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L’uomo di Gàmala
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L’uomo di Gàmala
E-book448 pagine6 ore

L’uomo di Gàmala

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Info su questo ebook

Francesco Caputo nasce a Palermo, città dove vive tutt’ora, nel maggio del 1963. Laureato in Economia e di professione consulente aziendale, da sempre appassionato di storia ha pubblicato nel 2016 Piccole imprese d’Italia - Perché nel nostro Paese le PMI non riescono a crescere, un breve saggio storico-economico sull’Italia imprenditoriale. L’amore per la scrittura, insieme ai molti viaggi verso Oriente effettuati per lavoro o per piacere, lo hanno spinto alla realizzazione del suo primo romanzo, L’uomo di Gàmala.

La vita di Yehoshua Bar Yussef - passato alla Storia con il nome di Jesus - narrata dal punto di vista dell’uomo, cercando di colmare i vuoti e affrontando le contraddizioni che la dottrina ufficiale lascia irrisolti. Dopo l’infanzia trascorsa a Gàmala, verso i tredici anni Yehoshua viene allontanato dalla famiglia per motivi di sicurezza e inizia un lungo viaggio al seguito di una carovana di mercanti. I suoi spostamenti lo porteranno ad attraversare l’India e a giungere nell’odierno Nepal, sulle montagne himalayane, dove Yehoshua farà la conoscenza di vari personaggi che saranno determinanti nella sua formazione e nello sviluppo delle sue idee future. Dopo quasi vent’anni di assenza dal suo Paese, il rientro in Giudea e la constatazione del tipo di vita cui è costretta la sua gente, lo porterà ben presto a frequentare ambienti e persone ai limiti di quella società, quali il movimento esseno e i suoi leader: Eleazar e Barabbas. 
Un romanzo avvincente il cui finale, scolpito nella Croce, azzarda una decisa deviazione dal tragitto tracciato dalla dottrina cattolica, consegnandoci un Cristo profondamente umano, assetato di giustizia, luce abbagliante e voce vigorosa allora come oggi, capace di scuotere la vita di molti.
LinguaItaliano
Data di uscita12 ott 2022
ISBN9788830667365
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    Anteprima del libro

    L’uomo di Gàmala - Francesco Caputo

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    CAPITOLO 1

    La pioggia batteva forte e i ciottoli di cui era piena la vecchia strada - e che avevano messo a dura prova i piedi di Yussef per tutto il cammino - erano ora completamente sommersi dal fango e, complice il buio, impossibili da evitare. Yussef stringeva i denti, trattenendo qualche legittima imprecazione ogni qual volta la punta acuminata di un sasso penetrava ben oltre la scarsa protezione dei suoi calzari, procurandogli ulteriori ferite e rendendo l’ultima parte del suo viaggio, se possibile, ancora più faticosa.

    Yussef non si era mai lamentato. E come avrebbe potuto? Con chi avrebbe potuto lamentarsi? Non certo con Myrhiàm, la sua giovane sposa, incinta al nono mese di gravidanza, che lo seguiva paziente e silenziosa a dorso d’asino ormai da dieci giorni.

    Era partito da Gàmala, a quell’epoca una delle cittadine più importanti del Golan - una vasta area prevalentemente montuosa che si trovava a est del sacro fiume Yarden, oltre il lago di Tiberiade - il sesto giorno del mese di Ziv, a primavera ormai inoltrata, per recarsi a Beit-Lehem e registrare se stesso e sua moglie in occasione del Grande Censimento della popolazione indetto dall’imperatore romano Octavianus Augustus: quella era la sua città d’origine e questo era il motivo del suo viaggio.

    Beit-Lehem o, come la chiamavano allora, Efrata la fruttifera, era situata a circa 770 metri sul livello del mare, una manciata di chilometri a sud di Yerushalaim ed era adagiata su due colline ricoperte di vigne, fichi, mandorli, melograni ed ulivi. Ma si trovava molto più a sud di Gàmala e il caldo, durante il viaggio, si era fatto sentire.

    Eppure, già al primo calar del sole, la temperatura in quelle zone così aperte scendeva bruscamente e un’altra notte all’addiaccio sarebbe stata una prova troppo dura per Myrhiàm, in quelle condizioni.

    Yussef non era infatti preoccupato per sé: sapeva di essere forte ed era temprato alla fatica dalla dura vita del carpentiere che a quei tempi, tra l’altro, significava saper costruire un po’ di tutto, da un recinto per le pecore alle mura di una fortezza; proprio da quelle parti infatti, e solo qualche anno prima di sposare Myrhiàm, era stato ingaggiato insieme ad altre centinaia di operai per i lavori di costruzione di una fortezza voluta da Erode Ascalonita, re di Giudea. Lo stesso re che adesso, per volere dell’imperatore romano Augustus e sotto il diretto controllo del console e legato di Siria Publius Sulpicius Quirinius, aveva ordinato il Grande Censimento.

    Man mano che si avvicinavano a Beit-Lehem, Yussef si sentiva sempre più di casa: oltre ad essere pratico di quei luoghi, ne conosceva bene gli abitanti, quasi uno per uno, tant’è che gli era già capitato di salutare qualche amico lungo la strada. Inoltre, durante la sua permanenza per i lavori alla fortezza di Erode, aveva spesso alloggiato presso una famiglia di parenti che gli aveva garantito un tetto sotto il quale dormire e un pasto di pane, latte e formaggio.

    Comunque, Yussef si era sempre sdebitato, consegnando 3 o 4 denari al capofamiglia ogni fine settimana prima di tornare a casa e, considerato che il lavoro da carpentiere gli consentiva un guadagno di due denari al giorno, Yussef nei sei mesi che aveva trascorso a Beit-Lehem era riuscito a mettere da parte quanto ancora gli occorreva per poter comprare un’altra moglie e risposarsi.

    Già, risposarsi. Era una cosa sulla quale aveva riflettuto molto negli ultimi mesi: Yussef a quel tempo aveva trentadue anni e un precedente matrimonio alle spalle. Sua moglie però era morta prematuramente, lasciandolo da solo con ben sei figli a carico e nessun aiuto per crescerli. Ad aggravare la situazione, bisogna ricordare che per la gente del suo tempo, in particolar modo per i giudei, non era buona cosa non essere sposato. Non essere sposato significava non procreare e questo andava chiaramente contro uno dei dettami principali che Yahweh, il loro dio, aveva lasciato al suo popolo: andate e moltiplicatevi.

    Certo, lui si era già - come dire - moltiplicato abbastanza, poiché era già padre di sei figli: ma questo non lo assolveva agli occhi della comunità. La sua famiglia poi - magari non si sarebbe detto - discendeva direttamente da Re David e questa condizione rendeva ancor più evidente e deprecabile la sua condizione di genitore single. E così, affidati i figli ad alcuni parenti, era tornato ufficialmente disponibile per contrarre un nuovo matrimonio.

    Questo fu uno dei motivi principali per cui acconsentì di presentarsi quale pretendente alla mano di Myrhiàm, quando gli venne fatta la proposta dai sacerdoti del Tempio.

    L’anno prima era stato infatti convocato, insieme ad altri celibi discendenti di Re David (lui era l’unico vedovo e già padre), per scegliere uno di loro quale futuro marito di Myrhiàm, allora dodicenne e appartenente ad una benestante famiglia di Gàmala. Myrhiàm era una vergine di stirpe reale cresciuta nel Tempio di Yerushalaim e il prescelto, dunque, avrebbe dovuto avere tutti i requisiti richiesti per prenderla in sposa.

    Yussef ricordava di essere stato abbastanza perplesso, quando gli giunse la convocazione. Sinceramente non pensava di avere molte chances: gli altri pretendenti sarebbero stati di certo più giovani di lui e senza una famiglia già alle spalle, ma la chiamata gli era pervenuta direttamente dal sacerdote Zechariah e quello era un ottimo motivo per non rifiutare l’invito.

    Non che non ce ne sarebbero stati altri, di ottimi motivi, per pensare a Myrhiàm come sua futura moglie: oltre al fatto di essere di buona famiglia, la cifra richiesta per il matrimonio (il mohàr, cioè il prezzo con cui la donna era letteralmente venduta al marito) era addirittura inferiore a quanto lui si aspettasse e a quanto era mediamente in uso tra la sua gente. Il problema era stato un altro - ben più grave - e si era manifestato solo pochi mesi dopo l’inizio del loro fidanzamento che, in ossequio alla tradizione, sarebbe dovuto durare un anno.

    Dico sarebbe, perché in realtà durò molto meno.

    Yussef scosse la testa. Lo faceva spesso, inavvertitamente, quando ripensava a quello che era accaduto. Dopo la cerimonia di fidanzamento non aveva più rivisto Myrhiàm, ma era una cosa normale: il promesso sposo non poteva avere contatti con la promessa sposa. Poteva solo vederla da lontano, senza poterla incontrare. D’altra parte, lui era un téktón, come si diceva allora in lingua Koinè (la lingua greca comune basata sul dialetto attico, che fin dai tempi di Alessandro Magno si era diffusa in tutto il Medio Oriente) e il suo lavoro lo teneva spesso lontano dal villaggio anche per mesi interi, impegnato - insieme a centinaia di altri operai provenienti da tutto il regno - nella costruzione di opere pubbliche più o meno grandi.

    In più, avendo un matrimonio in programma, si era particolarmente impegnato per raccogliere quanto necessario alle spese previste. Tornava pertanto di rado a Gàmala, spesso solo per pochi giorni e in quei giorni era altresì impegnato nella rifinitura di quella che sarebbe stata la sua nuova casa. La sua e quella di Myrhiàm.

    Proprio durante uno di quei giorni, mentre era intento nella rifinitura del tetto, Yussef fu molto sorpreso nel ricevere la visita inaspettata del padre di Myrhiàm, di uno dei suoi fratelli e del rabbeinu della cittadina, il capo spirituale della comunità.

    Il sole era ormai tramontato e la luce tenue della luna, ancora parzialmente filtrata dalle ultime nuvole che tardavano a diradarsi, non era più sufficiente ad illuminare i suoi passi, per cui Yussef si fermò. Volse lo sguardo verso Myrhiàm, che pareva assopita sul dorso dell’asino, poi prese la lanterna ad olio appesa al basto dell’animale, si sedette per terra e, tenendola tra le ginocchia, iniziò pazientemente a provocare scintille con la pietra focaia che portava sempre con sé.

    Pioveva ancora, ma molto meno intensamente di qualche ora prima e, appena accesa la lanterna, Yussef si rimise in cammino, tenendo sempre stretta in una mano la corda con la quale guidava l’asino (che per la verità era davvero molto docile e l’avrebbe seguito anche senza la corda) e nell’altra, adesso, la lanterna.

    Fu proprio osservando le ombre mobili proiettate sul sentiero dalla luce traballante della lanterna, che Yussef si rimise a pensare.

    Quel giorno dovette venir giù dal tetto e darsi una ripulita alla buona, per ricevere quegli inaspettati quanto importanti ospiti che, dal canto loro, non persero molto tempo nel comunicargli il motivo della loro visita improvvisa: era di fatto insorto un problema non da poco ma, non senza un minimo di sfacciataggine, gli proposero anche la relativa soluzione.

    Procedendo come un automa con lo sguardo perso nel vuoto, come chi è rapito dai propri pensieri e non si cura di ciò che gli sta intorno, Yussef scosse ancora la testa: forse perché non riusciva ancora a farsene una ragione, ma forse anche per scacciare un po’ d’acqua dai capelli e dal viso, anche se comunque era bagnato fradicio dappertutto.

    Come accettare il fatto che dopo tre mesi dall’avvenuta promessa di matrimonio, al ritorno da una visita alla casa di sua cugina Elisheba nella città di Ain Karem, Myrhiàm fosse rimasta incinta?

    Dire che quei momenti lo abbiano messo alla prova è riduttivo. Yussef, quando lo venne a sapere, non ci dormì la notte: che fosse rimasta incinta Elisheba, alla sua età, poteva essere un evento miracoloso oltre che lieto e giustificava la visita di Myrhiàm alla cugina; ma che fosse rimasta incinta anche Myrhiàm, non poteva certo dirsi lieto. Restava dunque l’ipotesi del miracoloso. E sì che aveva ormai preso la decisione di rimettere ordine nella sua vita… ma una moglie già incinta prima del matrimonio - per quanto miracolosa possa esserne stata la causa - era stato un rospo davvero complicato da ingoiare.

    Ma tant’è! Alla fine aveva dovuto scegliere e anche piuttosto in fretta: se avesse rifiutato, la ragazza rischiava la lapidazione e al solo pensiero Yussef stava ancora più male. Già, perché nel frattempo se ne era innamorato, fin dalla prima (e unica) volta che l’aveva vista, fin dal primo sguardo fuggente che si erano scambiati. Aveva deciso di sposarla e l’avrebbe fatto a qualunque costo.

    A Gàmala, il mese di Adar era il mese dei matrimoni. Diceva un proverbio: Quando arriva Adar, Israele si riempie di gioia!. Tutta la comunità locale partecipava alla cerimonia ebraica, ricca di simboli e riti, per rimanere impressa nella memoria di tutti.

    Quel giorno Yussef aveva indossato il suo abito migliore e ricorda quanti invitati, anch’essi vestiti per le grandi occasioni, erano entrati e usciti dalla sala, complimentandosi con la sposa per la sua bellezza. Alcuni di loro, inchinandosi di fronte a lei, avevano citato frasi della Torah.

    Anche gli anziani della città, con il capo coperto dai loro veli bianchi, avevano fatto omaggio agli sposi, con doni e benedizioni. E quanti bambini avevano fatto la fila per ricevere dalle mani della sposa i dolci di miele e noci, preparati da lei stessa e dalle altre donne della sua famiglia.

    Ma il momento più emozionante era stato quando lui aveva consegnato il suo regalo alla sposa: una collana di pietre rare, da lui stesso pazientemente realizzata. Myrhiàm gli aveva sorriso e gli aveva sussurrato in un orecchio: «Il mio più bel regalo sei tu, Yussef, marito mio».

    Immerso in questi pensieri, Yussef trovava così modo di distrarsi dal dolore ai piedi e dalla stanchezza del lungo viaggio, anzi ne era talmente assorbito, da non accorgersi nemmeno di essere giunto ormai alle porte della città. D’un tratto, la voce di Myrhiàm dietro di sé lo riportò bruscamente alla realtà proprio quando il temporale, ormai divenuto pioggia leggera, lasciava intravedere le fioche luci delle lampade a olio delle prime case di Beit-Lehem.

    «Yussef, marito adorato, ho tanto dolore al ventre e sento il bambino scalciare. Credo che stia per nascere».

    Yussef si voltò e, nell’avvicinarsi a lei, capì fin dal primo sguardo che non c’era più tempo da perdere: Myrhiàm era pallida in volto e teneva entrambe le mani sul ventre, come a volerlo sostenere. Faceva fatica a restare in sella al somaro e per quanto Yussef cercasse di aiutarla a trovare una posizione più comoda, i lamenti della sua giovane sposa non lasciavano spazio a ulteriori dubbi sulla sua condizione.

    Ma era ormai tardi e anche se aveva smesso di piovere non sarebbe stato facile trovare un alloggio così in fretta: la città era particolarmente affollata proprio a causa dei numerosi forestieri che vi si recavano per farsi registrare, esattamente ciò che stava facendo lui.

    «Siamo quasi arrivati, Myrhiàm. Cerca di resistere ancora un po’, mia dolce sposa. La famiglia di mio cugino Aaron non abita lontano da qui e ci daranno di certo ricovero».

    Quell’ultimo breve tragitto, con le case della città ormai sullo sfondo, fu il più lungo ed angoscioso di tutto quel viaggio. Il temporale aveva rallentato il loro cammino ed erano giunti a destinazione più tardi del previsto.

    Giunto alle porte della città, Yussef si rese infatti conto che la sua sposa non avrebbe potuto sopportare un solo passo in più, di quelli già fatti.

    «Aspettami qui, vado a cercare aiuto» disse Yussef rivolgendosi a Myrhiàm. Poi aggiunse: «Non preoccuparti, tornerò subito».

    Assicurato ad uno steccato l’asinello con sua moglie sopra, Yussef non perse tempo per andare a cercare il cugino Aaron, ma si mise a picchiare con vigore ad ogni porta che incontrava con un sasso raccolto per strada, correndo da un lato all’altro della via, senza nemmeno curarsi di attendere risposta:

    «Aprite, aprite! C’è nessuno? Per misericordia, aprite!» urlava più forte che poteva.

    Non aveva un bellissimo aspetto in quel momento: provato dal lungo viaggio, oggettivamente sudicio e visibilmente sotto stress, sembrava più un ossesso in preda ai fumi dell’alcool, che un viandante in cerca di aiuto.

    Logico che dopo cinque minuti di quella sarabanda le finestre delle case, piuttosto che le porte, si aprissero una ad una, più o meno nell’ordine in cui Yussef aveva picchiato alle rispettive abitazioni.

    «Che modi sono di urlare?».

    «Chi è che disturba a quest’ora?».

    «Chiamate le guardie...».

    Non erano le risposte che si aspettava. Tentò di chiarire l’equivoco:

    «No, per carità, perdonatemi...».

    Yussef si trovava adesso al centro della strada e non sapeva a chi rivolgersi prima: «Sono Yussef, il téktón» urlava, ruotando continuamente su se stesso, nella speranza di cogliere uno sguardo amico, «ho bisogno di aiuto, mia moglie Myrhiàm è incinta e sta per partorire...».

    Il povero Yussef non sapeva più a quante porte avesse bussato, né quante volte avesse urlato quelle parole: «Sono Yussef, il carpentiere, aiutatemi, mia moglie sta male...».

    Nel frattempo aveva ricominciato a piovere e le uniche voci che aveva sentito dicevano più o meno: va’ via, stiamo dormendo, vai a casa ubriacone!, insieme al cigolio delle imposte che si richiudevano inesorabilmente, forse anche per via della pioggia.

    A quel punto, abbastanza sfiduciato, Yussef si voltò con lo sguardo a cercare la sua sposa, sempre immobile su quel piccolo somaro legato in fondo alla via, proprio all’ingresso della città. Era stanco, fradicio d’acqua e molto preoccupato per le condizioni di Myrhiàm: lui era già stato padre di sei figli e proprio l’ultimo era nato portandosi via la sua prima moglie, presa da una febbre inarrestabile che non le aveva dato scampo. Conosceva bene le difficoltà e i rischi di un parto senza una adeguata assistenza e stava già pensando di tornare sui suoi passi, quando una voce alle sue spalle: «Tu sei Yussef, figlio di Eli… io ti conosco».

    Yussef ruotò ancora su se stesso, incurante degli schizzi d’acqua e fango provenienti dalle pozzanghere nelle quali era immerso fino alle caviglie. Si strofinò una mano sugli occhi, per cacciare via l’acqua che dai capelli gli gocciolava copiosamente sul viso e cercò di capire, nel buio, da dove provenisse quella voce.

    «Yussef…?» ripeté la voce.

    Questa volta era più una domanda che un’affermazione: come quando si incontra una persona dopo tanto tempo e non si è sicuri di ricordare bene.

    La fioca luce di una lanterna che, all’apertura dell’uscio, aveva gettato un debole fascio di luce sulla strada, gli fece capire la provenienza di quella voce. Con i passi incerti di un assetato che nel deserto si dirige verso quello che crede sia un miraggio, Yussef andò verso quella lanterna e quell’uscio socchiuso, immerso nel buio e nel silenzio, interrotto dal cigolio dell’ultima finestra che si richiudeva sulla via.

    «Sono Yussef, il téktón, figlio di Eli… tu mi conosci, ma io non riesco a vederti» disse, con voce incerta.

    Ad un tratto la porta si aprì del tutto e ne venne fuori un uomo corpulento, in tunica da notte, che protese in avanti, in segno d’invito, la mano con la quale reggeva la lanterna. Con tale gesto e anteponendo quindi la lanterna a se stesso, l’uomo consentì a Yussef di guardarlo e riconoscerlo: il suo vecchio amico Eliah, anch’egli carpentiere. La salvezza insperata.

    «Eliah, amico mio, mi serve il tuo aiuto. Sono in viaggio con mia moglie Myrhiàm che è incinta e credo che stia per partorire...».

    La concitazione di Yussef, ma ancor di più il suo aspetto e la preoccupazione che traspariva dal suo sguardo, fecero intuire a Eliah che non era il caso di perdersi in convenevoli. Fece due passi indietro e, ad alta voce, si rivolse a chi stava dentro casa: «Delilah, moglie mia, prepara un giaciglio in fretta, abbiamo degli ospiti!».

    Poi, come se ci avesse pensato su: «Jezebel, Judith… tanto so che siete sveglie, preparate delle bende pulite e dell’acqua calda, subito!».

    La casa di Eliah era semplice, ma confortevole. Era un po’ diversa dalle altre, aveva un’aria più solida e più squadrata, con un tetto più alto che lasciava intuire un piano rialzato all’interno e con un basso muro di cinta tutto intorno a circoscrivere lo spazio riservato agli animali da cortile durante il giorno.

    All’interno, la lampada a olio posta sul tavolo da lavoro illuminava un ambiente destinato agli usi più variegati: su di un grande scaffale in legno appeso alla parete stavano riposti alcuni vasi, un paio di giare e un moggio graduato per misurare le granaglie, mentre, dalla parte opposta della stanza, una mangiatoia accanto alla quale stavano ruminando in silenzio una mucca e una piccola capra indicava la zona adibita al ricovero notturno degli animali. La zona riservata al riposo notturno della famiglia era situata invece al piano di sopra, al quale si accedeva da una scala in mattoni interna, un lusso non comune presso quella gente, ma anche Eliah era un téktón e alla costruzione della sua casa aveva riservato un’attenzione particolare.

    Proprio al centro della stanza, solo qualche metro oltre l’uscio di casa, le donne di casa avevano velocemente predisposto un giaciglio di fortuna, costituito da un grande sacco di juta imbottito di paglia e ricoperto da una stuoia di canne intrecciate.

    Il bimbo venne alla luce quasi subito: un bel maschietto di quasi quattro chili che Lilith, sorella di Eliah e levatrice di professione, pulì velocemente e poi, sollevandolo per le ascelle e girando su se stessa, lo mostrò trionfante a Yussef e agli altri curiosi che si erano nel frattempo radunati.

    Myrhiàm giaceva distesa sul pagliericcio improvvisato: era un po’ pallida ma sorridente e le donne di casa si affaccendavano attorno a lei per rimettere un po’ in ordine dopo il trambusto di quel parto frettoloso.

    Beit-Lehem era una piccola città, in realtà poco più che un villaggio e i nuovi nati destavano sempre interesse e approvazione per cui non era strano che, nonostante l’ora, si stesse già raccogliendo una piccola folla sull’uscio della casa di Eliah il téktón.

    I più curiosi si erano già spinti all’interno della piccola stanza e alcuni, non trovando spazio, sostavano persino sulla scala in pietra che conduceva alla zona notte che, per altro, sarebbe stata il luogo più adatto vista la situazione; ma non c’era stato proprio il tempo di pensare di trasferire Myrhiàm al piano di sopra: era già stato un miracolo che non avesse partorito per strada o direttamente sull’asino.

    Eliah aveva una moglie e quattro figlie femmine e la nascita nella sua casa di quel bambino, indiscutibilmente maschio, era comunque un evento emozionante: sua moglie Ruth gli aveva stretto forte il braccio, quando la cognata aveva mostrato il bimbo ai presenti innalzandolo al cielo e gridando: «Eccolo, è maschio!».

    Pochi secondi ancora e il primo, lungo vagito del neonato fu accolto da un’ovazione di tutti i presenti, seguita da un lungo applauso al quale nessuno si sottrasse, come se avessero tutti assistito alla prima di una importante rappresentazione teatrale. Ma non eravamo in Grecia, bensì nella Giudea palestinese ed era appena nato Yehoshua Bar Yussef.

    Correva il 37° Anno del Regno di Augustus, il 748° anno dalla Fondazione di Roma e nessuno ancora poteva immaginarlo, ma per il mondo intero quello sarebbe stato l’Anno Zero dell’Era Cristiana.

    CAPITOLO 2

    Vivere in Palestina al tempo dell’occupazione romana, per un comune cittadino israelita, non era facile: alle già difficili condizioni dei poveri contadini e piccoli artigiani che gravitavano nei dintorni delle città più importanti (come Yerushalaim), si aggiungevano adesso le pesanti tasse pretese da Roma, che venivano prelevate dai fidi pubblicani a intervalli costanti, direttamente in ogni villaggio e in ogni casa.

    Ma vivere a Yerushalaim da legionario romano era un’altra cosa e comportava privilegi riservati a pochi e, per il giovane Tiberius, rappresentava oltretutto il sogno di una vita: suo padre aveva combattuto nelle legioni romane di Marcus Antonius ai tempi di Erode Antipatro e lui ricordava ancora come pendeva dalle sue labbra quando la sera, prima di andare a dormire, ne ascoltava i racconti di epiche battaglie e avventurose campagne militari. Del resto, anche lui, in quanto figlio di legionario, era stato addestrato alle armi fin da bambino, con il pensiero fisso di emulare suo padre ed entrare a far parte un giorno della Legione Romana che, in epoca imperiale, concedeva ai castris (i figli dei soldati) un accesso riservato ai suoi ranghi, oltre che alla cittadinanza romana. Certo, non si era ancora coperto di gloria come suo padre che aveva combattuto valorosamente contro i Parti, ma nel frattempo, dopo un faticoso anno da tirones (recluta), adesso era diventato milites, cioè un soldato dell’exercitus romanus a tutti gli effetti, con tanto di tatuaggio sul braccio e diritto a percepire lo stipendium che, in un’epoca dove le certezze erano veramente poche, faceva una bella differenza.

    L’accesso alla carriera militare, comunque, non era aperto a chiunque, dal momento che era necessario rispondere a precisi requisiti fisici: se la statura media di un legionario era, allora, di circa 160 cm, per la Prima Coorte, considerato corpo d’élite, bisognava superare l’altezza minima di 165 cm.

    Certo, la vita da legionario teoricamente era una vita dura, ma non a Yerushalaim. Il labor del legionario si riduceva ad attività di routine che consistevano in tranquille ronde per le vie della città, intervallate da comodi turni di guardia al Palazzo o al Tempio che, essendo in continuo restauro, veniva sottoposto a sorveglianza soprattutto la notte. Insomma, un labor più di forma che di sostanza e le serate allegre trascorse nelle taverne di Yerushalaim rendevano la vita del legionario decisamente piacevole.

    Tutto merito dell’imperatore Augustus che, proprio in quegli anni, aveva avviato una profonda riforma nell’esercito, sostituendo la coscrizione obbligatoria dei cittadini maschi (che non venne mai comunque abolita) con l’arruolamento di volontari, professionalizzando quindi il ruolo del soldato e allargando la possibilità della carriera militare anche ai cittadini delle province, come lui.

    Eppure, vi erano giorni in cui vivere e lavorare alla corte di Erode il Grande era davvero impossibile, anche da legionario romano. Impossibile e pericoloso, soprattutto: anche se sottomesso al volere di Roma, Erode era pur sempre un re e dal carattere molto volubile, oltretutto. A complicare le cose, ultimamente il re non era di buon umore, per via di quella diceria che girava da qualche tempo circa l’imminente nascita di un nuovo re dei giudei. E quando non era di buon umore, per i suoi sudditi, per le sue guardie e persino per i suoi familiari e per i legionari romani di stanza a Yerushalaim, erano guai.

    E i guai, di solito, iniziavano proprio dentro il Palazzo e spesso, in questi casi, ci scappava il morto.

    Il giovane Tiberius ricorda ancora con fastidio l’ultima volta che il re non era stato di buon umore: sospettoso per natura, Erode Ascalonita detto il Grande, figlio di Erode Antipatro, aveva oscurato il ricordo di suo padre in quanto a paranoie complottiste e conseguenti decisioni radicali che solitamente si concludevano con qualche omicidio.

    Ognuno ha i suoi problemi, si potrebbe obiettare, inclusi i monarchi. E in un’epoca dove la legge del taglione era per lo meno la regola, non dovrebbe destare eccessivo stupore un re paranoico con il pallino di far fuori i suoi presunti nemici.

    Tiberius Iulius Abdes Panthera, di origini fenicie e nato a Sidone, aveva allora ventitré anni e da quando era entrato a far parte della Prima Coorte Arcieri Ausiliari, ne aveva sentite di storie: una volta il re aveva ordinato alle sue guardie di trucidare in una sola notte quarantacinque cittadini aristocratici che avevano osato opporsi alla sua politica filo-romana e un’altra ancora aveva fatto imprigionare e poi morire di fame un funzionario della sua stessa amministrazione insieme a tutta la sua famiglia, salvo poi accorgersi, qualche settimana dopo, che non c’era stato alcun ammanco nella riscossione delle tasse. Non che si fosse fatto prendere dal rimorso, naturalmente: ne aveva semplicemente assunto un altro.

    Ma il vero fastidio, per Tiberius, nasceva dal fatto che l’ultima volta era toccato proprio a lui dover eseguire uno di questi ordini. Quando il suo superiore glielo aveva comunicato, alla fine gli aveva battuto una mano sulla spalla e gli aveva detto: «Questo re è completamente pazzo, ma non tocca a noi giudicare. A Roma ci dicono di eseguire i suoi ordini e, finché è possibile, noi lo facciamo». Poi aveva aggiunto: «bbiamo fatto cose peggiori, questa è una roba da niente».

    La roba da niente in questione consisteva, in quel caso, nell’affogare per ordine del re un ignaro ragazzo mentre faceva il bagno in una piscina e farlo sembrare un incidente. Il ragazzo in questione si chiamava Aristobulo ed aveva appena compiuto sedici anni.

    Poco importava che Aristobulo fosse già stato nominato Sommo Sacerdote e che fosse il fratello della stessa moglie del re, la regina Mariamne. Anzi, forse proprio per questo, il povero Aristobulo era stato sospettato da Erode di complottare contro di lui e il fatto che fosse solo un ragazzo era del tutto ininfluente per il re, che in passato non aveva esitato a ordinare l’eliminazione di una precedente moglie e di un paio dei suoi stessi figli, anch’essi sospettati di aver tramato per spodestarlo. Figuriamoci quindi un cognato. Si raccontava all’epoca di una battuta dell’imperatore Augustus, di cui Erode era re-vassallo, secondo la quale era preferibile essere il maiale di Erode, piuttosto che suo figlio.

    Quando ripensava a quell’episodio, Tiberius si mordeva il labbro inferiore con una smorfia, perché non era facile dimenticare quel che aveva dovuto fare: di scorta al re durante un suo soggiorno a Yeriho, era stato incaricato di accompagnare personalmente Aristobulo alla piscina dove Erode, già immerso nell’acqua, aveva invitato il giovane cognato per un bagno. Gli ordini erano di assistere il ragazzo nel suo ingresso in acqua e poi affogarlo: esattamente quello che aveva fatto. Ma il sorriso soddisfatto di Erode, che lo guardava compiaciuto mentre quel ragazzo moriva sott’acqua in preda alle convulsioni, a pochi metri da lui, lo aveva disgustato e adesso lo perseguitava. Non era la prima persona che uccideva - lui era un soldato e aveva sempre ubbidito senza battere ciglio - ma restava il fatto che dover eseguire questo genere di ordini non era davvero il tipo di gloria che Tiberius si aspettava dalla vita militare.

    Quel giorno, come dicevamo, Erode il Grande non era affatto di buon umore. Correva l’anno 748 Ab Urbe Condita (dalla fondazione di Roma) e, per il popolo d’Israele, il 3754 dalla Creazione del Mondo ed Erode, re di Giudea da oltre trent’anni per volere di Marcus Antonius prima e di Octavianus Augustus poi, ha un impegno istituzionale di una certa importanza, almeno per lui: sta per ricevere tre pellegrini di ritorno da un’importante missione.

    Ancora più importanti sono le informazioni che il re attende dai tre uomini con malcelata trepidazione, perché riguardanti quelle dicerie circa la nascita di un nuovo (non sia mai!) re dei giudei, con il quale, evidentemente, lui non potrebbe assolutamente andare d’accordo.

    E quando Erode il Grande non andava d’accordo con qualcuno, in genere quel qualcuno aveva vita breve.

    D’altra parte, riuscire a governare ininterrottamente per quasi quarant’anni su un territorio turbolento come quello palestinese e allo stesso tempo mantenere la fiducia di Roma, non era stato facile.

    Inizialmente, aveva persino scelto il cavallo sbagliato - come si dice - puntando tutto su Marcus Antonius nella guerra contro Octavianus. Ma dopo la sconfitta definitiva di Antonius ad Azio, Erode aveva dato prova del suo spietato opportunismo e delle sue indubbie capacità diplomatiche, saltando prontamente sul carro del vincitore e convincendo Octavianus Augustus della sua fedeltà. Anzi, lo convinse talmente bene che il Princeps romano, oltre a confermarlo Re di Giudea, gli affidò i territori che erano un tempo di Cleopatra: in questo modo, Erode il Grande vide espandersi il suo regno anche sulla Samaria e sulle città di Gàdara e Gaza.

    No, Erode non era un fesso: per mantenere il suo potere di re (e gli enormi privilegi derivanti) ed allo stesso tempo ossequiare degnamente Roma per la gentile concessione, aveva dovuto fare salti mortali e ungere adeguatamente consoli, generali e senatori romani.

    Aveva affrontato e risolto tutti i problemi che gli avevano ostacolato la strada da quando era succeduto a suo padre sul trono di Giudea e adesso aveva un piano per ottenere dai tre pellegrini le informazioni che gli occorrevano.

    «Maestà, gli stranieri sono stati avvistati sulla strada per Hebron, diretti a Yerushalaim. Le guardie li stanno aspettando alla Porta degli Esseni per scortarli qui a Palazzo, come da Vostro

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