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Boemondo D'Altavilla principe dell'amore
Boemondo D'Altavilla principe dell'amore
Boemondo D'Altavilla principe dell'amore
E-book182 pagine2 ore

Boemondo D'Altavilla principe dell'amore

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Info su questo ebook

Il biondo normanno, figlio di Roberto il Guiscardo, perde l’eredità del ducato di Puglia e Calabria lasciata dal padre al secondogenito Ruggero Borsa, avuto in seconde nozze.
Convinto dal Guiscardo a combattere contro l’impero bizantino, parte alla volta di Costantinopoli. Ma la morte improvvisa del duca lo riporta in Puglia.
Inizia una lunga lotta con il fratellastro per conquistare il titolo e le terre.
Un incontro casuale gli fa conoscere l’amore. Ma le vicende personali si complicano con quelle politiche. Il papa bandisce la prima crociata e Boemondo, amante dell’avventura, parte alla conquista della Terra Santa.
Deve vedersela con un nemico potente come l’imperatore bizantino, poi con i musulmani.
Infine, conquistata Antiochia, comprende che è più importante essere principe dell’amore.
LinguaItaliano
EditorePubMe
Data di uscita29 gen 2021
ISBN9788833667768
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    Anteprima del libro

    Boemondo D'Altavilla principe dell'amore - Francesca Rapone

    indimenticabile.

    CAPITOLO I

    Le urla dei due uomini al di là della porta chiusa e sorvegliata da guardie armate si udivano con chiarezza e gettavano quelli che trovavano nei paraggi in grande agitazione.

    Roberto il Guiscardo, duca di Puglia e di Calabria, un conquistatore normanno, alto e forte, determinato nelle scelte, violento con chiunque si opponesse al suo volere, astuto e diplomatico, aveva davanti il figlio primogenito furioso e deciso senza timore del padre, consapevole della sua forza e caparbio nel sostenere i suoi diritti.

    Roberto d’Altavilla era giunto nel Meridione d’Italia con i suoi fratelli, guerrieri figli di un nobile feudatario di Normandia. Il maggiore dei fratelli Altavilla, Guglielmo detto Braccio di ferro, conquistò per proprio conto il ducato di Melfi. Gli successe il fratello Roberto il Guiscardo, l’astuto, che si impadronì di alcuni territori del ducato di Salerno. Sconfisse papa Leone IX che gli aveva mosso guerra per fermare l’espansione normanna.

    Il Guiscardo fece prigioniero il papa e iniziò una politica di relazioni con la chiesa. Così nel 1059 riuscì abilmente ad ottenere dal papa Niccolò II, con l’accordo di Melfi, il titolo di duca di Puglia e di Calabria, primo riconoscimento della signoria normanna sul Mezzogiorno; in cambio dovette fare atto di vassallaggio alla chiesa. Roberto era abile diplomatico oltre che condottiero. Alla fase della conquista successe quella della organizzazione dei suoi possedimenti.

    Consapevole dell’instabilità politica dell’Italia divisa fra Papato, repubbliche marinare, Bizantini e signori feudatari che lottavano tra loro, domini dei Longobardi, decise di approfittarne per consolidare il suo potere. Seppe giocare bene le sue carte.

    Aveva sposato da giovane la normanna Alberada, zia del conte di Ariano Giraldo di Buonalbergo, matrimonio che gli aveva consentito l’appoggio di una contea forte e ricca. Alberada gli diede il suo primogenito, battezzato col nome di Marco, un bimbo sano e bello, che crebbe robusto e forte, tanto che il padre lo chiamò Boemondo, il nome di un gigante della mitologia nordica. Il Guiscardo era fiero di questo figlio e lo amò sempre, più degli altri. Ma la politica richiedeva un sacrificio.

    Roberto era ambizioso e sapeva che aveva bisogno di un riconoscimento ufficiale delle sue conquiste e di un nuovo alleato. Si volse al principe longobardo di Salerno Guaiamario che aveva una figlia in età da marito: Sikelgayta. Per sposarla il Guiscardo ripudiò Alberanda. Ciò creò il primo dissapore con suo figlio Boemondo.

    Le donne erano molto diverse. Alberanda, bionda e delicata, legata alla chiesa, aveva un profondo attaccamento ai frati benedettini, specie a quelli dell’abbazia della SS.ma Trinità in Venosa. Amava sinceramente il Guiscardo e gli fu sempre fedele. Ma temeva anche la sua ambizione smodata. Sikelgayta aveva una capigliatura rossa, era alta e formosa, intelligente e consapevole del suo nobile rango come principessa longobarda.

    Accettò con entusiasmo il matrimonio con Roberto sia per il suo fascino che per la possibilità di crescere sulla scala politica poiché il Guiscardo era famoso per le sue grandi capacità che lo avevano portato in breve tempo a conquistare molte terre.

    Guardava con diffidenza al figlio primogenito del marito e cominciò subito a studiare sistemi per renderlo inoffensivo per i suoi progetti.

    Quando Alberanda seppe di essere stata ripudiata con un cavillo astuto, appositamente studiato con il favore del papa che era molto interessato al destino dell’Italia meridionale e che voleva controllare i Longobardi legandoli ai Normanni suoi vassalli, accettò il suo destino, ma pretese dal Guiscardo l’impegno a proteggere suo figlio Marco Boemondo. Conosceva l’infida Sikelgayta, più giovane del marito e altrettanto ambiziosa che avrebbe fatto qualunque cosa per sé stessa e per i suoi figli.

    Alberanda si stabilì a Venosa, cittadina dal passato illustre (aveva dato i natali al poeta Orazio), in posizione strategica tra Lucania e Puglia, sede di una celebre abbazia benedettina che accoglieva alcuni monaci provenienti dalla Normandia.

    Boemondo seguì il padre che lo educò ad essere cavaliere, condottiero e abile guerriero. Boemondo cresceva forte e capace, dotato di particolare intelligenza, somigliava molto al padre per ardimento e capacità intuitiva. E la sua matrigna prese ad odiarlo. Quando questa mise al mondo suo figlio Ruggero, la posizione di Boemondo diventò difficile.

    Aveva dieci anni ed era a Salerno con suo padre. Durante la notte Marco fece un sogno rivelatore; gli apparve un Santo vescovo, Sabino, venerato nella cittadina pugliese di Canosa dove egli stesso era nato. Sabino rivelò a Boemondo che gli avrebbero offerto cibo avvelenato. Il pranzo del giorno successivo fu abbondante, alla presenza di molti invitati convenuti per festeggiare il nuovo nato.

    Boemondo passò il suo cibo al cane che sostava vicino. Ed ecco il povero animale guaire e morire con segni evidenti di avvelenamento. Roberto, di fronte ad un fatto così grave, fu molto duro. Affrontò in privato la moglie, strinse il suo collo fra le forti mani fino a farle confessare la verità.

    Poi prese la decisione più ragionevole possibile per non compromettere le sue conquiste e per garantire la vita all’amato Boemondo. Mise a tacere la cosa facendo giurare a Sikelgayta che non solo non avrebbe più cercato di fare del male al ragazzo, ma che avrebbe lei stessa vegliato sul suo benessere. In caso di un malaugurato incidente, Sikelgayta avrebbe perso la vita. Inoltre tranquillizzò la moglie: il ducato sarebbe andato a suo figlio Ruggero.

    Gli anni trascorsero tra lotte continue per affermare il potere normanno nel Meridione. Mentre Boemondo cresceva e si fortificava, sempre più alto come il gigante di cui portava il nome e sempre più ambizioso come suo padre.

    Bello, affascinante, biondo e muscoloso, dal carattere aperto e cordiale, gentile e crudele era temuto e amato, rispettato dall’esercito per le sue capacità di grande condottiero. Eccelleva in tutte le competizioni; era coraggioso e spericolato, forte e sicuro di sé, un capo indiscusso.

    Quel giorno del 1062 era stato convocato dal Guiscardo nel castello di Canosa, importante punto strategico sulla via Traiana. La città era posta nei pressi del fiume Ofanto, vicino Canne, dove si era scontrato Annibale con l’esercito romano riportando una grande vittoria. Il suo passato glorioso era testimoniato da vestigie importanti dell’epoca romana: antichi templi, tombe, colonnati, archi, tutto parlava dello splendore di altri tempi. Ora era una piccola cittadina, con una cinta muraria che abbracciava una zona ristretta intorno all’altura dei Santi quaranta martiri; in alto il castello con le sue torri quadrate sembrava intimorire il piccolo abitato. Tutt’intorno vi erano diversi monasteri e la cattedrale che conservava le reliquie del Santo protettore Sabino.

    Canosa aveva il suo fascino agli occhi di Boemondo che amava tutto di quella città, il suo passato, la fertilità della sua terra, la laboriosità dei suoi abitanti la loro fede, il suo clima e quella pianura che si apriva fino all’Adriatico. Era anche importante dal punto di vista religioso come luogo di un famoso vescovado, quello tenuto da Sabino che si festeggiava il 9 febbraio. Proprio a quel Santo Boemondo era molto devoto poiché ricordava il sogno che gli aveva salvato la vita da ragazzo e aveva deciso che un giorno si sarebbe fatto costruire un mausoleo vicino la cattedrale dedicata a Sabino.

    Quando si inoltrava per le campagne canosine era affascinato dalle gesta del suo passato, testimonianza della gloria di cui aveva goduto Canosa. Aveva approfondito le conoscenze storiche del luogo; aveva lui stesso concesso aiuti per la salvaguardia dell’ingente patrimonio artistico della città.

    Attraversando il ponte romano sull’Ofanto, si fermava a osservare quelle acque che avevano visto storie incredibili: Diomede dopo la guerra di Troia sbarcato sulle sue sponde; eserciti romani che mai riuscirono a sottomettere la potente Canusium; battaglie cruente come quella che vide il grande Annibale sconfiggere le armate romane; imperatori famosi come Traiano attraversare con le legioni gloriose quel ponte.

    Fino alla metà del VI secolo, la città aveva vissuto un periodo di grande splendore, era la principale dell’Apulia e della Calabria, sede del consularis. Era un centro ben noto per la manifattura della lana e per la ceramica; importante snodo viario strategico sulla via Appia, collegata con Venosa e con la costa adriatica.

    Assunse grande importanza dal punto di vista religioso, come lo attestava il lungo vescovado di Sabino, uomo di fiducia della chiesa romana, presente a Costantinopoli nel 525 come delegato pontificio e nel 535 in un concilio svoltosi nella capitale dell’impero bizantino.

    Tutto questo era percepito da Boemondo come un segno del cielo per lui, uomo voluto da Dio per quella terra in quel periodo.

    Roberto il Guiscardo, suo padre, aveva fatto cose grandi e sorprendenti e lui era fiero di essere suo figlio. Ma adesso le parole che gli rivolgeva erano spade affilate nel suo cuore.

    «Dunque sono stato privato della primogenitura? Hai preferito a me il figlio di Sikelgayta? Come puoi avermi fatto questo e come puoi pensare che io lo accetti?» Boemondo urlava come non aveva mai fatto davanti al Guiscardo.

    Sapeva che avrebbe potuto privarlo anche della vita se avesse voluto. Ma era troppo infuriato per quello che considerava un tradimento a favore dei longobardi e un’offesa per sé stesso e per sua madre Alberanda, per il suo popolo normanno.

    Il Guiscardo mostrò un controllo e una calma mai avute prima. Comprendeva bene lo stato d’animo del figlio. Lui stesso, al suo posto, avrebbe preso la spada e si sarebbe fatto giustizia con la forza. Ma ora era in gioco molto: il suo passato di conquistatore, le lotte che aveva dovuto sostenere anche con l’astuzia superando potenti nemici pronti a privarlo di ciò che col sangue aveva ottenuto, le rinunce che aveva dovuto fare per mantenere possedimenti e pace, non ultima quella di ripudiare l’amata Alberada per un matrimonio conveniente, ed era a rischio il futuro della sua stirpe se non convinceva Boemondo ad accettare la situazione. Lo conosceva bene questo figlio, gli somigliava troppo; non avrebbe accettato tranquillamente di perdere l’eredità che riteneva sua. Perciò Roberto decise di essere molto calmo e prudente, usando la sua famosa astuzia.

    «Siediti, Boemondo e ascoltami attentamente». Il figlio obbedì, ma i suoi occhi verdi come l’erba delle terre del nord, da dove provenivano i Normanni, tradivano la rabbia che ribolliva nel suo petto.

    Per un lungo lasso di tempo i due si guardarono senza parlare, come se ci fosse una tensione fra loro che andava placandosi.

    «Figlio, sei il mio preferito, lo sai, ti stimo perché mi somigli in tutto e sono fiero di te. Apri la tua mente a ciò che sto per dirti. I nostri avi lasciarono la Norvegia non solo in cerca di ricchezze e di avventura, ma per avere un posto importante nella storia. Popoli forti prima di noi hanno conquistato imperi e poi hanno perso tutto. La conquista è dura e richiede forza, ma conservare ciò che si è preso richiede ancora più forza e soprattutto saggezza. La forza col tempo diminuisce e sempre ci saranno nemici più potenti che ti contrasteranno pronti a toglierti tutto. È già accaduto in passato: guarda ai potenti Romani. Dove sono ora? Solo le pietre testimoniano la loro presenza nella storia. Eppure sono stati i padroni del mondo! Chi erano gli Hauteville? Piccoli signori insediati in Normandia dopo aver compiuto razzie e sgominato i locali che avrebbero potuto resistere ben poco senza adeguate alleanze. Alleanze! Questa è la parola che devi aver sempre in mente. Ci servono alleanze sempre. Cosa credi che abbia fatto finora se non cercare alleati per rafforzarmi e indebolire i miei nemici. Tua madre mi portò l’alleanza che mi serviva allora con i Normanni già stabiliti prima di noi oltre il Garigliano. Cosa ci ha spinto in questa parte d’Italia? Te lo sei chiesto? Il nord appartiene all’Impero germanico che abbiamo più volte sconfitto, ma non per sempre. È troppo forte per noi. Al centro la Chiesa romana, ricca e potente. Il Meridione è invece il luogo giusto per noi e come vedi lo abbiamo in pugno. Duca di Apulia e Calabria! Che titolo! Solo dieci anni fa era un sogno. Ora è realtà. Ho lottato duramente per questo. E come avrei potuto mantenere il dominio sulle terre conquistate? La spada non basta, figlio. Ci vogliono alleanze. E come giustificare davanti al mondo il possesso se non con un titolo garantito da un potente? I Bizantini sono odiati dalla gente più di noi, per questo alla fine ci hanno accettato. Ma una vera conquista deve essere duratura, deve appartenere alla stirpe, deve passare alla storia. Ho rinunciato a tua madre per accordi presi col Papa. Lui voleva ai suoi confini la stabilità politica che un matrimonio poteva garantire: l’alleanza fra Normanni e Longobardi. Gli eredi di queste famiglie dovevano avere il ducato.

    «Era un accordo fatto già all’inizio? Mia madre ed io stesso sacrificati? È questo che mi stai dicendo?» Boemondo era scattato in piedi, con i pugni chiusi, uno sguardo truce, senza timore.

    Il Guiscardo lo controllò ancora una volta:

    «Siediti e ascolta. Non interrompermi più. Non mettermi alle strette Marco!» Quando il padre usava questo nome sembrava porre delle distanze tra loro. Il Guiscardo preferiva chiamarlo Boemondo, il mitico personaggio che li legava alle tradizioni dei Normanni.

    E Marco obbedì. Nella sua mente si stava facendo chiarezza. Se il Papa era contro

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