso di sardine, che poteva soltanto provare a indovinare.

    Era un rischio, un rischio enorme. Con la coda dell’occhio vide Da Silva invitarlo alla cautela con gesti spasmodici prima di fischiare, agitato. L’anziano era intimorito da un numero così elevato di pesci e Lothar sorrise, stringendo gli occhi che sfavillavano come topazi lucidati mentre segnalava a Manfred di aumentare la velocità e dava volutamente le spalle all’uomo anziano.

    Quando raggiunsero i cinque nodi indicò al figlio di effettuare una stretta virata e girare intorno al banco di pesci costringendolo a compattarsi al centro e quando tornarono indietro una seconda volta, sottovento rispetto alle sardine, si voltò e accostò alla bocca le mani messe a coppa.

    «Los!» gridò. «Lanciate la rete!»

    Il marinaio a poppa, un nero appartenente al popolo degli herero, sciolse la cima a cui era legata la lancia e la gettò fuori bordo. La piccola imbarcazione, con Da Silva aggrappato al bordo che ancora protestava a gran voce, rimase indietro sobbalzando nella loro scia e trattenendo un’estremità della pesante rete marrone.

    Mentre il peschereccio continuava a girare intorno al banco di pesci – le ruvide maglie marroni che grattavano e sibilavano contro il parapetto – la cima con i galleggianti si srotolò come un pitone e si allargò, un cordone ombelicale che collegava l’imbarcazione alla lancia. La serie di galleggianti in sughero, perpendicolari rispetto al vento e disposti a intervalli regolari come i grani di un rosario, formò un cerchio intorno al denso banco scuro, e la scialuppa, a bordo della quale Da Silva si era ormai accasciato in preda alla rassegnazione, superò il peschereccio.

    Manfred manovrò il timone in modo da resistere alla trazione dell’enorme rete, facendo minuscoli aggiustamenti mentre accostava alla lancia sobbalzante, e chiuse le valvole quando le due imbarcazioni si toccarono delicatamente. Il cerchio si era chiuso, intrappolando il banco, e Da Silva si avvicinò alla fiancata della barchetta tenendo sopra la spalla le estremità delle pesanti cime di canapa di Manila spesse tre pollici.

    «Perderai la rete» urlò a Lothar. «Solo un pazzo chiuderebbe una rete a sacco intorno a questo banco; se la porteranno via. Che sant’Antonio e il beato san Marco mi siano testimoni…» Ma sotto la severa direzione di Lothar i marinai herero avevano già avviato le procedure per ritirarla. Due di loro presero dalle spalle di Da Silva la cima con i galleggianti e la legarono mentre un altro aiutava Lothar a fissare quella di chiusura al verricello principale.

    «È la mia rete, e il mio pesce» borbottò lui mentre avviava il verricello con un ruggito tintinnante. «Agganciare la lancia!»

    La rete pescava a settanta piedi di profondità nelle limpide acque verdi ma era aperta sul fondo. Il compito più urgente era chiuderla prima che il banco scoprisse quella via di fuga. Accovacciato sopra il verricello, i muscoli delle braccia che si tendevano e si gonfiavano sotto la pelle abbronzata, Lothar dondolò ritmicamente le spalle mentre, una spanna dopo l’altra, tirava la cima di chiusura sopra il tamburo rotante del verricello. La fune infilata negli anelli metallici intorno al fondo della rete ne stava chiudendo l’imboccatura come il laccio di una gigantesca borsa per il tabacco.

    Nella timoniera Manfred stava utilizzando tocchi delicati per spostare avanti e indietro la poppa allontanandola dalla rete e impedendo a quest’ultima di impigliarsi nell’elica, mentre il vecchio Da Silva aveva portato la lancia all’estremità opposta della cima con i galleggianti e l’aveva assicurata in modo che potesse opporre una maggiore resistenza quando l’enorme banco si sarebbe reso conto di essere in trappola, lasciandosi prendere dal panico. Con movimenti rapidi Lothar ritirò la pesante cima di chiusura finché la lunga serie di anelli metallici non fu raggruppata contro il bordo del peschereccio. La rete era chiusa, il banco di pesci prigioniero nel sacco.

    Con il sudore che gli colava lungo le guance e gli infradiciava la camicia si appoggiò al parapetto, ansimando tanto da non riuscire a parlare. I lunghi capelli di un biondo screziato d’argento, appesantiti dal sudore, gli caddero sulla fronte e negli occhi, mentre gesticolava in direzione di Da Silva.

    La cima con i galleggianti formò un cerchio ordinato che ondeggiava sulle lievi increspature della fredda e verde corrente del Benguela, con la lancia assicurata all’estremità opposta del peschereccio. Poi, mentre Lothar la osservava, ansimando per riprendere fiato, l’anello di sugheri sussultanti cambiò forma, allungandosi di scatto mentre il banco percepiva per la prima volta la rete e, con un impeto concertato, premeva contro di essa. La spinta in avanti venne poi invertita quando i pesci sfrecciarono all’indietro trascinando con sé la rete e la lancia come fossero alghe fluttuanti.

    La forza del banco era irresistibile, come un leviatano.

    «Perdio, ne abbiamo presi persino più di quanti pensassi» disse Lothar, trafelato. Raddrizzò la schiena, scrollò la testa per togliersi i capelli bagnati dagli occhi e corse alla timoniera.

    Nella rete il banco di sardine continuava a scagliarsi in avanti e poi all’indietro facendo sussultare delicatamente la lancia sulle acque agitate, e lui sentì il ponte del peschereccio inclinarsi di scatto sotto i suoi piedi mentre l’ammasso di pesci tirava bruscamente le pesanti cime.

    «Da Silva aveva ragione, stanno impazzendo» sussurrò, poi azionò la sirena lanciando tre acuti squilli, la richiesta di assistenza, e tornando di corsa in coperta vide gli altri tre pescherecci virare e sfrecciare verso di lui. Nessuno dei tre aveva ancora trovato il coraggio di lanciare le proprie reti verso l’enorme banco.

    «Sbrigatevi! Dannazione, sbrigatevi!» ringhiò loro, inutilmente, poi gridò al suo equipaggio: «Tutti a tirare!».

    I marinai esitarono, restii a maneggiare quella rete.

    «Muovetevi, bastardi neri!» urlò Lothar e diede l’esempio balzando sul parapetto. Dovevano assolutamente comprimere il banco, pigiando i minuscoli pesci l’uno contro l’altro per sfinirli.

    La rete era ruvida e tagliente come filo spinato ma i marinai vi si chinarono sopra, in fila, sfruttando il rollare dello scafo sull’onda bassa per ritirarla, recuperandone qualche piede a ogni strattone.

    Il banco di sardine si lanciò di nuovo in avanti strappando loro di mano tutta la rete che avevano faticosamente conquistato. Uno dei marinai herero fu troppo lento nel mollarla e la mano destra gli rimase impigliata nelle maglie ruvide che gli strapparono via la pelle dalle dita come un guanto, lasciando esposte ossa bianche e carne viva. Lui lanciò un urlo e si serrò la mano contro il petto tentando di arginare lo zampillo di sangue scarlatto che gli schizzò sul viso, colò lungo la scura pelle lucida di sudore del torace e del ventre, e gli inzuppò le braghe.

    «Manfred!» urlò Lothar. «Occupati di lui!» Riportò subito l’attenzione sulla rete. Il banco di sardine si stava inabissando tirandosi dietro un’estremità della cima con i galleggianti, e una sua piccola parte riuscì a superare la sommità della rete per poi sparpagliarsi come fumo verde scuro sulle acque brillanti.

    «Meglio così» borbottò, ma il grosso delle sardine era ancora intrappolato e la cima con i sugheri riaffiorò di colpo in superficie. Il banco si lanciò di nuovo verso il basso e questa volta il pesante peschereccio lungo cinquanta piedi si inclinò pericolosamente, tanto che i marinai cercarono freneticamente qualcosa a cui aggrapparsi, il viso che diventava di un grigio cinereo sotto la pelle scura.

    La lancia, che non aveva la forza di resistere allo strattone, fu tirata con violenza all’interno del cerchio formato dalla cima con i galleggianti. L’acqua verde si riversò all’interno, riempiendola.

    «Salta!» gridò Lothar all’anziano portoghese. «Allontanati dalla rete!» Conoscevano entrambi l’entità del pericolo.

    Durante la stagione precedente un membro del loro equipaggio vi era caduto dentro e i pesci gli si erano subito avventati contro, all’unisono, trascinandolo sott’acqua e lottando contro la resistenza del suo corpo nei loro sforzi per fuggire.

    Quando, ore più tardi, avevano infine recuperato il cadavere dal fondo della rete avevano scoperto che i movimenti spasmodici delle sardine e le immani pressioni negli abissi del banco intrappolato le avevano spinte dentro tutti gli orifizi del corpo del poveretto. Gli si erano infilate in bocca e giù fino al ventre, si erano conficcate come pugnali d’argento nelle orbite rimuovendo i bulbi oculari e raggiungendo il cervello. Avevano persino forato il logoro tessuto delle braghe penetrandogli nell’ano, tanto che lui aveva ventre e budella farciti di pesci morti ed era gonfio come un grottesco pallone. Nessuno di loro avrebbe mai dimenticato quello spettacolo.

    «Allontanati dalla rete!» gridò di nuovo Lothar e Da Silva si lanciò dalla parte opposta della lancia che stava affondando proprio mentre veniva trascinata sotto la superficie. Cominciò ad annaspare freneticamente mentre gli stivaloni pesanti lo tiravano sott’acqua.

    Ma c’era lì Swart Hendrick a salvarlo. Accostò il suo peschereccio alla cima e due suoi uomini issarono a bordo Da Silva mentre gli altri si assiepavano accanto al parapetto e, seguendo le indicazioni di Hendrick, agganciavano la fune di galleggiamento.

    «Purché la rete regga» grugnì Lothar, perché anche gli altri due pescherecci si erano avvicinati e agganciati alla cima. Le quattro grandi imbarcazioni formarono un cerchio intorno al banco di sardine catturato e gli equipaggi, lavorando a ritmo spasmodico, si piegarono sopra la rete e cominciarono a recuperarla.

    La issarono a bordo una spanna dopo l’altra, dodici uomini per peschereccio; persino Manfred prese posto accanto al padre. Grugnirono e tirarono e sudarono, con il sangue che imbrattava le loro mani ferite quando il banco si spingeva verso l’alto e un dolore bruciante alla schiena e al ventre, ma a poco a poco, un pollice alla volta, riuscirono a domare l’enorme banco finché non venne tirato in secca e i pesci negli strati superiori presero a dibattersi impotenti, con violenza, sopra l’ammasso compattato dei loro simili che stavano soffocando e morendo nella calca.

    «Tirateli fuori!» urlò Lothar e su ogni peschereccio i tre addetti andarono a prendere le reti a mano dalla rastrelliera sopra la timoniera e le trascinarono giù per il ponte.

    Avevano la stessa forma di retini per farfalle o di quelli più piccoli con cui i bambini, al mare, catturano gamberetti e granchi nelle pozze d’acqua fra gli scogli, ma erano dotate di un’impugnatura lunga trenta piedi e ciascuna di esse poteva racchiudere fino a una tonnellata di pesci vivi. In tre punti diversi dell’anello metallico che ne costituiva l’imboccatura erano fissate cime di canapa che venivano assicurate alla più pesante fune del verricello grazie al quale i retini venivano sollevati e abbassati. Il fondo poteva essere aperto e chiuso grazie a una corda che passava in una serie di anelli più piccoli, formando un dispositivo analogo a quello usato per serrare l’enorme rete principale.

    Mentre veniva posizionata la rete a mano, Lothar e Manfred tolsero in fretta le coperture del boccaporto della stiva e poi corsero ai loro posti, l’uno al verricello e l’altro a tenere l’estremità della cima di chiusura della rete. Sferragliando e cigolando, l’argano manovrato da Lothar sollevò la rete fin sopra le loro teste mentre i tre uomini che ne brandivano la lunga impugnatura la spingevano fuori bordo, sopra le sardine intrappolate che si dibattevano. Manfred tirò con forza la cima per serrarne il fondo.

    Lothar invertì la marcia dell’argano e con un altro stridio della carrucola la pesante imboccatura della rete piombò sull’argenteo ammasso di pesci. I tre addetti al manico vi si appoggiarono con tutto il loro peso inserendo energicamente la rete nel mucchio di sardine.

    «Sta salendo!» gridò lui prima di invertire di nuovo la marcia. La rete fu sollevata attraverso il banco, piena di una tonnellata di pesci che si agitavano e dibattevano, e mentre Manfred si teneva aggrappato alla cima di chiusura la rete oscillò sopra al boccaporto spalancato della stiva.

    «Molla!» gli gridò Lothar e il ragazzo lasciò andare la cima. Il fondo della rete si spalancò e una tonnellata di sardine precipitò nell’apertura. Quel rude trattamento aveva staccato dai corpi dei pesci minuscole squame che caddero turbinando sugli uomini in coperta, simili a fiocchi di neve, sfavillando con graziose sfumature di rosa e oro nella luce del sole.

    Quando la rete a mano si svuotò Manfred tirò la cima di chiusura e gli addetti al manico la spostarono di nuovo fuori bordo, il verricello invertì il senso di marcia e la rete piombò nuovamente sul banco di pesci per ricominciare il procedimento. Anche sugli altri tre pescherecci gli addetti al manico della rete e all’argano erano al lavoro, e ogni pochi secondi un’altra tonnellata di sardine, acqua di mare e nubi di scaglie traslucide veniva posizionata sopra il boccaporto in attesa e poi riversata dentro di esso.

    Era un lavoro straziante e che metteva a dura prova la schiena, monotono e ripetitivo, e ogni volta che la rete passava sopra di loro, i marinai si ritrovavano zuppi d’acqua di mare e ricoperti di squame. Quando gli addetti alla rete a mano cedevano per lo sfinimento, i comandanti, senza interrompere il ritmico susseguirsi di oscillazione, sollevamento e svuotamento, li sostituivano con coloro che si occupavano della rete principale, anche se Lothar rimase al verricello, ritto e vigile e infaticabile, i capelli di un biondo chiarissimo rivestiti di sfavillanti squame di pesce che brillavano al sole come un fuoco di segnalazione.

    Monete d’argento. Sorrise fra sé e sé mentre le sardine cadevano a cascata nella stiva di tutti e quattro i pescherecci. Brillanti monete da tre penny, non pesci. Oggi riempiamo il ponte di tickeys. Tickey, era così che chiamavano in gergo le monete da tre penny.

    «In coperta!» urlò al di sopra del cerchio sempre più piccolo formato dalla rete principale, in direzione del punto in cui Hendrick, a torso nudo e scintillante come ebano lucidato, stava manovrando il suo verricello.

    «In coperta!» gridò lui di rimando, assaporando lo sforzo fisico che gli consentiva di schiaffare in faccia all’equipaggio la sua superiorità in fatto di vigore. I pescherecci avevano già la stiva strapiena, con a bordo più di centocinquanta tonnellate di sardine, e adesso stavano per caricarle in coperta.

    Anche quello era un rischio. Una volta piene, le imbarcazioni non potevano essere alleggerite finché non avessero raggiunto il porto e trasferito il pesce nella fabbrica. Caricare anche il ponte avrebbe imposto a ogni scafo altre cento tonnellate di peso morto, ben oltre il limite di sicurezza. Se il tempo fosse cambiato, se il vento avesse iniziato a soffiare verso nordovest, gli enormi cavalloni che si sarebbero rapidamente formati avrebbero fatto affondare i pescherecci strapieni nei gelidi abissi verdi.

    Il tempo terrà, si disse Lothar mentre sgobbava al verricello. Era sulla cresta dell’onda, ormai niente poteva fermarlo. Aveva corso un rischio spaventoso ed era stato ripagato con quasi mille tonnellate di pesce, quattro coperte cariche di sardine che gli avrebbero garantito cinquanta sterline di profitti per tonnellata. Cinquantamila sterline in una volta sola. Il più grande colpo di fortuna della sua vita. Avrebbe potuto perdere la rete o l’imbarcazione o la vita, invece avrebbe saldato i propri debiti con un unico lancio della rete.

    «Perdio» sussurrò mentre faticava con il verricello, «ormai non può andare storto nulla, nulla può toccarmi. Sono libero e al sicuro.»

    Così, con la stiva colma, cominciarono a caricare il pesce in coperta, riempiendola fino alla sommità dei parapetti con un’argentea palude di pesci in cui l’equipaggio era immerso fino alla vita mentre asciugava la rete principale e faceva oscillare il lungo manico di quella a mano.

    Sopra i quattro pescherecci aleggiava una densa nube bianca di uccelli marini che aggiungevano le loro strida fameliche alla cacofonia degli argani, tuffandosi in picchiata nel sacco della rete per ingozzarsi fino a non poter più mangiare e nemmeno volare, per poi lasciarsi portare via dalla corrente, gonfi, le penne arruffate e la gola che si sforzava di tenere giù il contenuto del gozzo dilatato. A prua e a poppa di ogni peschereccio era ritto un uomo armato di un lungo arpione con cui trafiggeva e randellava i grandi squali che sguazzavano in superficie nel tentativo di raggiungere l’ammasso di pesci intrappolati. La loro pinna triangolare affilata come un rasoio era in grado di tagliare persino le resistenti maglie della rete.

    Mentre uccelli e squali si abbuffavano, gli scafi dei pescherecci si abbassavano sempre più nell’acqua finché, poco dopo che il sole ebbe raggiunto lo zenit, persino Lothar dovette gridare che era abbastanza. Ormai non c’era posto per un altro carico, ogni volta che ne rovesciavano uno a bordo scivolava semplicemente oltre la fiancata e nell’acqua, a sfamare gli squali che giravano in tondo.

    Spense l’argano. Probabilmente c’era un altro centinaio di tonnellate di pesci che fluttuavano nella rete principale, quasi tutti soffocati e schiacciati.

    «Vuotate la rete» ordinò. «Lasciateli andare! Issatela a bordo.»

    Le quattro imbarcazioni, tutte così basse che l’acqua entrava dagli ombrinali a ogni beccheggio e così lente da ancheggiare goffamente come una fila di anatre gravide, virarono verso la costa, allineate e capeggiate dalla sua.

    Si lasciarono dietro un tratto di oceano ampio circa mezzo miglio quadrato rivestito di pesci morti che galleggiavano a pancia in su, formando un tappeto spesso come quello di foglie autunnali nella foresta. Sopra di loro si libravano migliaia di gabbiani satolli mentre sotto di loro i grandi squali vorticavano e banchettavano ancora.

    I marinai stremati arrancarono faticosamente nelle sabbie mobili di sardine ancora tremolanti e guizzanti che riempivano il ponte fino al corridoio che portava alle cabine. Una volta sottocoperta si buttarono sulle loro strette cuccette ancora fradici di muco di pesce e acqua di mare.

    Nella timoniera, Lothar bevve due tazze di caffè bollente, poi controllò il cronometro sopra la sua testa.

    «Quattro ore di viaggio per tornare alla fabbrica» disse. «Giusto il tempo per le nostre lezioni.»

    «Oh, papà!» disse Manfred in tono supplichevole. «Oggi no, è una giornata speciale. Dobbiamo studiare anche oggi?»

    Non c’erano scuole a Walvis Bay, la più vicina era quella tedesca a Swakopmund, a una cinquantina di miglia di distanza. Lothar aveva fatto sia da padre sia da madre al ragazzo sin da quando era nato. Lo aveva preso, ancora bagnato e insanguinato, subito dopo il parto. La madre non aveva mai nemmeno posato gli occhi su di lui, come prevedeva il loro innaturale accordo. Lui lo aveva cresciuto da solo, senza nessun aiuto a parte il latte fornito dalle balie di etnia nama. Ormai erano talmente uniti che non sopportava di separarsi da lui nemmeno un giorno. Si era persino assunto il compito di istruirlo personalmente, piuttosto che mandarlo a studiare lontano.

    «Nessun giorno è così speciale» gli spiegò. «Impariamo ogni giorno. Non bastano i muscoli per rendere forte un uomo.» Si picchiettò un dito sulla testa. «Ecco cosa lo rende forte. Prendi i libri!»

    Manfred guardò Da Silva in cerca di solidarietà e alzò gli occhi al cielo, ma sapeva di non dover discutere oltre.

    «Prendi il timone!» Lothar lasciò il posto all’anziano marinaio e andò a sedersi accanto al figlio, davanti al piccolo tavolo da carteggio. «Non aritmetica.» Scosse il capo. «Oggi facciamo inglese.»

    «Odio l’inglese!» dichiarò con foga il ragazzo. «Odio l’inglese e gli inglesi.»

    «Sì» concordò Lothar annuendo, «gli inglesi sono nostri nemici. Lo sono sempre stati e sempre lo saranno. Ecco perché dobbiamo armarci con le loro armi, ecco perché impariamo la loro lingua, così a tempo debito saremo in grado di usarla in battaglia contro di loro.»

    Parlò in inglese per la prima volta quel giorno. Manfred cominciò a rispondere in afrikaans, il patois olandese del Sudafrica che soltanto nel 1918, un anno prima della sua nascita, era stato riconosciuto come idioma a sé stante e adottato come lingua ufficiale dell’Unione sudafricana. Il padre alzò una mano per fermarlo.

    «In inglese» lo ammonì, «parla solo in inglese.»

    Lavorarono insieme per un’ora leggendo ad alta voce brani della Bibbia di re Giacomo e articoli di una copia vecchia di due mesi del Cape Times, poi Lothar gli dettò un’intera pagina. Faticare in quell’idioma non familiare spinse Manfred a muoversi nervosamente, accigliarsi e mordicchiare la matita finché non riuscì a trattenersi oltre.

    «Raccontami del nonno e del giuramento!» chiese al padre, blandendolo.

    Lothar sorrise. «Sei una scimmietta scaltra, vero? Qualsiasi cosa pur di smettere di lavorare.»

    «Ti prego, papà…»

    «Te l’ho già raccontato un centinaio di volte.»

    «Raccontamelo di nuovo. È un giorno speciale.»

    Lothar guardò dalla finestra della timoniera il prezioso carico color argento. Il ragazzo aveva ragione, era una giornata davvero speciale. Quel giorno si era liberato dai debiti, dopo cinque lunghi e difficili anni.

    «D’accordo.» Annuì. «Te lo racconterò di nuovo, ma in inglese.» E Manfred chiuse il suo quaderno con un tonfo entusiastico e si allungò al di sopra del tavolo, gli occhi color ambra che brillavano di aspettativa.

    Aveva sentito la storia della grande ribellione talmente tante volte che la conosceva a memoria e correggeva ogni discrepanza o inesattezza rispetto all’originale, oppure richiamava all’ordine il padre se ometteva dei dettagli.

    «Bene, allora» cominciò Lothar, «quando l’infido Re Giorgio V dichiarò guerra al Kaiser Guglielmo di Germania, nel 1914, tuo nonno e io sapevamo quale fosse il nostro dovere. Abbiamo salutato tua nonna con un bacio…»

    «Di che colore erano i capelli della nonna?» volle sapere il ragazzo.

    «Tua nonna era una bellissima nobildonna tedesca e i suoi capelli avevano lo stesso colore del grano maturo illuminato dal sole.»

    «Proprio come i miei» lo imbeccò Manfred.

    «Proprio come i tuoi.» Il padre sorrise. «E il nonno e io, in sella ai nostri destrieri da guerra, abbiamo raggiunto il generale Maritz e i suoi seicento eroi sulle rive del fiume Orange, dove lui si accingeva a muoversi contro il vecchio Slim Jannie Smuts.» Slim era la parola afrikaans che significava subdolo o traditore, e Manfred annuì vigorosamente.

    «Continua, papà, continua!»

    Quando Lothar arrivò a descrivere la prima battaglia in cui le truppe di Jannie Smuts avevano stroncato la ribellione con mitragliatrici e artiglieria, il dispiacere rannuvolò gli occhi del ragazzo.

    «Ma voi avete combattuto come demoni, vero, papà?»

    «Abbiamo combattuto come ossessi, ma loro erano troppi, e armati con enormi cannoni e mitragliatrici. Poi tuo nonno è stato colpito al ventre e io l’ho messo sul mio cavallo e portato via dal campo di battaglia.» Quando Lothar finì di parlare il figlio aveva le lacrime agli occhi.

    «Alla fine, mentre stava morendo, tuo nonno ha preso la vecchia Bibbia nera dalla bisaccia che gli faceva da guanciale e mi ha fatto giurare su di essa.»

    «Conosco il giuramento» lo interruppe Manfred. «Lascialo recitare a me!»

    «Qual era il giuramento?»

    «Il nonno ha detto: Promettimi, figlio mio, con la mano posata su questo libro, che la guerra contro gli inglesi non avrà mai fine

    «Sì.» Lothar annuì. «Fu quello il giuramento, il solenne giuramento che ho fatto a mio padre in punto di morte.» Prese la mano del ragazzo e la strinse con forza.

    Il vecchio Da Silva guastò l’atmosfera quando tossicchiò, borbottò e sputò fuori dalla finestra della timoniera.

    «Dovresti vergognarti a riempirgli la testa di odio e morte» affermò, e Lothar si alzò di scatto.

    «Bada a quello che dici, vecchio» lo avvisò. «Non sono affari tuoi.»

    «No, grazie alla santa Vergine» bofonchiò Da Silva, «perché quelli sono davvero affari del diavolo.»

    Lothar si accigliò e gli diede la schiena. «Manfred, per oggi basta. Metti via i libri.»

    Uscì dalla timoniera e si arrampicò sul tetto. Mentre si metteva comodo contro la mastra prese un lungo sigaro nero dal taschino e ne staccò un’estremità con un morso, poi la sputò fuori bordo e si tastò le tasche cercando i fiammiferi. Il ragazzo allungò la testa sopra il bordo della mastra, esitò per timidezza e poi, vedendo che il padre non lo mandava via – a volte era lunatico e chiuso in se stesso e preferiva rimanere solo – andò a sederglisi accanto.

    Lothar riparò il fiammifero acceso con le mani a coppa e aspirò avidamente il fumo del sigaro, poi tenne sollevato il fiammifero e lasciò che il vento lo spegnesse. Lo gettò in mare e lasciò ricadere con disinvoltura il braccio sulle spalle del figlio.

    Il ragazzo rabbrividì di piacere, data la rarità delle dimostrazioni d’affetto paterne, e si premette ancor più contro di lui rimanendo il più fermo possibile, senza quasi respirare per non disturbare o rovinare il momento.

    La piccola flottiglia filò verso la terraferma e girò intorno all’appuntito corno settentrionale della baia. Gli uccelli marini stavano tornando insieme a loro, squadroni di sule dalla gola gialla che formavano file ordinate volando rasenti alle nebulose acque verdi, e il sole sempre più basso le rendeva dorate e ardeva sulle alte dune color bronzo che si levavano come una catena montuosa dietro il minuscolo gruppetto di edifici al margine della baia.

    «Spero che Willem abbia avuto il buonsenso di accendere le caldaie» mormorò Lothar. «Qui abbiamo abbastanza lavoro per tenere impegnata la fabbrica per tutta la notte e l’intera giornata di domani.»

    «Non riusciremo mai a inscatolare tutto questo pesce» sussurrò il figlio.

    «No, dovremo trasformarne la maggior parte in olio e farina di pesce…» Si interruppe e osservò il fondo della baia. Manfred lo sentì irrigidirsi e poi, con profondo rammarico, lo sentì togliergli il braccio dalle spalle per ripararsi gli occhi con una mano.

    «Dannato idiota» ringhiò Lothar. Con la sua vista acuta da cacciatore era riuscito a scorgere il comignolo del locale caldaie della fabbrica da cui non usciva fumo. «A che razza di gioco sta giocando?» Balzò in piedi e mantenne agevolmente l’equilibrio contrastando il rollio del peschereccio. «Ha lasciato che le caldaie si raffreddassero. Serviranno cinque o sei ore per riaccenderle e il nostro pesce comincerà a marcire. Dannazione a lui, dannazione!» Ancora furibondo si lasciò cadere nella timoniera. Mentre azionava la sirena antinebbia per avvisare lo scatolificio disse bruscamente: «Con il ricavato della vendita del pesce comprerò una di quelle nuove radio a onde corte di Marconi, così potremo parlare con la fabbrica mentre siamo in mare, e a quel punto cose del genere non succederanno più».

    Si interruppe di nuovo per fissare la scena. «Cosa diavolo sta succedendo?» Ghermì il binocolo nel contenitore accanto al pannello di controllo e regolò la messa a fuoco. Ormai erano abbastanza vicini per distinguere la piccola folla che si era radunata accanto alle porte principali dello scatolificio, composta da addetti al taglio e alla confezionatura in grembiule e stivali di gomma. Si sarebbero dovuti trovare ai loro posti nello stabilimento.

    «C’è Willem.» Il direttore della fabbrica era fermo in fondo al lungo pontile di legno per lo scarico che si protendeva nelle acque ferme della baia poggiando su massicci piloni di teak. «A che diavolo di gioco sta giocando, con le caldaie fredde e tutti che ciondolano lì fuori?» Willem aveva accanto, uno per lato, due sconosciuti in completo scuro e dall’aria presuntuosa e tronfia tipica della meschina ufficialità che Lothar conosceva e paventava.

    «Esattori fiscali o funzionari pubblici di altro genere» sussurrò, e la sua rabbia si placò e fu sostituita dal disagio. Nessun tirapiedi del governo aveva mai portato buone notizie.

    Problemi, intuì. Proprio adesso che ho mille tonnellate di pesce da cuocere e inscatolare…

    Poi notò le automobili, rimaste nascoste dalla fabbrica finché Da Silva non aveva svoltato nel canale principale che avrebbe condotto l’imbarcazione fino al pontile di scarico. Erano due. Una era un malconcio vecchio modello T della Ford ma l’altra, per quanto coperta da un velo di sottile polvere del deserto, era una vettura molto più imponente, e lui sentì il cuore perdere un battito e il ritmo del respiro cambiare.

    Non potevano esserci due veicoli simili in tutta l’Africa. Era una mastodontica Daimler color giallo giunchiglia. L’ultima volta in cui lui l’aveva vista era parcheggiata davanti agli uffici della Courtney Mining and Finance Company nella Main Street di Windhoek.

    In quell’occasione stava andando a discutere di una proroga dei prestiti fattigli dall’azienda ed era rimasto fermo sul ciglio opposto dell’ampia e polverosa strada non lastricata mentre lei scendeva i larghi gradini di marmo fiancheggiata da due ossequiosi impiegati in completo scuro e alto colletto di celluloide, uno dei quali le aveva aperto lo sportello della splendida auto e l’aveva aiutata a mettersi al volante mentre l’altro correva a girare la manovella di avviamento. Disprezzando l’idea di uno chauffeur, lei guidava personalmente e si era allontanata senza nemmeno guardare verso Lothar, lasciandolo pallido e tremante per la ridda di emozioni contrastanti suscitate dal semplice fatto di vederla. Era successo quasi un anno prima.

    Si riscosse mentre Da Silva portava accanto al pontile il peschereccio sovraccarico, talmente basso nell’acqua che Manfred dovette lanciare la cima d’ormeggio a uno degli uomini in alto.

    «Lothar, questi signori… vogliono parlare con te» gli gridò Willem. Stava sudando per il nervosismo mentre indicava con il pollice il tizio al suo fianco.

    «Siete Lothar De la Rey?» chiese il più basso dei due sconosciuti spingendosi verso la nuca il fedora impolverato e tamponandosi la chiara striscia di pelle visibile sotto la tesa.

    «Esatto.» Lui lo guardò in cagnesco dal basso, le mani serrate a pugno lungo i fianchi. «E lei chi diavolo è?»

    «È il proprietario della South West African Canning and Fishing Company?»

    «Ja!» rispose lui in afrikaans. «Sono il proprietario, e con ciò?»

    «Io sono lo sceriffo del tribunale di Windhoek e ho qui un atto di confisca relativo a tutti i beni della compagnia.» L’uomo brandì il documento.

    «Hanno chiuso la fabbrica» lo informò mestamente Willem, i baffi che tremolavano. «Mi hanno costretto a spegnere i fuochi delle mie caldaie.»

    «Non potete farlo!» ringhiò Lothar stringendo gli occhi gialli e feroci come quelli di un leopardo furibondo. «Ho mille tonnellate di pesce da lavorare.»

    «Questi sono i quattro pescherecci intestati alla compagnia?» continuò lo sceriffo, restando impassibile davanti a quello sfogo ma sbottonandosi la giacca scura e spingendola indietro mentre si posava le mani sui fianchi. Un massiccio revolver d’ordinanza Webley era infilato nel fodero di pelle fissato alla sua cintura. Lui voltò la testa per guardare le altre imbarcazioni ormeggiate su entrambi i lati del pontile e poi, senza aspettare la risposta di Lothar, aggiunse tranquillamente: «Il mio assistente apporrà i sigilli del tribunale su di essi e sui relativi carichi. Devo avvisarla che sarebbe un reato spostare le imbarcazioni o il loro carico».

    «Non potete farmi questo!» Lothar salì rapido la scaletta fino al pontile. Il suo tono non era più bellicoso. «Devo far lavorare il mio pesce, non capisce? Entro domattina puzzerà in maniera abominevole…»

    «Non è il suo pesce.» Lo sceriffo scosse il capo. «Appartiene alla Courtney Mining and Finance Company.» Rivolse un gesto spazientito al suo assistente. «Procedi pure, amico.» Fece per voltarsi.

    «Lei è qui» gli gridò dietro Lothar, e lo sceriffo si voltò a guardarlo. «È qui, quella è la sua automobile. È venuta di persona, vero?»

    Lo sceriffo abbassò lo sguardo e si strinse nelle spalle ma Willem bofonchiò una risposta.

    «Sì, è qui. Sta aspettando nel mio ufficio.»

    Lothar diede le spalle al gruppetto e si incamminò a grandi passi sul pontile, le pesanti braghe di tela cerata che frusciavano e le mani ancora strette a pugno come se stesse andando a battersi con qualcuno.

    Gli operai della fabbrica, agitati, lo stavano aspettando in fondo al molo.

    «Cosa succede, Baas?» chiesero in tono implorante. «Non ci lasciano lavorare. Cosa dobbiamo fare?»

    «Aspettate!» ordinò lui bruscamente. «Sistemerò tutto.»

    «Verremo pagati, Baas? Abbiamo dei figli…»

    «Verrete pagati» sbottò lui, «ve lo prometto.» Era una promessa che non poteva mantenere, non prima di avere venduto il pesce. Si aprì un varco a spintoni fra la calca e girò l’angolo dello stabilimento puntando verso l’ufficio del direttore.

    La Daimler era parcheggiata davanti alla porta e un ragazzo con l’aria scocciata e annoiata era appoggiato al parafango anteriore. Doveva avere circa un anno più di Manfred ma era più basso di almeno un pollice e più snello e azzimato. Portava una camicia bianca leggermente afflosciata dal caldo e i suoi ampi ed eleganti pantaloni di flanella grigia erano impolverati e troppo alla moda per un ragazzo della sua età, ma sfoggiava una grazia innata e una bellezza femminea con la sua pelle perfetta e gli occhi color indaco scuro.

    Vedendolo, Lothar si fermò di colpo e prima di potersi trattenere disse: «Shasa!».

    Lui si raddrizzò in fretta e scosse il capo per scostarsi la ciocca di capelli scuri dalla fronte.

    «Come fa a sapere il mio nome?» chiese, e a dispetto del suo tono gli occhi blu scintillarono di interesse mentre studiava Lothar con una sicurezza di sé pacata, quasi da adulto.

    C’erano un centinaio di risposte che Lothar avrebbe potuto dargli, e gli salirono tutte alle labbra.

    Una volta, molti anni fa, ho salvato te e tua madre dalla morte nel deserto… Ho contribuito a svezzarti e ti ho portato sul pomo della mia sella quando eri solo un bimbetto… Ti ho amato quasi quanto un tempo amavo tua madre… Sei il fratello di Manfred, il fratellastro di mio figlio. Ti riconoscerei fra mille, persino dopo tutto questo tempo.

    «Shasa nella lingua dei boscimani significa acqua buona, la cosa più preziosa nel loro mondo» disse invece.

    «Esatto.» Shasa Courtney annuì. Quell’uomo lo interessava. Sembrava racchiudere una violenza e una crudeltà controllate, dava un’impressione di forza non ancora sfruttata, e i suoi occhi avevano un colore strano, erano quasi gialli come quelli di un gatto. «Ha ragione, è un nome boscimano ma il mio nome cristiano è Michel. È francese, come mia madre.»

    «Lei dov’è?» chiese Lothar, e Shasa guardò verso la porta dell’ufficio.

    «Non vuole essere disturbata» lo avvisò, ma Lothar De la Rey gli passò accanto, talmente vicino che lui sentì l’odore del muco di pesce sui suoi calzoni e vide le piccole squame bianche attaccate alla sua pelle abbronzata.

    «Le conviene bussare…» aggiunse sottovoce ma Lothar lo ignorò e spalancò la porta dell’ufficio, che picchiò contro la parete. Si fermò sulla soglia e Shasa riuscì a vedere dietro di lui. Sua madre si alzò dalla sedia accanto alla finestra e si girò verso la porta.

    Era snella come una ragazzina e il crêpe de Chine giallo dell’abito le formava un drappeggio sopra il seno piccolo e schiacciato, come dettava la moda, ed era raccolto in una stretta fusciacca bassa sui fianchi. Il cappello a cloche dalla tesa stretta, ben calcato sulla testa, copriva la folta chioma scura, e i suoi occhi erano enormi e quasi neri.

    Sembrava giovanissima, non molto più vecchia del figlio, finché non sollevò il mento mostrando la linea severa e decisa della mascella, e luci color miele cominciarono ad ardere in fondo ai suoi occhi scuri. A quel punto parve formidabile come qualsiasi uomo Lothar avesse mai incontrato.

    Si fissarono valutando i cambiamenti apportati dal tempo dopo il loro ultimo incontro.

    Quanti anni ha?, si chiese Lothar, poi se ne rammentò.

    È nata un’ora dopo la mezzanotte del primo giorno del secolo. È vecchia come il Ventesimo secolo eppure dimostra ancora diciannove anni come il giorno in cui l’ho trovata, sanguinante e in fin di vita nel deserto, con le profonde ferite lasciate dalle zampe di un leone sulla sua dolce carne.

    È invecchiato, pensò Centaine.

    Le striature argentee nei capelli biondi, le rughe intorno a bocca e occhi. Ormai deve avere superato la quarantina, e ha sofferto ma non abbastanza. Sono felice di non averlo ucciso, felice che il mio proiettile gli abbia mancato il cuore. Sarebbe stata una morte troppo rapida. Adesso lui è in mio potere e comincerà a imparare la vera…

    All’improvviso, contrariamente alla sua volontà e inclinazione, rammentò la sensazione del corpo dorato di quell’uomo sopra il suo, nudo e liscio e sodo, e si sentì pervadere da un’ondata di desiderio, violenta e bruciante, bollente come il sangue che le affluì alle guance e come la rabbia verso se stessa e verso la propria incapacità di dominare quel lato animalesco delle proprie emozioni. In tutte le altre cose era addestrata come un’atleta, ma quella vena ribelle di sensualità si rivelava sempre appena al di fuori del suo controllo.

    Guardò oltre l’uomo sulla soglia e vide Shasa ritto nella luce del sole, il suo bellissimo figlio che la fissava incuriosito, e si vergognò e si arrabbiò per essere stata colta in quel momento di debolezza in cui era sicura che le sue più meschine emozioni fossero risultate chiaramente visibili.

    «Chiudi la porta» ordinò con voce roca e pacata. «Entra e chiudi la porta.» Si voltò a guardare fuori dalla finestra, riacquistando ancora una volta completo dominio di sé prima di voltarsi ad affrontare l’uomo che si era ripromessa di distruggere.

    La porta si chiuse e Shasa rimase amaramente deluso. Intuiva che nella stanza stava succedendo qualcosa di fondamentale. Lo sconosciuto biondo con gli occhi gialli come quelli di un gatto che sapeva come si chiamava e da dove arrivava faceva agitare qualcosa dentro di lui, qualcosa di pericoloso ed eccitante. Poi la reazione di sua madre, quell’improvviso rossore che le risaliva lungo la gola e fino alle guance, e qualcosa nei suoi occhi che lui non aveva mai visto prima: sicuramente non era senso di colpa, vero? Poi incertezza, che non era affatto da lei. Non era mai stata incerta su niente al mondo, per quanto lui ne sapesse. Moriva dalla voglia di scoprire cosa stava accadendo dietro quella porta chiusa. Le pareti dell’edificio erano fatte di lamiera ondulata e galvanizzata.

    «Se vuoi sapere qualcosa vai a scoprirlo» era uno dei motti di sua madre, e il suo unico scrupolo era che lei potesse coglierlo in flagrante mentre raggiungeva la parete laterale dell’ufficio, con passo talmente leggero da non far scricchiolare la ghiaia sotto i suoi piedi, e posava l’orecchio sulla lamiera ondulata scaldata dal sole.

    Per quanto aguzzasse le orecchie riuscì a sentire soltanto un brusio. Non riusciva ad afferrare le parole nemmeno quando lo sconosciuto biondo parlava in tono brusco, mentre la voce di sua madre era bassa, rauca e inudibile.

    La finestra, pensò, e si diresse rapidamente verso l’angolo. Quando lo superò, assorto nel tentativo di origliare dalla finestra aperta, si ritrovò di colpo al centro dell’attenzione di cinquanta paia di occhi. Il direttore della fabbrica e i suoi operai in ozio erano ancora assiepati accanto alla porta principale e si zittirono per concentrarsi su di lui quando comparve da dietro l’angolo.

    Shasa gettò indietro la testa e si allontanò dalla finestra. Tutti lo stavano ancora guardando e lui affondò con forza le mani nelle tasche dei calzoni e, ostentando nonchalance, scese tranquillamente verso il lungo pontile di legno come se quella fosse stata la sua intenzione fin dall’inizio. Qualsiasi cosa stesse succedendo dentro l’ufficio era ormai imperscrutabile, a meno che non fosse riuscito a cavarlo di bocca alla madre in un secondo momento, e dubitava di avere molte speranze in tal senso. Poi notò all’improvviso i quattro tozzi pescherecci di legno ormeggiati al pontile, ognuno basso nell’acqua sotto il suo argenteo carico scintillante, e la delusione si stemperò leggermente. Lì c’era qualcosa per spezzare la monotonia di quel torrido e tetro pomeriggio desolato e lui accelerò il passo mentre metteva piede sul pontile. Le imbarcazioni lo avevano sempre affascinato.

    Era uno spettacolo inconsueto ed eccitante. Shasa non aveva mai visto così tanti pesci, dovevano essere tonnellate. Arrivò accanto alla prima barca. Era sporca e brutta a vedersi, con striature di escrementi umani lungo le fiancate laddove l’equipaggio si era accovacciato sul parapetto, e puzzava di sentina e carburante ed esseri umani non lavati costretti a convivere in spazi angusti. Non l’avevano nemmeno ingentilita dandole un nome: sulla prua martoriata dalle onde erano dipinti solo il numero di registrazione e quello di matricola.

    Una barca dovrebbe avere un nome, si disse. Non darglielo è offensivo e porta sfortuna. Il panfilo di venticinque piedi che gli aveva regalato la madre per il suo tredicesimo compleanno era stato battezzato Il tocco di Mida, un nome suggerito da lei.

    Arricciò il naso per il tanfo del peschereccio, disgustato e rattristato dal suo stato di vergognosa trascuratezza.

    Se è per questo che la mamma ha fatto tutta quella strada da Windhoek…

    Non concluse la riflessione perché un ragazzo spuntò dal lato opposto dell’alta timoniera triangolare.

    Portava pantaloni corti di tela, aveva gambe abbronzate e muscolose e si teneva agevolmente in equilibrio, a piedi scalzi, sul boccaporto.

    Quando si accorsero l’uno della presenza dell’altro si adombrarono e si irrigidirono come due cani che si incontrano inaspettatamente, poi si studiarono in silenzio.

    Un damerino, pensò Manfred. Aveva già visto un paio di ragazzi come lui durante le loro rare visite nella cittadina di villeggiatura di Swakopmund, più su, lungo la costa. Figli di ricconi che portavano ridicoli indumenti rigidi e camminavano obbedienti dietro i genitori con quell’irritante espressione arrogante sul viso. Basta guardargli i capelli, tutti lucidi di brillantina, e puzza come un mazzo di fiori.

    Uno degli afrikaner bianchi poveri, rifletté Shasa, riconoscendo il tipo. Un bywoner, il figlio di un occupante abusivo. La madre gli aveva proibito di giocare con loro ma lui aveva scoperto che alcuni erano terribilmente divertenti e la loro attrattiva ovviamente era accentuata dal divieto materno. Uno dei figli del caposquadra nell’officina della miniera imitava i richiami degli uccelli così bene da riuscire a far scendere i volatili dagli alberi, e gli aveva insegnato a regolare il carburatore e l’accensione della vecchia Ford che la madre gli permetteva di usare anche se era troppo giovane per avere la patente. E la sorella maggiore del ragazzo, che aveva un anno più di Shasa, gli aveva mostrato qualcosa di ancor più fantastico quando avevano condiviso alcuni istanti proibiti dietro il casotto delle pompe. Gli aveva permesso persino di toccargliela e si era rivelata tiepida e morbida e pelosa come un gattino appena nato, annidata lì sotto la corta gonna di cotone, un’esperienza straordinaria che lui intendeva replicare alla prima occasione.

    Anche quel ragazzo sembrava interessante e magari poteva mostrargli la sala motori del peschereccio. Shasa si voltò a guardare la fabbrica. Sua madre non lo stava osservando e lui era disposto a mostrarsi magnanimo.

    «Ciao.» Fece un gesto signorile e un bel sorriso. Suo nonno, Sir Garrick Courtney, l’uomo più importante nella sua vita, gli diceva sempre: «Per nascita occupi una posizione particolarmente elevata nella società. Questo ti conferisce non solo benefici e privilegi ma anche doveri. Un vero gentiluomo tratta con sollecitudine e cortesia coloro che sono al di sotto del suo livello sociale, neri o bianchi, vecchi o giovani, uomini o donne che siano».

    «Mi chiamo Courtney, Shasa Courtney» disse al ragazzo. «Mio nonno è Sir Garrick Courtney e mia madre è Mrs Centaine de Thiry Courtney.» Aspettò la deferenza solitamente suscitata da quei nomi e quando non la vide comparire aggiunse piuttosto fiaccamente: «Come ti chiami?».

    «Manfred» rispose in afrikaans l’altro inarcando le folte sopracciglia nere sopra gli occhi color ambra, tanto più scure dei capelli biondi da sembrare dipinte. «Manfred De la Rey, e anche mio nonno e il mio prozio

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