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Slavia N. 2020 4: Rivista Culturale
Slavia N. 2020 4: Rivista Culturale
Slavia N. 2020 4: Rivista Culturale
E-book391 pagine5 ore

Slavia N. 2020 4: Rivista Culturale

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Info su questo ebook

N. 4 2020 della Rivista Cultruale SLAVIA.
Rivista di culture e lingue slave, nata nel 1992 ad opera di un gruppo di slavisti, docenti universitari, ricercatori e studiosi di varie discipline, intenzionati a promuovere inziaitive per approfondire la conoscenza del patrimonio culturale dei paesi di area slava.
Slavia è annoverata tra le pubblicazioni periodiche che il Ministero per i Beni e le Attività Cuturali considera "di elevato valore culturale".
LinguaItaliano
Data di uscita8 feb 2021
ISBN9791220261302
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    Anteprima del libro

    Slavia N. 2020 4 - Andrea Lena Corritore

    ITALIA

    Andrea Lena Corritore, IL CINEMA RUSSO E SOVIETICO

    DALLE ORIGINI AGLI ANNI SESSANTA

    Le origini (1896-1918)

    Il cinema arrivò in Russia cinque mesi dopo che i fratelli Lumière avevano presentato la loro invenzione al pubblico parigino: il 4 maggio 1896, al teatro del parco Akvarium di Pietroburgo, vennero mostrati alcuni dei celebri cortometraggi dei Lumière. Come già era successo a Parigi, alla proiezione de L’Arrivée d’un train en gare de La Ciotat (1895), i presenti erano trasaliti per paura che il treno piombasse loro addosso. Qualche settimana dopo, il 26 maggio, il cinema debuttò anche a Mosca, al Teatro Ermitaž. Anche l’incoronazione dello zar Nicola II fu ripresa in quel maggio 1896, da Camille Cerf, un cineoperatore dei Lumière inviato per l’occasione. Da allora e per i successivi dodici anni, le pellicole che circolarono in Russia furono esclusivamente di importazione, principalmente francese; erano le compagnie Pathé e Gaumont ad avere il monopolio della distribuzione. All’inizio non si pensava al cinema come a una nuova forma d’arte, si voleva semplicemente divertire il pubblico, mostrando delle immagini in movimento che suscitavano stupore.

    Nel 1907 Aleksandr Drankov (1880-1949), un discusso imprenditore pietroburghese che era riuscito ad accreditarsi come fotografo di corte, annunciò l’apertura della prima casa di produzione cinematografica a Pietroburgo. Da lì a poco, anche Pathé e Gaumont aprirono le proprie filiali in Russia.

    Il 15 ottobre 1908 uscì quel che si è soliti considerare il primo film russo a soggetto, Sten’ka Razin (regista Vladimir Romaškov), un cortometraggio della durata di circa 6 minuti, basato su una canzone popolare sul celebre ribelle cosacco. Nel film, Razin (interpretato da Petrov-Raevskij) è un brigante violento, infatuato di una principessa persiana che ha fatto prigioniera. Quando gli uomini della sua banda gli fanno credere che la donna gli è infedele, Razin non esita a sbarazzarsene gettandola nelle acque della Volga. Il film, una sequenza di rozze immagini, utili solo a illustrare la storia narrata dalla canzone, segnò la nascita del cinema russo.

    Dopo Drankov, anche altri imprenditori aprirono case di produzione cinematografica in Russia: l’ex ufficiale dell’esercito imperiale Aleksandr Chanžonkov (1877-1945) fondò nel 1907 lo studio più importante di quegli anni. La Chanžonkov & C. contava nel suo staff due importanti registi (Čardynin e Bauer), cinquanta attori (fra cui le prime dive russe Vera Karalli e Vera Cholodnaja) e cinque cine-operatori; Chanžonkov pubblicava inoltre due riviste: «Pegaso» (Pegas) e «Il messaggero della cinematografia» (Vestnik kinematografii).

    Altri importanti produttori erano Pavel Timan (Thiemann, 1881-?) e Iosif Ermol’ev (1889-1962). Il primo fondò nel 1909 la Timan i Rejngardt (Thiemann & Reinhardt), che da lì a poco inaugurò la celebre «Serie d’oro russa», ispirata alle pellicole della francese Film d’art: lungometraggi di qualità tratti da opere letterarie classiche o popolari. Timan vantava tra i suoi registi di punta Jakov Protazanov e Vladimir Gardin, e nel 1915 chiamò Vsevolod Mejerchol’d a dirigere e interpretare un adattamento del Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde. Ermol’ev aprì nel 1914 il suo studio a Mosca. Abile imprenditore, seppe trarre vantaggio dal blocco delle importazioni di film stranieri durante la Prima guerra mondiale, riuscendo nello stesso tempo a firmare contratti in esclusiva con alcuni tra gli attori più noti del tempo (Mozžuchin e Gzovskaja), e con Jakov Protazanov, che nel 1916 diresse per lui il celeberrimo La donna di picche ( Pikovaja dama), tratto dalla povest’ di Puškin.

    Solo un terzo circa dei film russi prodotti dal 1908 al 1912 erano recitati, gli altri erano notiziari o documentari. La metà era costituita da trasposizioni cinematografiche di opere letterarie, canzoni o drammi teatrali; per il resto, erano ricostruzioni storiche, melodrammi e una piccola percentuale di commedie. I filmati erano di breve durata, da pochi minuti a mezz’ora circa, perché si riteneva che gli spettatori non fossero in grado di seguire storie più lunghe. Fino al 1912, i cinematografi offrivano programmazioni della durata di un’ora o poco più: venivano proiettati 4-5 film e il programma era composto, in genere, da un melodramma a tinte forti (solitamente dai contenuti erotici e violenti), una commedia, qualche breve documentario e una paio di sketch comici. Il pubblico poteva entrare in qualsiasi momento durante le proiezioni, che spesso avevano luogo in case private adattate allo scopo.

    Il primo lungometraggio russo, della durata di circa un’ora e mezza, fu La difesa di Sebastopoli ( Oborona Sevastopolja, 1912, regista Vasilij Gončarov), un film epico sulla strenua difesa della città da parte dell’esercito russo durante la guerra di Crimea. Ma la pellicola che rivoluzionò la cinematografia russa, per lunghezza e tematiche affrontate, fu Le chiavi della felicità ( Ključi sčast’ja, 1913, registi Gardin e Protazanov). Il melodramma, in due parti di circa un’ora ciascuna (ora perduto), era tratto da un best-seller di Anastasija Verbickaja e narrava le avventure di Manja (interpretata da Preobraženskaja), modello della nuova donna russa emancipata, alle prese con i cambiamenti sociali e di etica sessuale di inizio XX secolo. Le chiavi della felicità dimostrò ai proprietari delle sale cinematografiche che i lungometraggi garantivano incassi superiori rispetto alla tradizionale programmazione, comprendente diversi film più brevi, e da quel momento la durata delle pellicole prodotte in Russia si allungò. Nei cinematografi si cominciò a entrare a orari precisi e gli spettatori decisero che era meglio vedere un film dall’inizio per poterne seguire meglio la storia.

    Con lo scoppio della guerra e la chiusura delle frontiere, l’importazione dei film stranieri subì un brusco arresto. Questa circostanza ebbe ripercussioni positive sull’industria cinematografica interna, che aumentò la propria produzione, passando dai circa 130 titoli del 1913 ai 500 del 1916. I produttori russi divennero così efficienti che nel 1915 la Pathé ritenne opportuno chiudere i propri uffici in Russia, dopo aver firmato un contratto con Ermol’ev per la distribuzione dei film francesi. Il boom favorì anche la nascita di uno star system russo.

    Negli anni del conflitto si registrarono cambiamenti anche nel favore riscosso dai vari generi: dopo una prevedibile impennata iniziale, i film storici e di guerra persero di attrattiva, mentre gli adattamenti di opere letterarie continuarono ad avere successo. Tuttavia, se in precedenza si attingeva perlopiù alle opere dei classici (Puškin, Gogol’, Čechov), ora erano gli autori e le tematiche contemporanee a essere più apprezzati (Verbickaja e Arcybašev in primo luogo). Sulla scia del successo dei serial polizieschi e d’avventura francesi, come Fantomas, si produssero film a episodi incentrati sulle imprese di criminali russi: Son’ka Mano d’oro ( Son’ka Zolotaja ručka, 8 episodi, 1914-1916), Il brigante Vas’ka Čurkin ( Razbojnik Vas’ka Čurkin, 4 episodi, 1914-1915), Saška il seminarista ( Saška-seminarist, 4 episodi, 1915). Ma il genere d’eccellenza di questi anni fu certamente il melodramma borghese, che, influenzato dal Decadentismo, era intriso di violento erotismo e misticismo satanico. Maestri di questo genere furono i registi Evgenij Bauer e Jakov Protazanov.

    Bauer (1865-1917) fu forse il più originale regista prerivoluzionario. Fautore di un cinema psicologico, egli aderì all’estetica decadente, elaborando uno stile personale che da allora prese il suo nome: i set dei suoi film erano sontuosi e curati nei minimi dettagli; mobili, statue, colonne, scaloni e pesanti tendaggi vi si addensavano, conferendo tridimensionalità all’immagine. È come se il regista, morto prematuramente nel 1917, desiderasse immortalare per i posteri l’agiatezza e gli sfarzi di una classe sociale e di un’epoca destinate a scomparire da lì a poco insieme con lui. Attivo dal 1913, fu autore di circa ottanta film, il più celebre dei quali è forse Vita per vita ( Žizn’ za žizn’, 1916). Quintessenza del melodramma borghese, questo film, che vantava un cast eccezionale (Cholodnaja, Polonskij, Perestiani), narra la tormentata storia di due sorelle rivali in amore. L’uomo del quale sono entrambe innamorate, marito di una delle due, si rivela un opportunista senza scrupoli, pronto a dilapidare il patrimonio della moglie alle gare dei cavalli. La situazione, apparentemente senza uscita, è risolta dalla madre delle due fanciulle, una vedova imprenditrice dal carattere fiero e indipendente, che uccide l’uomo simulandone il suicidio.

    Protazanov (1881-1945) divenne noto nel 1912, quando co-diresse con Elizaveta Timan il docu-film La scomparsa del grande vecchio ( Uchod velikogo starca) sulle vicende familiari e la morte di Tolstoj. Autore di più di cento pellicole, egli fu maestro del cinema di intrattenimento e continuò la sua attività di regista in Russia anche dopo il 1917. Tra i film girati prima della Rivoluzione, oltre ai già menzionati Le chiavi della felicità e La donna di picche, è da ricordare Padre Sergio ( Otec Sergij), dall’omonima povest’ di Tolstoj, in cui Ivan Mozžuchin diede una delle sue migliori interpretazioni.

    La crisi economica e politica che si abbatté sul Paese con la caduta della monarchia e la fine della guerra costrinse molti produttori a chiudere. Dal 1918, molte delle compagnie rimaste attive emigrarono, dapprima stabilendosi in Crimea, allora in mano ai bianchi, e poi definitivamente all’estero.

    Il cinema rivoluzionario e sperimentale (1919-1929)

    Gli anni Venti sono il periodo più noto e celebrato del cinema sovietico. A lungo identificati con i registi dell’avanguardia rivoluzionaria, impegnati a sperimentare le leggi del montaggio cinematografico (Kulešov, Ejzenštejn, Pudovkin, Vertov), essi registrarono anche una massiccia diffusione di film di svago occidentali, che diedero vita a un filone sovietico popolare e commerciale. Il decennio, soprattutto nella sua seconda parte, fu segnato dal dibattito sul ruolo e sulle funzioni del cinema: poteva ambire a divenire una forma d’arte elevata al pari delle altre? Il suo compito era principalmente quello di istruire o poteva anche solo limitarsi a divertire?

    I leader bolscevichi ritenevano che i film dovessero svolgere un’importante funzione educativa e ideologica, il loro linguaggio per immagini li rendeva infatti comprensibili anche al pubblico meno istruito. È celebre la frase attribuita a Lenin: Di tutte le arti, per noi, la più importante è il cinema (1922). Per questo, essi misero mano da subito alle politiche culturali in ambito cinematografico.

    Nel 1919 l’industria del cinema fu nazionalizzata e posta sotto il controllo del Commissariato del popolo per l’istruzione. Nello stesso anno fu creata una Scuola cinematografica sovietica ( Goskinoškola, poi VGIK) per formare registi, attori, operatori e scenografi. Tuttavia, in questi primi anni del governo bolscevico, segnati dalla guerra civile e dall’isolamento commerciale della Russia, la produzione cinematografica nazionale subì un forte calo: dai 57 film del 1919, si passò a 12 nel 1921 e 16 nel 1922. Molti di questi erano brevi filmati di propaganda ( agitfil’my), portati in giro per il Paese su speciali treni e battelli di agitazione politica. Nel 1922 fu istituito il Goskino, un ente centrale cui venne affidato il monopolio della distribuzione. Nonostante queste misure, tuttavia, la crisi del cinema sovietico non accennava a risolversi: la penuria di pellicola e macchinari, interamente importati prima della guerra, e la scarsità dei finanziamenti statali non permettevano il rilancio dell’industria. Fino al 1924 nessun lungometraggio di successo fu prodotto in URSS, in compenso il 95% dei film in circolazione erano stranieri (tedeschi, americani, francesi). Nel 1924 il Sovkino sostituì il Goskino nel monopolio della distribuzione e, in generale, si avviò un processo di centralizzazione nella produzione dei film, conclusosi nel 1926, quando rimasero attivi tre studi cinematografici principali: i due Sovkino di Mosca e Leningrado e il Mežrabpom-Rus’. Nella seconda metà degli anni Venti, con il parziale miglioramento dell’economia e grazie anche a un nuovo orientamento più commerciale della produzione cinematografica statale, che consentiva all’industria una maggiore autonomia finanziaria, si registrò una ripresa. I guadagni ottenuti con la distribuzione dei film stranieri e la produzione di film sovietici commerciali permisero di finanziare i film più sperimentali che sarebbero diventati i capolavori più celebri della cinematografia sovietica.

    Un’importante tendenza, registrata fin dalla metà degli anni Dieci, è quella dell’americanismo ( Amerikanščina, 1922, è anche il titolo di un articolo di Kulešov, in cui si analizzavano le caratteristiche dei film di intrattenimento occidentali e le ragioni del loro successo mondiale). Le pellicole di Hollywood erano piene di dinamismo, azione e numeri acrobatici ( trjuk), molto diverse dai film russi prerivoluzionari, lenti e dai finali tragici. I registi della nuova generazione, in rottura con la tradizione e desiderosi di dar vita a un cinema sovietico di successo, presero a studiare i serial occidentali per apprenderne formule narrative e tecniche di montaggio. Lev Kulešov (1899-1970), considerato il padre del cinema sovietico, fu il più americano fra loro: il suo primo lungometraggio, Il progetto dell’ingegner Pright ( Proekt inženera Prajta, 1918), è un film d’avventura ispirato ai modelli occidentali. Il gusto per il dinamismo e per le gag funamboliche di Kulešov raggiunse tuttavia il suo apice nella commedia Le straordinarie avventure di Mr West nel paese dei bolscevichi ( Neobyčajnye priključenija Mistera Vesta v strane bol’ševikov, 1924), un rilettura in chiave satirica dei western americani. Il film, realizzato con gli allievi del suo Laboratorio, gioca con gli stereotipi con cui la stampa d’oltreoceano rappresentava la Russia bolscevica. Mr West, presidente dell’YMCA, si reca a Mosca in compagnia del cowboy Jeddy (Barnet), la sua guardia del corpo, intenzionato a verificare di persona le voci circolanti in Occidente che descrivono i bolscevichi come dei selvaggi. L’uomo cade in mano a una banda di malviventi (gli attori Pudovkin, Chochlova, Komarov) che, per estorcergli denaro, gli mostrano una finta Mosca, barbara e fuori controllo. Il film, pieno di spericolati inseguimenti ed esilaranti colpi di scena, finisce con la cattura dei banditi e con una passeggiata di West per il centro della città, accompagnato da veri bolscevichi. L’americano rimane ammirato dal progresso dei Russi, tanto da raccomandare alla moglie di appendere un ritratto di Lenin nel suo ufficio.

    La seconda metà degli anni Venti fu dominata dalle sperimentazioni nell’ambito del montaggio, cui sono indissolubilmente legate le figure di Vertov, Pudovkin ed Ejzenštejn. Già Kulešov in un saggio del 1917 aveva affermato che il tratto specifico del cinema consisteva nel montaggio, ovvero nell’arte di comporre i frammenti filmati separatamente, disordinati e disgiunti, in una singola unità. Per illustrare la sua idea, produsse una serie di brevi filmati in cui alcuni primi piani, apparentemente senza espressione, dell’attore Mozžuchin venivano accostati a varie immagini, come un piatto di minestra o un bambino dentro una bara. A seconda dei casi, gli spettatori interrogati ravvisavano nell’attore emozioni diverse: fame o tristezza. L’esperimento tendeva a dimostrare che il senso delle singole inquadrature risente del contesto e si compone nella mente dello spettatore in unità semantiche di ordine superiore. Il fenomeno divenne noto come effetto Kulešov e fu il punto di partenza per i successivi esperimenti sul montaggio.

    Il montaggio delle immagini serviva a Dziga Vertov (pseud. di David Kaufman, 1896-1954) a documentare la realtà, manipolandola: si poteva rallentare, accelerare o addirittura invertire il tempo, per riorganizzare i fenomeni visibili e offrire agli spettatori una visione perfetta del mondo, quella meccanica e precisa dell’occhio della cinepresa. Insieme alla sua compagna Elizaveta Svilova e al fratello Michail Kaufman, Vertov diede vita al movimento dei Kinoki, i cine-occhi. Questi attaccavano i film di finzione, definendoli favole-sceneggiature borghesi che annebbiano occhi e cervelli, mentre il loro obiettivo era quello di mostrare il mondo per quello che è, mettendone a nudo la struttura borghese, e, in questo modo, istruire le masse. Cine-occhio ( Kino-glàz, 1924) spiegava, ad esempio, perché conveniva comprare la carne delle cooperative, mostrando come avveniva la macellazione di un bue: la pellicola era proiettata a ritroso, dalla carne esposta al mercato al macello della cooperativa, fino al bue vivo nell’allevamento.

    Il capolavoro di Vertov è però L’uomo con la macchina da presa ( Čelovek s kinoapparatom, 1929), manifesto poetico del suo metodo formale, in cui il regista dimostra di avere raggiunto piena consapevolezza degli strumenti che macchina da presa e tavolo di montaggio gli offrono per smontare e ricostruire il reale. Nel film, girato in vari periodi tra Mosca, Odessa e Kiev, Vertov va in giro per la città per riprendere la vita che si svolge nelle vie e all’interno delle case, cogliendola alla sprovvista. La sua intenzione è di sperimentare le possibilità del cine-occhio nel trasmettere i fenomeni visibili, attraverso il linguaggio universale e assoluto del cinema. Vero e proprio peana all’estetica costruttivista, che esaltava le macchine e prediligeva il processo creativo al prodotto artistico finito, il film offre un ampio repertorio di tipi di montaggio e possibilità di riprese, componendo le immagini in un flusso ipnotico di una potenza iconica straordinaria.

    Ma il teorico più brillante del montaggio fu Sergej Ejzenštejn (1898-1948), straordinaria figura di artista e intellettuale raffinatissimo, definito il Leonardo del cinema russo. Figlio di un noto architetto di Riga, Ejzenštejn era stato allievo del regista teatrale Mejerchol’d, con cui aveva collaborato come costumista e scenografo. Regista egli stesso di alcuni spettacoli teatrali tra il 1923 e il 1924, esordì nel cinema con il film Sciopero ( Stačka, 1925), sintesi di una prima fase di riflessioni che lo aveva condotto a formulare l’idea del montaggio delle attrazioni. Secondo il regista, teatro e cinema dovevano smarcarsi dal dettame narrativo e comporre il materiale offerto dalla realtà in un libero montaggio di azioni [...] autonome, momenti aggressivi (attrazioni), utili a esercitare un effetto sensoriale o psicologico sullo spettatore, dargli scosse emotive, per modellarne la psiche, orientandolo verso la conclusione ideologica dello spettacolo. Ne è un esempio la sequenza finale del film Sciopero, Carneficina, in cui, dopo un crescendo di pathos e violenza, nel momento culminante della repressione dello sciopero da parte della polizia zarista, il regista decise di alternare inquadrature degli spari sugli scioperanti in fuga con le immagini di un bue che viene sgozzato in un macello. Lo spettatore risulta scioccato dalle immagini cruente ed è portato a simpatizzare con gli operai.

    Più meditata e matura, ma di enorme efficacia visiva ed emotiva, è la sequenza della scalinata di Odessa, una delle più celebri del cinema mondiale, contenuta nel successivo La corazzata Potёmkin ( Bronenosec Potёmkin, 1926). Il film fu commissionato per celebrare il ventennale della prima rivoluzione russa (1905) e Ejzenštejn scelse di rappresentarla attraverso un episodio minore: l’ammutinamento dei marinai della Potёmkin, a Odessa, per protestare contro le condizioni malsane imposte a bordo dagli ufficiali. Il marinaio Vakulinčuk, a capo della rivolta, rimane ucciso durante gli scontri a bordo, il suo cadavere viene trasportato a terra ed esposto nel porto di Odessa. La popolazione della città va a rendergli omaggio e solidarizza con i rivoltosi, inviando loro doni e acclamandoli dalla riva. Le truppe zariste accorrono per reprimere le manifestazioni di solidarietà, travolgendo la folla che si trova sulla scalinata e sparando sulla gente inerme. I marinai ammutinati puntano i cannoni della corazzata sul quartier generale della polizia e fanno fuoco per difendere gli odessiti. Il giorno dopo il resto della flotta zarista si rifiuta di attaccare la corazzata ribelle, che scivola indisturbata tra le navi, sventolando una bandiera rossa (dipinta a mano su tutte le copie messe in circolazione). La storia si articola in cinque parti, come una tragedia classica, ognuna delle quali è costruita su un cambio di atmosfera: dalla quieta sofferenza alla ribellione, dal lutto per il marinaio ucciso alla rabbia per l’ingiustizia commessa, dalla repressione violenta della folla agli spari della corazzata verso il quartier generale zarista. Questa costruzione a contrasto è presente nel film in ogni singola componente strutturale, a partire dai fotogrammi, in cui linee dritte si alternano a linee curve, i toni scuri a quelli più chiari, i primi piani ai campi lunghi sulla folla e così via. Il regista anticipa qui la sua fase teorica successiva, quella del montaggio dialettico (o intellettuale), in cui due elementi contrapposti (tesi e antitesi) vengono fatti collidere per produrre una sintesi, capace di originare nuovi sensi, stimolando nello spettatore intense vibrazioni emotive. Il film, venduto all’estero, aprì al cinema sovietico la strada del mercato mondiale.

    Vsevolod Pudovkin (1893-1953) è l’altro grande regista di questi anni. Anch’egli aderisce a quella linea epica inaugurata da Ejzenštejn, ma per molti versi è distante da questi per convinzioni artistiche e scelte di regia. Allievo di Kulešov, aveva fatto propria la lezione del maestro sul montaggio, che per lui serviva non a far collidere immagini, bensì a comporre fotogrammi di contenuto affine per facilitare il flusso narrativo. Eliminando il superfluo, attraverso tagli netti fra le inquadrature, Pudovkin conferiva alla storia un ritmo dinamico. Se Ejzenštejn elimina il protagonista in favore della massa, Pudovkin riporta al centro la figura dell’attore. Il suo film più noto è La madre ( Mat’, 1926), tratto da un romanzo di Maksim Gor’kij, pellicola di finzione con un intreccio e una sceneggiatura tradizionali. La trama è semplice: Nilovna (l’attrice del MChAT Baranovskaja), madre del giovane operaio rivoluzionario Pavel Vlasov (Batalov), ne causa involontariamente l’arresto. Estranea alla politica, la donna ne viene con il tempo conquistata. Quando Pavel riesce a evadere dal carcere e si unisce a un corteo di scioperanti, ritrova la madre tra la folla, per spirare subito dopo tra le sua braccia, colpito a morte dalla guardia zarista. Nilovna si metterà alla testa del corteo, facendo sventolare la bandiera rossa, che la coprirà come un sudario quando da lì a poco morirà stritolata dagli zoccoli dei cavalli. Pur rimanendo all’interno dell’avanguardia, Pudovkin getta i semi per un cinema più narrativo e realistico, che finirà per attecchire stabilmente negli anni a seguire.

    Sono molti gli stili di regia che emergono in questa decade: dal cinema fortemente lirico-poetico dell’ucraino Aleksandr Dovženko, autore di film come Arsenale ( Arsenal, 1929) e La terra ( Zemlja, 1930), allo sperimentalismo di marca espressionista del duo Feks (sigla che sta per Fabbrica dell’attore eccentrico), Leonid Trauberg e Grigorij Kozincev, registi di una bellissima riduzione del Cappotto di Gogol’ ( Šinel’, 1926) con la sceneggiatura del critico formalista Jurij Tynjanov. Ma la parte più copiosa e di successo della produzione di questi anni è costituita dal cinema di intrattenimento, di cui Boris Barnet (1902-1965) e Protazanov sono fra i maggiori esponenti.

    Barnet è un ex boxeur, proveniente dal Laboratorio di Kulešov. Debutta come regista con un serial all’americana dal titolo Miss Mend (1926, tre parti, in co-regia con Fёdor Ocep), tratto da un romanzo d’avventure di Marietta Šaginjan. Ma è la commedia sentimentale La ragazza con lo scatolone ( Devuška s korobkoj, 1927) a lanciarlo definitivamente nel cinema. Il film tocca, con una levità e un senso dell’umorismo straordinari, vari temi di attualità: l’emancipazione femminile, la crisi degli alloggi, la classe emergente dei nepman approfittatori, i sogni di ascesa sociale dei giovani proletari, i matrimoni di convenienza. Ma mostra anche la protagonista che flirta contemporaneamente con due uomini: per questo il regista fu accusato di immoralità.

    La vena comico-satirica di Barnet fu felicemente confermata nella Casa sulla piazza Trubnaja ( Dom na Trubnoj, 1928), una commedia corale che descrive un caseggiato e i suoi abitanti al tempo della NEP. Il regista fece ampio uso del montaggio ritmico che conferisce uno strepitoso dinamismo musicale al film, basato sulla sceneggiatura di autori del calibro di Mariengof, Šeršenevič, Erdman e Šklovskij.

    Il regista più commerciale rimane però Protazanov, autore abile, fecondo e facilmente comprensibile di divertenti film di genere, adattati alle nuove direttive politiche. Tornato in Russia nel 1923 dopo un breve periodo di emigrazione, egli diresse nel 1924 il primo film di fantascienza sovietico, Aelita, con il Chaplin russo Igor’ Il’inskij e le magnifiche scenografie futuriste di Aleksandra Ekster. Il film, basato su un romanzo di Aleksej Tolstoj, narra di una spedizione sovietica su Marte, intrecciando linee narrative e generi diversi: il melodramma, il poliziesco, la fantascienza e l’antiutopia.

    Il cinema di Stalin (1930-1953)

    Dalla seconda metà degli anni Venti il numero di film sovietici in distribuzione superò quello delle pellicole straniere, al punto da far sperare di non dovere più dipendere dalle costose importazioni estere. Eppure il Sovkino e i suoi amministratori, le cui politiche avevano reso possibile questo risultato, erano oggetto di attacchi continui: venivano accusati di produrre film ideologicamente nocivi, sperperando enormi quantità di denaro.

    Nel marzo 1928 si tenne la prima conferenza del Partito comunista bolscevico sul cinema, nel corso della quale si sottolineò la necessità di sradicare qualunque elemento borghese dagli schermi sovietici e di produrre film che avessero un’influenza ideologica positiva sulle masse. Da lì a poco, si diede avvio alle prime purghe negli enti statali e nelle associazioni che si occupavano di cinema: furono allontanati coloro che erano giudicati non in linea con i principi della cosiddetta Rivoluzione Culturale, inaugurata in quei mesi. S’incentivava la produzione di opere artistiche comprensibili alle masse, autenticamente comuniste e prive di qualsiasi sperimentalismo o ricercatezza formale (nel cinema erano da privilegiare storie realistiche, trame semplici, approfondimenti psicologici e recitazione di attori professionisti).

    Nel giugno 1930 il Sovkino fu sostituito dal Sojuzkino, la cui direzione fu affidata a Boris Šumjackij (1886-1938). Da quel momento fu lui a decidere la linea del cinema sovietico. Il risultato fu che i film stranieri sparirono dalla circolazione e la produzione sovietica subì un drastico crollo: si passò da 148 film usciti nel 1928 ai 35 del 1933. Tuttavia, le pellicole prodotte furono distribuite in più copie (circa 1500 per film) e questo garantì la presenza degli spettatori nelle sale, il cui numero crebbe sensibilmente.

    Gli anni Trenta videro l’esordio del cinema sonoro. Nel 1926 l’americana Warner Bros. aveva prodotto il primo film in cui i suoni erano sincronizzati con le immagini. In URSS si dovette aspettare fino al 1931 per avere il primo lungometraggio sonoro, prodotto secondo il sistema Tagefon (prese il nome dal suo inventore Pavel Tager). Il cammino verso la vita ( Putёvka v žizn’) di Nikolaj Ekk mescolava musiche popolari, rumori di scena e qualche dialogo, ma faceva ancora uso degli intertitoli. Ambientato nei primi anni Venti, il film racconta la storia di alcuni besprizorniki (bambini rimasti orfani dopo la guerra e la Rivoluzione), sottratti alla strada e organizzati in una comune di lavoro dal commissario Sergeev (Batalov). Presentato alla prima edizione della Mostra di arte cinematografica di Venezia del 1932, il film fu giudicato dal pubblico il migliore per la regia.

    Non bisogna pensare tuttavia che con l’avvento del sonoro il cinema muto scompaia in URSS: film muti e sonori furono prodotti in parallelo per tutta la prima metà degli anni Trenta, e solo dal 1935 i secondi superarono in quantità i primi.

    Il fenomeno più importante del decennio furono le cine-commedie musicali, che rispondevano alla richiesta staliniana di un’arte sovietica piena di energia e di gioia di vivere (nel periodo del massimo terrore!). Due furono i registi che eccelsero in questo genere: Grigorij Aleksandrov (1903-1983) e Ivan Pyr’ev (1901-1968).

    Il primo era un collaboratore di Ejzenštejn, che aveva accompagnato negli USA e in Messico con l’incarico ufficiale di studiare il cinema sonoro. La sua prima commedia musicale, Tutto il mondo ride ( Vesёlye rebjata, 1934), chiaramente ispirata ai musical hollywoodiani, vedeva la partecipazione della band jazzistica di Leonid Utёsov, protagonista del film. Il pastore-musicista Kostja Potechin, dopo una serie di rocambolesche ed esilaranti avventure, finisce a Mosca, dove rincontra per caso la cameriera Anjuta (Ljubov’ Orlova, moglie di Aleksandrov, futuro volto-immagine delle sue commedie e la star più popolare dell’epoca), conosciuta al villaggio e segretamente innamorata di lui. Anche Anjuta ha estro per la musica e il canto, e i due finiscono per esibirsi al Teatro Bol’šoj, dove il loro amore trionfa e la coppia ottiene uno straordinario successo. Il film sembra suggerire che in Russia tutti hanno delle possibilità, e anche un vaccaio e una serva possono divenire star acclamate dall’intero Paese. Le canzoni del film, su testi di Vasilij Lebedev-Kumač e con musiche di Isaak Dunaeveskij, conobbero un’enorme popolarità e, in particolare, La marcia dell’allegra brigata ( Marš vesёlych rebjat) fu scelta come inno degli stacanovisti per chiudere il loro congresso del 1935.

    Aleksandrov realizzò una commedia musicale ogni due anni, tutte opere ottimistiche, piene di gioia di vivere e irrimediabilmente kitsch: Il circo ( Cirk, 1936), Volga-Volga ( Vol’ga-Vol’ga, 1938) e Il radioso cammino ( Svetlyj put’, 1940), storia di una moderna Cenerentola che da serva diventa operaia stacanovista ed è infine eletta deputata al Soviet supremo. È il collettivo che favorisce la crescita dei protagonisti, e i loro successi sociali e politici sono il risultato degli sforzi comuni.

    Se le commedie di Aleksandrov sono ambientate in contesti urbani, Pyr’ev ritrae la vita delle campagne e delle aziende agricole collettive ( kolchoz). I suoi film ruotano intorno a un triangolo amoroso: l’eroina, una lavoratrice d’assalto (sempre interpretata da Marina Ladynina, moglie del regista), è contesa tra due uomini. Il suo cuore è conquistato da chi riesce meglio nel lavoro, battendo qualche record di produzione. L’amore, dunque, e

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