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Il canto dell'elefante
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E-book643 pagine9 ore

Il canto dell'elefante

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Info su questo ebook

Una terra offesa. Un canto di salvezza.

Dall'ombra dei Monti della Luna alla cupa foresta degli alberi alti, dall'opulenza di Taiwan alle lussuose stanze del potere nel cuore di Londra. Un romanzo incalzante che è diventato un classico della narrativa d'avventura, riproposto in una nuova traduzione.

Giornalista e autore di documentari televisivi, Daniel Armstrong ha dedicato gran parte della sua vita a proteggere gli animali e le foreste pluviali dell'Africa. Ma quando dei bracconieri uccidono il suo amico d'infanzia Johnny Nzou, direttore del Chiwewe National Park, e rubano dal deposito governativo l'avorio confiscato, la sua nobile passione per la causa ecologista si trasforma in sete di vendetta.
Deciso a scoprire chi abbia commissionato quel barbaro omicidio, Daniel inizia a indagare, e ben presto, grazie all'esperienza sul campo e alle sue conoscenze nel settore, si rende conto che la situazione è ben peggiore di quanto avesse immaginato. Nel paese la corruzione regna sovrana, insieme alla sfrenata avidità di chi considera persone e animali soltanto un mezzo per arricchirsi. E salvare la terra che ama da una forza così distruttiva e potente sembra un'impresa disperata…

LinguaItaliano
Data di uscita16 lug 2020
ISBN9788830514904
Il canto dell'elefante
Autore

Wilbur Smith

Considerato l’indiscusso maestro dell’avventura, è nato nel 1933 in Africa centrale e si è spento il 13 novembre 2021. Ha pubblicato più di quaranta titoli, tradotti in ventisei lingue, fra cui il ciclo ambientato nell'Antico Egitto e le celebri serie dedicate ai Courtney, ai Ballantyne e a Hector Cross. Nel 2015 ha fondato la Wilbur & Niso Smith Foundation, che promuove la cultura e la narrativa d'avventura. Fiore all'occhiello della fondazione è il prestigioso Wilbur Smith Adventure Writing Prize.

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    Anteprima del libro

    Il canto dell'elefante - Wilbur Smith

    Era un edificio di blocchi d’arenaria lavorata, senza finestre e con il tetto di paglia, che Daniel Armstrong aveva costruito con le sue mani quasi dieci anni prima, quando era un ranger nell’amministrazione dei National Parks. In seguito la struttura era stata trasformata in un vero e proprio scrigno di tesori.

    Johnny Nzou inserì la chiave nel grosso lucchetto e spalancò i due battenti di tek sgrossato. Era il direttore del Chiwewe National Park. In passato aveva fatto il cercatore di tracce e il portatore di fucili per Daniel. All’epoca era un giovane e brillante matabele cui Daniel aveva insegnato a leggere, scrivere e parlare correntemente l’inglese alla luce di mille fuochi da campo.

    Daniel gli aveva prestato i soldi necessari per pagarsi il primo corso per corrispondenza all’Università del Sudafrica, che poi gli aveva permesso di conseguire la laurea in materie scientifiche. I due giovani, uno nero e l’altro bianco, avevano pattugliato insieme l’immensa distesa del parco, spesso a piedi o in bicicletta. In quei territori selvaggi avevano stretto un’amicizia che la separazione degli anni successivi non aveva intaccato.

    Affacciandosi nell’interno semibuio, Daniel fischiò.

    «Caspita, Johnny, ti sei dato molto da fare mentre ero via.»

    Il tesoro, ammucchiato fino alle travi del tetto, valeva centinaia di migliaia di dollari.

    Johnny Nzou lanciò un’occhiata a Daniel e socchiuse gli occhi, cercando un accenno di critica nell’espressione dell’amico. Fu una reazione istintiva, perché sapeva che Daniel era un alleato in grado di capire il problema ancora meglio di lui. Nonostante ciò era un argomento così delicato che ormai era inevitabile aspettarsi repulsione e rivalità.

    Daniel, tuttavia, si era girato verso il cameraman. «Possiamo avere un po’ di luce? Voglio qualche buona inquadratura dell’interno.»

    L’altro si fece avanti, curvo sotto il peso delle batterie fissate intorno alla vita, e accese la lampada ad arco portatile. Le alte pile del tesoro furono illuminate da un crudo chiarore biancazzurro.

    «Jock, voglio che tu segua me e il direttore lungo il deposito» spiegò Daniel. Il cameraman annuì e si avvicinò, tenendo in equilibrio sulla spalla la grossa e lucida telecamera Sony. Sui trentacinque anni, indossava soltanto pantaloncini cachi e sandali. Nel caldo della valle dello Zambesi, il torace nudo e abbronzato era lustro di sudore e i capelli lunghi erano legati sulla nuca con un laccio di pelle. Sembrava una popstar, ma era un artista delle riprese.

    «Capito.» Fece una panoramica dei mucchi disordinati di zanne d’elefante, finendo con la mano di Daniel che accarezzava un’elegante curva d’avorio scintillante. Poi riportò l’inquadratura sulla sua figura intera.

    A fare di Daniel un’autorità internazionale e un portavoce dell’ecologia africana non erano solo il dottorato in biologia, i libri e le conferenze. Il giovane aveva l’aspetto sano di chi vive all’aria aperta e modi carismatici che lo rendevano molto telegenico, oltre a una voce profonda e suadente. Nel suo accento echeggiavano abbastanza tracce dell’accademia militare di Sandhurst da attenuare le vocali piatte e poco melodiose della lingua coloniale. Suo padre, che era stato ufficiale di stato maggiore di un reggimento delle Guardie durante la Seconda guerra mondiale, aveva prestato servizio in Nordafrica agli ordini di Wavell e Montgomery. Dopo il conflitto si era trasferito in Rhodesia per coltivare il tabacco. Daniel era nato in Africa, ma era stato rimandato in patria per finire gli studi a Sandhurst prima di tornare in Rhodesia ed entrare nel National Parks Service.

    «L’avorio» disse fissando l’obiettivo. «Fin dai tempi dei faraoni è ritenuto una delle sostanze naturali più belle e preziose. La gloria dell’elefante africano… e la sua terribile maledizione.»

    Cominciò a muoversi tra le pile di zanne, affiancato da Johnny Nzou. «Da duemila anni l’uomo dà la caccia agli elefanti per impossessarsi di questo oro bianco e vivo, ma solo dieci anni fa c’erano ancora oltre due milioni di elefanti nel continente africano. La loro popolazione sembrava una risorsa rinnovabile, un patrimonio protetto, sfruttato e controllato. Poi qualcosa è andato tragicamente storto. Nell’ultimo decennio sono stati uccisi circa un milione di elefanti. È inconcepibile che sia stata permessa una cosa simile. Siamo qui per scoprire cosa sia accaduto e come si possa salvare l’elefante africano dall’estinzione.»

    Si girò verso Johnny. «Qui con me c’è John Nzou, direttore del Chiwewe National Park, uno dei nuovi conservazionisti africani. Per puro caso, in lingua shona il nome Nzou significa elefante. John Nzou è Mr Elefante, di nome e di fatto. Come direttore del Chiwewe, è responsabile di uno dei branchi di elefanti più numerosi e sani di tutta l’Africa. Ci dica, quante zanne ci sono in questo deposito?»

    «Attualmente, circa cinquecento… Quattrocentottantasei per essere precisi, con un peso medio di sette chili ciascuna.»

    «Sul mercato internazionale l’avorio vale trecento dollari al chilo» intervenne Daniel, «perciò qui abbiamo più di un milione di dollari. Da dove vengono tutte queste zanne?»

    «Be’, alcune sono state recuperate da elefanti trovati morti nel parco e altre sono state confiscate dai miei ranger ai bracconieri, ma la stragrande maggioranza deriva dalle operazioni di abbattimento selettivo che il mio dipartimento è costretto a eseguire.»

    Si fermarono in fondo al deposito, voltandosi verso la telecamera. «Più tardi parleremo del programma di abbattimento, direttore, ma prima può dirci qualcosa in più sul bracconaggio al Chiwewe? È molto diffuso?»

    «Sì, e aumenta ogni giorno.» Johnny scrollò il capo. «A mano a mano che gli elefanti del Kenya, della Tanzania e dello Zambia vengono sterminati, i bracconieri si concentrano sui nostri branchi più a sud. Lo Zambia è appena al di là dello Zambesi e i cacciatori di frodo che vengono da questa parte sono organizzati e armati meglio di noi. Sparano per uccidere… Non solo gli elefanti e i rinoceronti, ma anche le persone. E noi siamo costretti a fare lo stesso. Se ci imbattiamo in una banda di bracconieri, spariamo per primi.»

    «E tutto per queste…» Daniel posò la mano su un mucchio di zanne. Non ce n’erano due uguali: ognuna era unica. Alcune erano quasi dritte, lunghe e sottili come ferri da maglia, mentre altre si curvavano come archi tesi. Qualcuna aveva la punta aguzza come un giavellotto, altre erano tozze e smussate. C’erano esemplari dai toni perlati e altri dalle burrose sfumature alabastrine; altri ancora erano macchiati dalla linfa scura delle piante, erosi e consumati dal tempo.

    L’avorio proveniva perlopiù da femmine e cuccioli; certe zanne, tolte agli elefantini, non erano più lunghe dell’avambraccio di un uomo. Pochissime erano grandi, curve e maestose: il pesante avorio maturo dei vecchi maschi.

    Daniel ne accarezzò una con un’espressione triste che non puntava soltanto a far colpo sugli spettatori. Ancora una volta, sentì il peso della malinconia che l’aveva indotto a scrivere della distruzione e della morte della vecchia Africa e della sua fauna incantata.

    «Un animale saggio e magnifico è stato ridotto a questo.» Abbassò la voce. «Anche se è inevitabile, non possiamo ignorare la natura tragica dei cambiamenti che stanno investendo il continente. L’elefante africano incarna forse il destino di questa terra? L’elefante sta morendo. Sta morendo anche l’Africa?»

    La sua sincerità era assoluta e la telecamera la registrò fedelmente. Era la principale ragione dell’enorme interesse che i suoi programmi televisivi suscitavano in tutto il mondo.

    Riscuotendosi, si rivolse a Johnny Nzou. «Ci dica, direttore, l’elefante è condannato all’estinzione? Quanti di questi splendidi animali avete in Zimbabwe, e quanti si trovano al Chiwewe National Park?»

    «Si stima che nel paese ci siano cinquantaduemila elefanti, e per il Chiwewe i dati sono ancora più precisi. Solo tre mesi fa abbiamo effettuato un’ispezione aerea del parco, finanziata dall’International Union for the Conservation of Nature. L’intera area è stata fotografata e gli animali sono stati contati grazie alle foto ad alta risoluzione.»

    «Quanti?» chiese Daniel.

    «Diciottomila solo al Chiwewe.»

    «È una popolazione enorme, circa un terzo degli esemplari rimasti nel paese… Tutti in quest’area.» Daniel alzò un sopracciglio. «In questo predominante clima di tristezza e pessimismo, suppongo che per voi sia molto incoraggiante.»

    Johnny Nzou corrugò la fronte. «Al contrario, dottor Armstrong. Siamo molto preoccupati.»

    «Perché mai, direttore?»

    «È molto semplice. Non possiamo mantenere così tanti elefanti. Secondo i nostri calcoli, la popolazione ideale per lo Zimbabwe sarebbe trentamila esemplari. Un solo animale richiede fino a una tonnellata di materia vegetale al giorno e, per procurarsela, abbatte alberi secolari, persino quelli con tronchi dal diametro di oltre quattro piedi.»

    «Cosa accadrà se permetterete che questo enorme branco continui a prosperare e a riprodursi?»

    «In pochissimo tempo ridurranno il parco a una distesa polverosa e, quando succederà, la loro popolazione cesserà di esistere. Non rimarrà più nulla: né gli alberi, né il parco, né gli elefanti.»

    Daniel fece cenno di sì con la testa. Durante il montaggio, in quel punto avrebbe inserito alcune scene che aveva girato qualche anno prima all’Amboseli Park, in Kenya. Erano immagini inquietanti di devastazione, nuda terra rossa e alberi morti, senza corteccia né fogliame, che protendevano i rami spogli in un’angosciosa supplica verso il duro e azzurro cielo africano, mentre le carcasse disidratate dei grandi animali giacevano, come borse di cuoio dismesse, dove li avevano uccisi la carestia e i bracconieri.

    «Esiste una soluzione, direttore?» chiese Daniel.

    «Una soluzione drastica, temo.»

    «Sarebbe così gentile da mostrarcela?»

    Johnny Nzou si strinse nelle spalle. «Non sarà piacevole da vedere, ma… Sì, guardi pure.»

    * * *

    Daniel si svegliò venti minuti prima dello spuntare del sole. Gli anni passati lontano dall’Africa e le numerose albe cui aveva assistito nelle regioni settentrionali o tra i fluidi fusi orari dei viaggi aerei non avevano alterato l’usanza acquisita in quella valle. Naturalmente era un’abitudine che si era consolidata durante gli anni della terribile guerra civile in Rhodesia, quando era stato chiamato a prestare servizio nelle forze di sicurezza.

    Per Daniel, l’aurora era il momento più magico della giornata, specialmente in quella valle. Scivolò fuori dal sacco a pelo e prese gli stivali. Lui e i suoi uomini dormivano vestiti sulla terra riarsa, con le braci del fuoco al centro del gruppo. Non avevano costruito un boma di rami spinosi per proteggersi anche se di tanto in tanto, durante la notte, i leoni avevano bruito e ruggito lungo la scarpata.

    Si allacciò gli stivali e uscì dal cerchio di uomini addormentati. La rugiada che imperlava gli steli d’erba gli bagnò i pantaloni fino alle ginocchia mentre si avviava verso il promontorio roccioso in cima al dirupo. Si sedette sul ruvido granito grigio, stringendosi nella giacca a vento.

    L’alba arrivò rapida e furtiva, tingendo le nuvole sopra il grande fiume di tenui sfumature rosa e grigie. Sopra le acque verde scuro dello Zambesi, la nebbia fluttuava e palpitava come un ectoplasma spettrale e gli stormi d’anatre in volo si stagliavano scuri e nitidi sullo sfondo chiaro. Le formazioni erano precise e le ali battevano veloci come lame di coltello nella luce incerta.

    Un leone ruggì poco lontano, producendo raffiche di suono che si smorzarono in una serie di brontolii lamentosi. Daniel rabbrividì. Benché l’avesse udito innumerevoli volte, quel verso gli faceva sempre lo stesso effetto. Non c’era niente di simile al mondo. Per lui, quella era la vera voce dell’Africa.

    Avvistò il grosso felino più giù, sul bordo della palude. Con il ventre gonfio e la criniera scura, teneva bassa la testa massiccia, che dondolava al ritmo della sua camminata imperiosa. La bocca era socchiusa e le zanne brillavano dietro le labbra nere. Daniel lo guardò sparire tra i fitti arbusti lungo il fiume e sospirò felice.

    Poi udì un movimento dietro di sé. Fece per alzarsi, ma Johnny Nzou lo bloccò con una mano sulla spalla e si sedette al suo fianco.

    Johnny si accese una sigaretta. Daniel non era mai riuscito a dissuaderlo da quell’abitudine. Rimasero lì in un silenzio cordiale come avevano fatto molte volte in passato, ammirando l’alba fino al solenne momento in cui il sole ardente spuntò sopra la massa buia della foresta. La luce cambiò e il mondo diventò splendente e lucido come una ceramica preziosa appena uscita dal forno.

    Johnny ruppe il silenzio e l’incanto. «I cercatori di tracce sono arrivati al campo dieci minuti fa. Hanno trovato un branco.»

    Riscuotendosi, Daniel lo guardò. «Quanti?»

    «Una cinquantina.» Era un buon numero. Se fossero stati di più, non avrebbero potuto occuparsene, perché la carne e la pelle si putrefacevano rapidamente nel caldo della valle, e un numero inferiore non avrebbe giustificato l’impiego degli uomini e delle attrezzature costose.

    «Sei sicuro di volerlo filmare?» domandò Johnny.

    Daniel annuì. «Ci ho riflettuto a lungo. Provare a nasconderlo sarebbe disonesto.»

    «Le persone mangiano carne e comprano indumenti di cuoio, ma non vogliono vedere l’interno del macello.»

    «È un argomento complesso e delicato. La gente ha il diritto di sapere.»

    «Se me lo dicesse un altro, sospetterei che voglia fare del giornalismo scandalistico» mormorò Johnny.

    Daniel aggrottò le sopracciglia. «Probabilmente sei l’unico cui permetto di dire una cosa simile, perché sai che non è così.»

    «Sì, Danny, lo so. Odi tutto questo quanto lo odio io, eppure sei stato tu a insegnarmi che è indispensabile.»

    «Mettiamoci al lavoro» disse Daniel in tono brusco. Si alzarono e tornarono in silenzio verso i camion. C’era trambusto nel campo e il caffè bolliva sul fuoco. I ranger stavano arrotolando le coperte e i sacchi a pelo e controllando i fucili.

    Erano quattro, due neri e due bianchi, tutti al di sotto dei trent’anni. Indossavano le semplici uniformi cachi con le mostrine verdi del Parks Department e, pur maneggiando le armi con la competenza disinvolta dei veterani, chiacchieravano allegramente. Si comportavano come vecchi commilitoni sebbene a malapena avessero l’età per aver combattuto nella guerra civile, quasi sicuramente in schieramenti opposti. Daniel si meravigliava sempre che fosse rimasto così poco rancore.

    Jock stava già riprendendo. Spesso Daniel aveva l’impressione che la Sony fosse un prolungamento naturale del suo corpo, una specie di gobba.

    «Ti farò qualche domanda stupida e forse dovrò provocarti un po’» disse Daniel a Johnny. «Conosciamo già le risposte, ma dobbiamo far finta, okay?»

    «Fa’ pure.»

    Johnny veniva bene in TV. Daniel aveva esaminato le riprese la sera prima. Uno dei vantaggi delle moderne attrezzature video era la possibilità di rivedere immediatamente il materiale. Johnny assomigliava a Cassius Clay da giovane, prima che diventasse Mohammed Ali, ma con il viso più scarno e un’ossatura più esile e telegenica. L’espressione era mutevole e intensa, e il colore della pelle non così scuro da produrre un contrasto troppo marcato e rendere difficile la fotografia.

    Si accovacciarono accanto al fuoco e Jock si avvicinò con la telecamera.

    «Siamo accampati sulle rive dello Zambesi mentre spunta il sole e, poco lontano da qui, i suoi uomini hanno trovato un branco di cinquanta elefanti, direttore» esordì Daniel. «Mi ha spiegato che il Chiwewe non può mantenere un gran numero di esemplari e che solo quest’anno è necessario eliminarne almeno mille, non soltanto per il bene dell’ambiente, ma anche per la sopravvivenza degli altri branchi. Come intendete eliminarli?»

    «Dovremo abbatterli» rispose Johnny laconico.

    «Abbatterli? Significa ucciderli, giusto?»

    «Sì, io e i miei ranger gli spareremo.»

    «A tutti, direttore? Oggi ucciderete cinquanta elefanti?»

    «Li abbatteremo tutti.»

    «Anche i piccoli? E le femmine gravide? Non ne risparmierete nemmeno uno?»

    «È indispensabile eliminarli tutti» insistette Johnny.

    «Ma perché, direttore? Non potreste sedarli e trasferirli altrove?»

    «Il costo del trasporto di un elefante è vertiginoso. Un grosso maschio pesa sei tonnellate, una femmina media circa quattro. Guardi la valle.» Johnny indicò la scarpata, le kopje rocciose e la foresta selvaggia. «Occorrerebbero camion speciali e strade per il loro transito. E anche se fosse possibile, dove li porteremmo? Come le dicevo, in Zimbabwe abbiamo quasi ventimila elefanti di troppo. Dove dovremmo portarli? Semplicemente non c’è spazio.»

    «Dunque, a differenza di altri paesi più a nord come il Kenya e lo Zambia, dove hanno lasciato che i loro branchi venissero quasi sterminati dal bracconaggio e da una politica conservazionista poco accorta, vi trovate in un circolo vizioso. Avete gestito troppo bene i vostri branchi e ora dovete uccidere e sprecare questi magnifici animali.»

    «No, dottor Armstrong, non li sprecheremo. Recupereremo dalle carcasse molte cose di valore: l’avorio, le pelli e la carne, che verranno messi in vendita. I proventi saranno investiti in un progetto conservazionista, volto a contrastare il bracconaggio e a proteggere i parchi nazionali. La morte di questi animali non sarà un totale abominio.»

    «Ma perché uccidere le madri e i piccoli?»

    «Lei sta barando, dottore. Usa il linguaggio delle organizzazioni animaliste: le madri e i piccoli. Chiamiamoli piuttosto femmine e cuccioli e spieghiamo che una femmina mangia quanto un maschio e occupa altrettanto spazio, e che i cuccioli diventano adulti.»

    «Dunque ritiene che…» riprese Daniel ma, nonostante l’avvertimento di poco prima, Johnny si stava arrabbiando.

    «Un attimo. C’è dell’altro. Dobbiamo eliminare l’intero branco. È fondamentale non lasciare superstiti. Un branco di elefanti è un gruppo familiare complesso. Quasi tutti i membri sono imparentati, legati da un’evoluta struttura sociale. L’elefante è un animale intelligente, forse il più intelligente dopo i primati, sicuramente più del gatto, del cane e addirittura del delfino. Capiscono… insomma comprendono davvero…» Johnny fece una pausa, schiarendosi la gola. Si era lasciato sopraffare dai sentimenti e Daniel non l’aveva mai ammirato come in quell’istante.

    «La verità» proseguì Johnny con voce rauca, «è che se ne risparmiassimo qualcuno, diffonderebbe terrore e panico tra gli altri branchi del parco. E il comportamento sociale degli elefanti andrebbe rapidamente in tilt.»

    «Non crede di esagerare, direttore?»

    «No, è già successo. Dopo la guerra c’erano diecimila elefanti di troppo al Wankie National Park. All’epoca sapevamo pochissimo delle tecniche e degli effetti delle massicce operazioni di abbattimento selettivo. Abbiamo imparato molto presto. I primi tentativi hanno rischiato di distruggere la struttura sociale dei branchi. Sparando agli esemplari più vecchi, abbiamo distrutto il loro patrimonio di esperienze e di conoscenze. Abbiamo interferito con gli schemi migratori, con la gerarchia e la disciplina nei branchi, persino con le abitudini riproduttive. Come se avessero intuito che la strage era imminente, i maschi hanno iniziato a coprire le femmine appena mature prima che fossero pronte. Come la donna, l’elefantessa è matura per la riproduzione a quindici o sedici anni, come minimo. Sotto il tremendo stress dell’abbattimento selettivo, i maschi del Wankie hanno cercato le femmine di soli dieci o undici anni e i piccoli nati da quegli accoppiamenti erano deboli creaturine.» Johnny scosse la testa. «No, dobbiamo uccidere l’intero branco tutto insieme.»

    Alzò lo sguardo al cielo. Entrambi avevano udito un ronzio lontano dietro le nuvole.

    «Ecco il ricognitore.» Johnny prese il microfono della radio.

    «Buongiorno, Sierra Mike. Ti vediamo circa quattro miglia a sud della nostra posizione. Ti mando un segnale con fumo giallo.»

    Fece un cenno a un ranger, che strappò la sicura di una granata fumogena. Una nube color zolfo salì oltre le sommità degli alberi.

    «Roger, Parco. Ho visto il fumo. Datemi indicazioni sul bersaglio, per favore.»

    Johnny parve contrariato dalla parola bersaglio e, rispondendo, mise l’accento sul vocabolo alternativo: «Ieri, al tramonto, il branco si stava spostando a nord verso il fiume, cinque miglia a sudest dalla nostra posizione. Sono più di cinquanta esemplari».

    «Grazie, Parco. Richiamerò quando li avremo individuati.»

    Guardarono l’aereo virare verso est. Era un vecchio monomotore Cessna, probabilmente utilizzato come K-car, o killer car, durante la guerra civile.

    Di lì a un quarto d’ora, la radio crepitò di nuovo.

    «Pronto, Parco. Ho avvistato il branco. Più di cinquanta esemplari, a otto miglia dalla vostra attuale posizione.»

    * * *

    Il branco era sparpagliato sulle sponde di un fiume in secca, che si insinuava attraverso una linea bassa di colline silicee. In quel punto, la foresta era più verde e rigogliosa, perché le radici attingevano dall’acqua sotterranea. Le acacie erano cariche di baccelli che, simili a lunghe gallette marroni, crescevano alle estremità dei rami, a sessanta piedi dal suolo.

    Due femmine si avvicinarono a un albero. Erano le matriarche del branco, entrambe sulla settantina, sparute, con le orecchie smozzicate e gli occhi cisposi. Il loro legame durava da più di mezzo secolo, erano sorelle da parte di madre. La più vecchia era stata svezzata quando era nata la più giovane, e l’aveva accudita con lo stesso affetto che, tra gli esseri umani, avrebbe dimostrato una sorella maggiore. Avevano vissuto insieme e dalla vita avevano acquisito un bagaglio di esperienze e conoscenze che si era aggiunto al profondo istinto ancestrale ereditato alla nascita.

    Si erano aiutate a vicenda durante le siccità, le carestie e le malattie, condividendo le gioie delle piogge e del cibo abbondante. Conoscevano i nascondigli segreti sulle montagne e le pozze d’acqua nelle aree desertiche. Sapevano dove erano in agguato i cacciatori e dove si trovavano i confini dei rifugi in cui loro e il resto del branco erano al sicuro. Ciascuna aveva fatto da levatrice all’altra, lasciando il branco insieme quando una era stata sul punto di partorire e l’altra aveva alleviato con la sua presenza le strazianti sofferenze del parto. Avevano strappato l’una la placenta dal cucciolo dell’altra, aiutandosi a istruire, disciplinare e allevare i piccoli fino alla maturità.

    Ormai non erano più fertili, ma la sicurezza del branco era ancora il loro compito principale. La loro soddisfazione e responsabilità erano le femmine più giovani e i cuccioli che avrebbero portato avanti la discendenza.

    Forse era sciocco attribuire agli animali sentimenti umani come l’amore o il rispetto, credere che capissero i legami di sangue o la continuità della stirpe ma, vedendo le vecchie femmine zittire i giovani troppo vivaci con un’alzata di orecchie e un barrito rabbioso, e osservando il branco seguire il loro esempio con assoluta obbedienza, non si poteva dubitare della loro autorità. Se poi le si vedeva accarezzare dolcemente i piccoli con la proboscide o sollevarli nei tratti più ripidi, non si poteva mettere in dubbio la loro premura. Quando c’era un pericolo in vista, spingevano indietro i cuccioli e correvano avanti con le orecchie allargate e le proboscidi arrotolate, pronte a scagliarsi contro il nemico e a travolgerlo.

    I grossi maschi dalla statura torreggiante e dalle dimensioni massicce erano più grandi di loro, ma non le superavano per scaltrezza e ferocia. Le loro zanne erano più lunghe e spesse, e talvolta pesavano più di cento libbre. Le due femmine avevano zanne sottili e deformi, consumate, incrinate e ingiallite dal tempo, le ossa che spuntavano sotto la pelle grigia e sfregiata, ma il loro senso del dovere verso il branco era granitico.

    I maschi avevano con il branco un rapporto piuttosto elastico. Quando invecchiavano, non di rado preferivano allontanarsi per formare gruppetti di due o tre scapoli, in cerca di femmine solo se attratti dall’odore inebriante dell’estro. Le vecchie femmine, invece, restavano con il branco, costituendo le solide fondamenta su cui si basava la struttura sociale. La comunità compatta delle femmine e dei piccoli contava molto sulla loro esperienza e saggezza per la soddisfazione dei bisogni quotidiani e la sopravvivenza.

    Le due sorelle si avvicinarono in perfetta sintonia alla gigantesca acacia carica di baccelli, posizionandosi ai lati del tronco e appoggiando la fronte alla corteccia ruvida. Il tronco, con i suoi quattro piedi abbondanti di diametro, era solido come una colonna di marmo. A cento piedi dal suolo, i rami formavano un disegno elaborato, e i baccelli e le fronde verdi assomigliavano alla cupola di una cattedrale stagliata contro il cielo.

    Le due femmine cominciarono a dondolare avanti e indietro all’unisono, tenendo il tronco tra le fronti. All’inizio l’acacia rimase rigida, resistendo alla forza immane. Le elefantesse, però, non si diedero per vinte, continuando a spingere in direzioni opposte con tutto il loro peso. Alla fine l’albero tremò e i rami più alti vibrarono come mossi dalla brezza.

    Le elefantesse insistettero e il tronco iniziò a cedere. Un baccello maturo si staccò da un ramo e si spaccò sulla testa di una delle due, che chiuse gli occhi acquosi ma non si fermò. Il tronco oscillò e tremò, prima lento, poi più rapido.

    Cadde un altro baccello e poi un altro ancora, come le prime gocce di un temporale.

    Intuendo cosa stavano facendo le elefantesse, gli esemplari più giovani agitarono le orecchie e si avvicinarono senza esitazione. I baccelli, ricchi di proteine, erano una delle loro leccornie preferite. Gli animali si affollarono intorno alle due femmine, raccogliendo i frutti e cacciandoseli in gola con le proboscidi. Ormai il grande albero dondolava avanti e indietro, con i rami e le foglie che ondeggiavano all’impazzata. Baccelli e rametti piovevano sul terreno, rimbalzando sui dorsi degli elefanti riuniti lì sotto.

    Le femmine, incrollabili come due pilastri, insistettero finché la pioggia di baccelli iniziò a diradarsi, spostandosi solo quando fu caduto l’ultimo. Avevano le schiene cosparse di ramoscelli e foglie morte, frammenti di corteccia e baccelli vellutati, e le zampe sprofondate nei detriti. Abbassando le abili punte carnose delle proboscidi, raccolsero delicatamente i semi dorati, portandoli verso le bocche spalancate con le labbra inferiori triangolari. Quindi iniziarono a mangiare mentre il secreto delle ghiandole facciali inumidiva loro le guance, simile a lacrime di felicità.

    Il branco si affollò intorno per partecipare al banchetto. Le lunghe proboscidi serpentine dondolavano e si arricciavano, i frutti sparivano nelle gole e si udiva un suono sommesso che pareva riverberare in ciascuno dei grandi corpi grigi. Era un basso mormorio dai molteplici toni, intervallato da minuscoli squittii striduli e gorgoglianti, appena percepibile dall’orecchio umano. Era un coro stranamente soddisfatto, cui contribuivano anche gli esemplari più giovani, un suono che esprimeva gioia di vivere e confermava il profondo legame tra i membri del branco.

    Era il canto dell’elefante.

    La prima a fiutare il pericolo fu una delle vecchie femmine. Segnalò la sua preoccupazione con un verso altissimo, ben al di sopra della sensibilità umana, e il branco si immobilizzò di colpo, in silenzio. Anche i piccoli reagirono immediatamente. Quella quiete dopo l’allegro frastuono del banchetto era inquietante e, per contrasto, il ronzio dell’aereo lontano pareva ancora più forte.

    Le due femmine riconobbero il rumore del Cessna. L’avevano sentito molte volte negli ultimi anni e avevano finito per associarlo ai periodi di più intensa attività dell’uomo, di tensione e di terrore inspiegabile che gli altri branchi del parco trasmettevano telepaticamente.

    Sapevano che quel suono nell’aria era il preludio a un crepitio di spari distanti e al puzzo del sangue d’elefante portato dalle correnti d’aria calda lungo il bordo della scarpata. Spesso, dopo che il rombo del velivolo e gli spari erano cessati, avevano trovato vaste aree della foresta con il terreno incrostato di sangue secco, e percepito l’odore della paura, della sofferenza e della morte esalato dai loro simili, mescolato al tanfo del sangue e delle viscere putrefatte.

    Una delle due indietreggiò, scuotendo rabbiosamente la testa in direzione del cielo. Le orecchie sdrucite batterono con forza contro le spalle, producendo un suono simile al garrito della vela maestra che si gonfia di vento. Quindi girò su se stessa e si mise a correre in testa al branco.

    Nel gruppo c’erano due maschi adulti ma, al primo segno di minaccia, si allontanarono e sparirono nella foresta. Si erano resi conto istintivamente che il branco era vulnerabile e avevano cercato la salvezza in una fuga solitaria. Le femmine più giovani e i cuccioli si stiparono dietro le matriarche. I piccoli correvano per tener dietro alle madri e, in circostanze diverse, la loro andatura frettolosa sarebbe sembrata comica.

    «Pronto, Parco. Il branco è in fuga verso sud, in direzione del passo di Imbelezi.»

    «Ricevuto, Sierra Mike. Per favore, spingili verso l’uscita dei Mana Pools.»

    La matriarca guidava il branco verso le colline. Voleva abbandonare il fondovalle per addentrarsi nella zona accidentata dove l’inseguimento sarebbe stato più complicato a causa delle rocce e dei pendii scoscesi, ma l’aereo le ronzava davanti, rendendo inaccessibile l’imboccatura del passo.

    Si fermò, indecisa, e alzò la testa verso il cielo, dove gli alti ammassi di nuvole argentee arrivavano fino allo zenit. Allargò le orecchie, consumate e lacerate dalle intemperie e dai rovi, e ruotò la testa per seguire quel suono spaventoso.

    Poi vide il Cessna. I primi raggi del sole lampeggiarono sul parabrezza quando l’aereo virò e scese in picchiata, basso sopra le cime degli alberi, mentre il rumore del motore si trasformava in un ruggito.

    Le due femmine si voltarono simultaneamente e tornarono indietro, verso il fiume. Il branco si girò come una caotica formazione di cavalleria e si rimise a correre, sollevando la polvere in una nuvola pallida, ancora più alta delle sommità degli alberi.

    «Parco, il branco viene verso di voi. A circa cinque miglia dall’uscita.»

    «Grazie, Sierra Mike. Continua a spingerlo lentamente verso di noi. Non farlo correre troppo.»

    «D’accordo, Parco.»

    «A tutte le unità K.» Johnny Nzou cambiò l’indicativo di chiamata. «A tutte le unità K, convergere verso l’uscita dei Mana Pools.»

    Le unità K, o squadre killer, erano costituite dalle quattro Land Rover schierate lungo la pista principale che scendeva dal quartier generale del Chiwewe verso la scarpata e il fiume. Johnny le aveva fatte disporre in fila perché, all’occorrenza, dirottassero il branco, ma pareva che non fosse necessario. Con efficienza professionale, il Cessna stava spingendo da solo gli animali in posizione.

    «A quanto pare, ce la faremo al primo tentativo.» Johnny invertì la direzione della Land Rover, girandola di centottanta gradi e lanciandola lungo la pista. Una fascia erbosa cresceva tra i solchi lasciati dalle ruote e il fuoristrada sobbalzava sul terreno irregolare. Il vento soffiava sulle loro teste e Daniel si tolse il berretto e lo infilò in tasca.

    Jock stava riprendendo la scena quando una mandria di bufali, disturbata dal rombo della Land Rover, uscì dalla foresta e attraversò la pista davanti a loro.

    «Per la miseria!» Johnny frenò e controllò l’orologio. «Quegli stupidi nyati manderanno tutto a monte.»

    Centinaia di scure sagome bovine avanzarono in una falange compatta, galoppando, alzando la polvere bianca, grugnendo e muggendo, spargendo liquido letame verde sull’erba schiacciata.

    Trascorsero pochi minuti, e Johnny accelerò tra la nuvola di sabbia e la terra smossa dagli zoccoli fessi dei bufali. Oltre una curva della pista, scorse gli altri veicoli parcheggiati all’incrocio. I quattro ranger formavano un gruppetto lì accanto, con i fucili in mano e le teste girate in attesa.

    Johnny fermò la Land Rover e prese il microfono della radio. «Sierra Mike, dammi la posizione, per favore.»

    «Parco, il branco è a due miglia da voi e si sta avvicinando al Long Vlei.»

    Un vlei è una conca nella prateria, e il Long Vlei correva parallelo al fiume per miglia. Nella stagione delle piogge diventava un acquitrino, ma ora era il luogo ideale per il massacro. Era già stato utilizzato più volte per quello scopo.

    Johnny saltò giù e dal sedile del guidatore prese il fucile dalla rastrelliera. Lui e i suoi ranger erano muniti di economici .375 Magnum prodotti in serie, caricati con munizioni robuste per garantire la massima penetrazione nelle ossa e nei tessuti. I suoi uomini erano stati selezionati per quel compito perché erano eccellenti tiratori. La strage doveva essere il più rapida e compassionevole possibile. Nonostante la maggiore difficoltà, avrebbero mirato al cervello anziché al corpo.

    «Andiamo!» ordinò Johnny. Non occorreva dare istruzioni. Erano tutti giovani professionisti coriacei ma, benché avessero fatto quel lavoro molte volte, erano scuri in viso e senza entusiasmo né smania negli occhi. Non era un divertimento, chiaramente l’idea del sanguinoso compito che dovevano svolgere non li allettava.

    Portavano soltanto pantaloncini e velskoen senza calze, leggeri indumenti da corsa. Le uniche cose pesanti erano le armi e le bandoliere intorno alla vita. Erano tutti magri e nerboruti, e Johnny Nzou era temprato quanto loro. Corsero incontro al branco.

    Daniel seguì Johnny Nzou. Si era illuso di essersi tenuto in forma con il jogging e gli allenamenti, ma aveva dimenticato cosa voleva dire essere nelle condizioni ideali per la caccia e il combattimento, come lo erano Johnny e i suoi ranger.

    Sfrecciavano come segugi, attraversando la foresta quasi senza sforzo, con i piedi che sembravano trovare da soli la strada tra arbusti, rocce, rami caduti e tane di oritteropi. Davano l’impressione di non toccare neppure il terreno. In passato, anche Daniel aveva corso così, ma ora i suoi stivali percuotevano pesantemente il suolo. Incespicò un paio di volte e iniziò a rimanere indietro con il cameraman.

    Johnny Nzou fece un segnale con la mano e i ranger formarono una lunga linea, disponendosi a cinquanta iarde l’uno dall’altro. Più avanti, la foresta cedette improvvisamente il posto alla radura del Long Vlei. Era ampia trecento iarde, con la secca erba beige alta fino alla cintura.

    Lo schieramento di killer si fermò sul confine della foresta. Tutti si voltarono verso Johnny, che era al centro, ma lui si era girato a guardare l’aereo lontano, sopra la foresta. Stava eseguendo una brusca virata, mettendosi quasi verticale su un’ala.

    Daniel e Jock li raggiunsero, ansimando benché avessero corso meno di un miglio. Daniel provò una punta di invidia nei confronti dell’amico.

    «Eccoli» sussurrò Johnny. «Si vede la polvere.» Sembrava un velo di foschia sopra le cime degli alberi tra loro e l’aereo che volava in tondo. «Si avvicinano rapidi.»

    Johnny ruotò il braccio destro e, a quel comando, la linea si allungò disponendosi in una forma concava come le corna di un bufalo, con il direttore al centro. A un nuovo segnale, gli uomini avanzarono veloci nella radura.

    La brezza leggera sfiorava i loro visi. Il branco non li avrebbe fiutati. Anche se all’inizio gli elefanti erano fuggiti controvento per evitare il pericolo, il Cessna li aveva costretti a cambiare direzione.

    Gli elefanti non hanno la vista acuta. Avrebbero distinto gli uomini solo quando fosse stato troppo tardi. La trappola era pronta a scattare e il branco stava per finirvi dentro, sospinto dall’aereo che volava a bassa quota.

    Le due matriarche sbucarono dagli alberi correndo. Le zampe ossute si muovevano svelte, le orecchie erano appiattite all’indietro, le grinze della pelle grigia tremolavano e oscillavano a ogni passo. Il resto del gruppo si snodava dietro di loro. I piccoli cominciavano a essere stanchi e le madri li sospingevano con le proboscidi.

    La fila di carnefici era immobile, disposta a semicerchio come la bocca di una rete allargata per catturare un banco di pesci. Gli elefanti avrebbero rilevato il movimento meglio di quanto i loro occhi, deboli e terrorizzati, fossero in grado di riconoscere le ombre sfocate degli uomini.

    «Colpite per prime le due nonne» ordinò Johnny. Aveva riconosciuto le matriarche e sapeva che, una volta eliminate, il branco sarebbe precipitato nel caos. L’ordine fu trasmesso lungo la fila.

    La prima femmina si avventò su Johnny Nzou e lui, stringendosi il fucile al petto, lasciò che il gruppo continuasse ad avvicinarsi. A una distanza di cento iarde, le due elefantesse iniziarono a deviare verso sinistra. Fu solo allora che Johnny si mosse.

    Alzando il fucile, lo agitò sopra la testa e gridò in sindebele: «Nanzi Inkosikaze… Sono qui, venerabile signora».

    Finalmente le due elefantesse capirono che non era un tronco d’albero, bensì un nemico mortale, e lo caricarono, concentrando su di lui tutto l’odio ancestrale, il terrore e la preoccupazione per il destino del branco. Allungarono il passo, lanciando barriti furiosi, mentre la polvere si sollevava sotto le zampe colossali. Le orecchie erano piegate all’indietro in segno di collera. Torreggiavano sul gruppo di minuscole figure umane. Daniel rimpianse di non aver preso un’arma. Aveva dimenticato quanto fosse terrificante quel momento, con la femmina più vicina che, a sole cinquanta iarde, avanzava a quaranta miglia orarie.

    Jock continuò a riprendere la scena anche se ormai alle proteste furibonde delle due femmine facevano eco quelle dell’intero branco. Gli elefanti si scagliarono verso gli uomini come una valanga di granito grigio, come se una rupe fosse stata fatta saltare in aria con un esplosivo potentissimo.

    Quando la distanza si ridusse a trenta iarde, Johnny Nzou si appoggiò il fucile alla spalla e si piegò per assorbire il rinculo. La canna d’acciaio azzurrognolo non aveva un mirino telescopico. Per quel tipo di lavoro a distanza ravvicinata, il direttore preferiva un mirino aperto a tiro rapido.

    Da quando era stato introdotto nel 1912, migliaia di cacciatori amatoriali e professionisti avevano confermato che il .375 Holland & Holland era il fucile più versatile ed efficiente mai utilizzato in Africa. Possedeva tutti i vantaggi della precisione e del rinculo moderato, mentre il massiccio proiettile da trecento grani era un miracolo della balistica, dotato di traiettoria tesa e penetrazione straordinaria.

    Johnny mirò alla testa della prima femmina, alla piega della proboscide tra gli occhi miopi. La detonazione echeggiò, secca come lo schiocco di una frusta, e uno sbuffo di polvere si sollevò dalla pelle rugosa in quel punto esatto del cranio.

    La pallottola affondò con la facilità di un chiodo d’acciaio conficcato in una mela matura e distrusse la metà superiore del cervello. L’elefantessa piegò le zampe anteriori e Daniel sentì il terreno tremare sotto i piedi quando l’animale si accasciò in un vortice di polvere.

    Johnny scattò per mirare alla seconda femmina non appena fosse stata vicina al corpo della sorella. Ricaricò senza staccare il calcio del fucile dalla spalla, limitandosi ad azionare l’otturatore. Il bossolo d’ottone disegnò un’alta parabola sfavillante e Johnny sparò di nuovo. Le due esplosioni si sovrapposero; erano partite in una sequenza così rapida da ingannare l’orecchio e sembrare un unico colpo prolungato.

    Ancora una volta, il proiettile andò esattamente a segno e la seconda femmina morì all’istante, come la prima. Le zampe cedettero, si afflosciò rovesciandosi sul fianco, con la spalla che toccava quella della sorella. Dai minuscoli fori al centro delle due fronti zampillarono rossi fiotti di sangue.

    Il branco precipitò nel caos. Gli elefanti si muovevano in tondo, calpestando l’erba e sollevando una cortina di polvere così fitta da nascondere la scena. Le loro sagome apparivano eteree e indistinte. I piccoli cercavano riparo sotto il ventre delle madri, con le orecchie appiattite contro il cranio, e venivano urtati e sballottati qua e là dai movimenti e dai calci spasmodici delle femmine.

    I ranger si avvicinarono sparando senza tregua. Il crepitio dei fucili era incessante come il picchiettio della grandine su un tetto di lamiera. Miravano al cervello. A ogni detonazione, un esemplare sussultava o alzava la testa mentre i proiettili gli trapassavano il cranio con il suono di una palla da golf colpita con precisione. E a ogni sparo uno di loro crollava, morto o stordito. Quelli che morivano sul colpo – ed erano la maggior parte – crollavano sulle zampe posteriori, piombando al suolo come sacchi di mais. Quando la pallottola mancava di poco il cervello, l’elefante vacillava e si accasciava scalciando, rotolandosi sul fianco con un terribile gemito disperato, allungando impotente la proboscide verso il cielo.

    Un cucciolo era imprigionato sotto il cadavere della madre e urlava, con la schiena spezzata, in preda al dolore e al panico. Alcuni esemplari, ritrovandosi bloccati da uno sbarramento di compagni caduti, si impennarono e tentarono di scavalcarli. I tiratori li abbatterono, facendoli crollare sugli elefanti già morti, mentre altri ancora provavano a superare gli ostacoli e venivano abbattuti a loro volta.

    Finì in fretta. Nel giro di pochi minuti, gli adulti giacevano gli uni accanto agli altri oppure erano accatastati in mucchi sanguinolenti. Solo i cuccioli correvano ancora in tondo, frastornati, inciampando nei morti e nei moribondi, barrendo e strattonando i cadaveri delle madri.

    I tiratori si avvicinarono piano, formando un cerchio di fucili sempre più stretto intorno al branco sterminato. Sparavano e ricaricavano, facendo di nuovo fuoco mentre procedevano. Uccisero i piccoli e, quando non rimase più in piedi un solo elefante, avanzarono rapidi, muovendosi tra i corpi giganteschi e fermandosi solo per sparare un ultimo colpo a ciascuna delle enormi teste sanguinanti. Nella maggior parte dei casi, non c’erano reazioni al secondo colpo, ma di tanto in tanto un pachiderma ancora vivo sussultava raddrizzando le zampe e battendo le palpebre prima di afflosciarsi senza vita.

    Sei minuti dopo il primo sparo, il silenzio scese sul Long Vlei, ma nelle orecchie degli uomini echeggiava ancora l’atroce ricordo delle detonazioni. I pachidermi non si muovevano più, immobili come frumento dietro le lame della falciatrice, la terra arida che ne assorbiva il sangue. I ranger, sopraffatti e scossi, erano ancora lontani l’uno dall’altro e guardavano la montagna di carcasse con occhi pieni di rimorso. Cinquanta animali, duecento tonnellate di carneficina.

    Spezzando il tragico incantesimo che li aveva paralizzati, Johnny Nzou si avvicinò lentamente alle due matriarche. Erano stese fianco a fianco, con le spalle che si toccavano e le zampe piegate, in ginocchio come se fossero ancora vive. Soltanto i fiotti di sangue che zampillavano dalle loro fronti infrangevano l’illusione.

    Johnny puntò a terra il calcio del fucile e vi si appoggiò, osservando mestamente le due elefantesse per un lungo istante. Non si era accorto che Jock lo stava filmando. Le sue azioni e le sue parole erano spontanee.

    «Hamba gahle, Amakhulu» sussurrò. «Andate in pace, vecchie nonne. Siete unite nella morte come lo eravate in vita. Andate in pace e perdonateci.»

    Si incamminò verso il bordo degli alberi. Daniel non lo seguì, immaginando che volesse restare solo per un po’. Anche gli altri ranger si evitavano. Non si scambiavano battute, né complimenti. Due di loro si aggiravano tra le gigantesche carcasse con un’aria stranamente sconsolata. Un terzo si accovacciò nel punto in cui aveva sparato l’ultimo colpo, fumando una sigaretta e studiando il terreno polveroso, mentre un suo collega aveva posato il fucile e, con le mani in tasca e le spalle curve, scrutava il cielo dove si stavano radunando gli avvoltoi.

    All’inizio i rapaci erano puntini minuscoli contro gli addensamenti abbaglianti delle nuvole, granelli di pepe sparpagliati su una tovaglia. Poi si avvicinarono, formando ordinate squadriglie volteggianti e proiettando le loro ombre sui cadaveri ammucchiati al centro del Long Vlei.

    Dopo quaranta minuti, Daniel udì il rombo dei camion e li vide avanzare piano nella foresta. Una squadra di uomini seminudi, muniti di asce, precedeva il convoglio. Aveva l’incarico di sfoltire gli arbusti del bush per aprire un passaggio. Johnny si alzò con espressione sollevata e assunse il controllo della macellazione.

    Gli elefanti furono distanziati tra loro con argani e catene. Poi la pelle venne tagliata lungo i ventri e le colonne vertebrali. Gli argani elettrici rientrarono in funzione e, quando il tessuto sottocutaneo cedeva, la pelle si staccava dai corpi con un crepitio, in lunghe strisce grigie e rugose all’esterno, d’un bianco lucido all’interno. Gli uomini le adagiavano sul terreno a una a una, coprendole di sale grosso.

    Le carcasse nude apparivano stranamente oscene nella luce abbagliante del sole, umide e venate di grasso bianco e di muscoli scarlatti. Gli addomi gonfi invitavano i coltelli a squarciarli.

    Uno scuoiatore piantò la punta ricurva della lama nel ventre di una delle matriarche, nel punto in cui si innestava lo sterno. Misurò accuratamente la profondità del taglio per non trafiggere gli intestini e proseguì camminando lungo il cadavere, tirandosi dietro la lama come una cerniera, finché aprì l’addome e lo stomaco fece capolino, scintillante come la seta di un paracadute. Poi le enormi spire delle viscere si riversarono all’esterno, quasi fossero dotate di vita propria. Simili a un pitone risvegliato, si attorcigliarono e si snodarono sotto il loro stesso peso.

    Gli uomini armati di seghe portatili si misero al lavoro. Il frastuono dei motori a due tempi suonava quasi sacrilego in quel luogo di morte, e nell’aria salivano sbuffi di fumo azzurrino. Staccarono le zampe dalle carcasse, in un turbine di frammenti d’osso e di carne che schizzava via dai denti d’acciaio. Quindi si concentrarono sulle spine dorsali e le costole, riducendo i corpi in pezzi che poi furono caricati con gli argani sui camion frigo.

    Una squadra speciale passava da un capo all’altro con lunghi arpioni, frugando tra le viscere molli per estrarre gli uteri delle femmine. Daniel li vide aprirne uno, viola scuro e irrorato da una fitta rete di vasi sanguigni. Dalla placenta, con un fiotto di liquido amniotico, scivolò fuori un feto grosso come un cane, che finì sull’erba calpestata.

    Era un elefantino perfetto, a poche settimane dal termine, coperto da un pelo rossastro che sarebbe sparito poco dopo la nascita. Ancora vivo, muoveva debolmente la proboscide.

    «Uccidetelo» ordinò bruscamente Daniel in sindebele. Era improbabile che l’animale soffrisse, ma Daniel si girò sollevato quando un uomo gli staccò la testa con un colpo di panga. Era disgustato, ma sapeva che nulla poteva andare sprecato. La pelle dell’elefantino, sottile e preziosa, valeva qualche centinaio di dollari e sarebbe servita a produrre una borsetta o una ventiquattr’ore.

    Per distrarsi attraversò il vlei. Ormai rimanevano soltanto le grosse teste e i mucchi di intestini luccicanti. Dalle viscere non si ricavava niente di utile, perciò le avrebbero lasciate a iene, avvoltoi e sciacalli.

    Le zanne, ancora incastonate nei loro castelli d’osso, erano il frutto più prezioso degli abbattimenti selettivi. In passato, i bracconieri e i cacciatori d’avorio non avrebbero rischiato di danneggiarle con un incauto colpo d’ascia, lasciandole nel cranio finché gli involucri cartilaginosi che le trattenevano fossero imputriditi, allentando la loro morsa. Di lì a quattro o cinque giorni sarebbe stato possibile staccare le zanne, perfette e intatte. Ma non c’era tempo da perdere. Occorreva tagliarle a mano.

    Gli scuoiatori addetti a quell’incarico erano gli uomini più esperti, di solito anziani, con i capelli grigi e lanosi e i perizomi macchiati di sangue. Si accovacciavano accanto alle teste e picchiettavano pazientemente con le asce indigene.

    Daniele e Johnny Nzou li osservavano e Jock li inquadrò con la Sony mentre Daniel commentava: «Un’impresa cruenta».

    «Ma necessaria» ribatté Johnny laconicamente. «Tra avorio, pelle e carne, un elefante adulto rende in media tremila dollari.»

    «Molti lo giudicheranno un ragionamento venale, soprattutto dopo aver visto la dura realtà dell’abbattimento selettivo.» Daniel scrollò il capo. «Come saprà, è in corso una campagna molto decisa, guidata dai gruppi animalisti, perché gli elefanti vengano inseriti nell’appendice 1 della CITES, la Convention on International Trade in Endangered Species.»

    «Sì, lo so.»

    «Se accadrà, sarà proibito il commercio di qualunque prodotto ricavato dagli elefanti, sia esso la pelle, l’avorio o la carne. Cosa ne pensa, direttore?»

    «Mi manda su tutte le furie.» Johnny gettò a terra la sigaretta e la schiacciò con espressione feroce.

    «Impedirebbe ulteriori abbattimenti, no?»

    «Niente affatto. Saremmo ugualmente costretti a monitorare le dimensioni dei branchi e ad abbatterli. L’unica differenza sarebbe il divieto di vendere i prodotti. Equivarrebbe a uno spreco tragico e criminale. Perderemmo milioni di dollari di entrate, che attualmente vengono usati per proteggere, ampliare e gestire le riserve per gli animali selvatici…» Johnny guardò due scuoiatori che estraevano una zanna da un cranio spugnoso e la posavano con delicatezza sull’arida erba marrone. Uno di loro estrasse con gesto abile il morbido nervo grigio e gelatinoso dall’estremità cava. «Quella zanna ci consente di giustificare l’esistenza dei parchi e della loro fauna agli occhi delle tribù locali, che vivono a stretto contatto con gli animali selvatici, lungo i confini delle riserve nazionali».

    «Non capisco» lo esortò Daniel. «Sta dicendo che le tribù locali provano risentimento verso i parchi e la popolazione animale?»

    «No, se possono ricavarne un profitto personale. Se dimostriamo loro che una femmina di elefante vale tremila dollari e che un cacciatore straniero è disposto a spenderne fino a cinquanta o centomila per abbattere un maschio da trofeo, se dimostriamo loro che un solo elefante vale cento o mille delle loro capre o dei loro buoi e che intascheranno una parte di quel denaro, capiranno perché vale la pena di conservare i branchi.»

    «Intende che i contadini locali non attribuiscono alcun valore alla fauna selvatica di per sé?»

    Johnny scoppiò in una risata amara. «Quello è un lusso e un vezzo del Primo mondo, non del Terzo. Qui le tribù vivono molto vicino al livello di sussistenza. Una famiglia media ha un reddito di centoventi dollari l’anno, cioè dieci al mese. Non possono permettersi di riservare i campi e i pascoli a un animale splendido ma inutile. Se la fauna selvatica vuole sopravvivere in Africa, deve pagarsi il vitto. In questa terra crudele niente è gratuito.»

    «Ma sarebbe ragionevole pensare che, vivendo a così stretto contatto con la natura, abbiano un’affinità istintiva nei suoi confronti, una sensibilità particolare.»

    «Sì, certo, ma in modo del tutto pragmatico. Per millenni l’uomo primitivo ha trattato la natura come una risorsa rinnovabile. Gli eschimesi campavano

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