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Memorie dalla Montagna di Rame
Memorie dalla Montagna di Rame
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E-book277 pagine3 ore

Memorie dalla Montagna di Rame

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L'opera di Sergej Prokof'ev, ucraino di nascita poi émigré in occidente infine "Artista del Popolo" negli anni più bui dell'era staliniana, ha una sua peculiarità nel panorama musicale europeo della prima metà del Novecento, per quanto fondamentalmente estranea al ruolo rivestito negli stessi anni dalle avanguardie storiche. Nondimeno il suo apporto al partito "progressista" della musica d'arte è indubbiamente significativo, con un corposo catalogo all'interno del quale il genere del balletto assume una particolare rilevanza avendo caratterizzato l'intera sua vicenda professionale, dal modernismo dei Ballets Russes di Djagilev negli anni Venti alla rivisitazione in ottica sovietica del modello čaikovskijano. Questo volume esplora le tappe del percorso coreografico del compositore, che fa di lui forse il più importante autore di musica per balletto del Novecento dopo Stravinskij, mettendolo in rapporto al resto della sua produzione (opere, sinfonie, colonne sonore, lavori cameristici) sullo sfondo di un'esistenza intensa e "partecipata" negli anni e nei luoghi che hanno cambiato per sempre la Storia del XX secolo.
LinguaItaliano
Data di uscita6 set 2023
ISBN9791221492460
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    Anteprima del libro

    Memorie dalla Montagna di Rame - Antonio Curcio

    NOTA DELL’AUTORE

    La biografia di un musicista, in particolare di un compositore, intesa come resoconto critico del suo percorso umano e professionale, può avvalersi di prospettive d’approccio definite anche da specifici ambiti nei quali egli ha operato. Nel caso di Prokof'ev il dominio del balletto è tra i più stimolanti, trattandosi di un genere coltivato nell’intero arco della sua parabola creativa, con esiti che fanno di lui uno dei massimi compositori per danza del Novecento. Questo volume non tratta dell’aspetto meramente coreografico dei balletti rivestiti della sua musica (per quanto inevitabili saranno i riferimenti alle relative messe in scena) ma di quella musica presa per sé stessa, del ruolo esercitato dalla componente musicale di quegli allestimenti ai fini della loro resa teatrale e della loro fortuna. In altre parole il volume esplora la musica per balletto composta da Prokof'ev, che ci ha lasciato sette lavori (otto se si include il progetto d’esordio, non portato a termine, che successivamente prese le forme del suo primo importante lavoro sinfonico) la cui eterogeneità stilistica, e la stessa varietà di contesti drammaturgici affrontati, è nel contempo puntuale specchio di un percorso compositivo generale assai diversificato. A questo ci si riferirà in margine all’approfondimento dei titoli consegnati ai coreografi, con una particolare attenzione per i lavori di natura rappresentativa, quelli che rimandando ad elementi extra-musicali presentano maggiori analogie con le partiture ballettistiche: opere, musiche di scena, colonne sonore. Per questi motivi il saggio, concepito come divulgativo e senza pretese analitiche, può anche inquadrarsi in un più ampio contesto storiografico della prima metà del Novecento musicale.

    L’esposizione cronologica dei balletti di Prokof'ev rivelerà pertanto una successione di tappe all’interno del suddetto percorso, nei tre periodi nei quali generalmente lo si suddivide: quello russo, quello occidentale, infine quello sovietico. In tale tracciato si evidenzieranno attinenze e affinità tra le sue due grandi diramazioni, quella dei lavori rappresentativi e quella della musica pura, i generi sinfonico e cameristico anch’essi sovente caratterizzati, per l’innato senso drammatico dell’autore, da un gesto alquanto teatrale. Del resto l’opera di Prokof'ev richiede indubbiamente uno sguardo globale, apparendo come un tutto unitario, «tasselli di un mosaico che va guardato, analizzato, valutato nel suo insieme»,¹ non scomponibile per ambiti o riconducibile a lavori presi singolarmente. Infine, in questo quadro, non ci si potrà esimere dalle contestualizzazioni biografiche di un vissuto particolarmente intenso e partecipato, nel quale si riflettono i differenti contesti sociopolitici attraversati nel corso di un quarantennio là dove si faceva la storia del Novecento: dai fermenti culturali nella Pietroburgo pre-bolscevica ai prodromi dei ruggenti anni Venti negli Stati Uniti, dalle luci ritrovate dei palcoscenici parigini dopo la Grande Guerra al salto nel buio del ritorno in Russia a metà degli anni Trenta, quasi un ineluttabile appuntamento col proprio destino nel momento in cui lo stalinismo chiudeva definitivamente le porte alle libertà artistiche e individuali. Una vita quindi, quella di Prokof'ev, indissolubilmente intrecciata agli eventi epocali della Storia della prima metà del XX secolo, eventi che quasi sempre hanno condizionato, in maniera più o meno diretta, la realizzazione e gli esiti dei suoi progetti professionali.

    Potrà, in definitiva, essere più d’uno il livello di fruizione del presente volume: da profilo biografico di uno dei più grandi compositori del Novecento a una panoramica del suo percorso creativo, in particolare di quanto concepito per il palcoscenico, a un più specifico approfondimento della sua produzione coreografica, focalizzato primariamente sul rapporto tra invenzione musicale e valenza drammaturgica, anche come supporto all’ascolto o alla visione dei balletti a teatro o in video, che dovrà in ogni caso sempre fare i conti con le riletture operate da scenografi, coreografi, registi.

    L’augurio è che queste pagine possano stimolare la conoscenza di quello che, forse con la sola eccezione dell’americano Stravinskij, è stato il più grande compositore del Novecento nato sul suolo russo, soprattutto incoraggiare la scoperta di alcuni dei suoi lavori meno noti. Una musica, quella di Prokof'ev, dalle tante provenienze e sfaccettature, eppure dall’anima così profondamente impregnata dell’humus di quella terra, di quella patria, per amore della quale egli rinunciò a un agiato e probabilmente gratificante prosieguo di carriera in occidente, lontano dalle sofferenze e umiliazioni sulle quali, invece, calò amaramente il sipario della sua esistenza.

    ***

    La traduzione degli estratti da pubblicazioni in francese e inglese (per questi ultimi grazie a Ottavia Beneventi per i suggerimenti) è dello scrivente. La trascrizione dei nomi russi rispetta le norme più recenti di traslitterazione dell’alfabeto cirillico, si sono pertanto uniformati dove necessario anche le citazioni tratte da saggi o monografie; sono comunque stati italianizzati i nomi derivati come gli aggettivi (ad es. prokofieviano). Si è inoltre optato per rendere meno ridondante il testo, tranne rare eccezioni, di non riportare i nomi propri russi completi di patronimico, consuetudine come si sa comunissima in quella lingua.

    Nel testo è stato utilizzato il termine inglese scenario per indicare il piano dettagliato di un balletto, secondo la generica definizione presente sui dizionari anglosassoni written outline of a play with details of the scenes, etc (quindi fondamentalmente nell’accezione di sceneggiatura) invece di libretto, più attinente alla parte letteraria di un’opera e al teatro musicale in genere. Nel caso di Prokof'ev, solitamente anche coautore degli adattamenti per i suoi balletti, la definizione dello scenario precedeva sempre l’inizio della composizione della musica ed era accompagnata dalle previste, spesso molto accurate, tempistiche dei relativi numeri musicali.

    Si è scelto, infine, di non produrre una discografia e videografia dei balletti oggetto del volume, coerentemente al suo taglio storiografico che esula dall’aspetto meramente interpretativo/rappresentativo dei titoli esaminati. Nondimeno (dando per scontata la qualità artistica o il valore storico di quanto giunto a registrazione) in tempi di piattaforme digitali e accesso pressoché immediato a una enorme quantità di materiali audio-video, potrà il lettore stesso esplorare e confrontare esecuzioni e messe in scena, in tal modo stimolando e affinando i propri strumenti critici sulla base di quanto esposto nelle pagine che seguono.

    ___________________

    ¹ Piero Rattalino, Sergej Prokofiev. La vita, la poetica, lo stile, Zecchini Editore, Varese 2005, p. XII. Laddove non altrimenti specificato tutti i richiami in nota a Rattalino si riferiscono a questa pubblicazione.

    INTRODUZIONE

    In quel passaggio di due battute, avrebbero potuto esserci qualcosa come sessantaquattro note! […] Lui fissò il passaggio in silenzio, ci rifletté sopra, poi prende una piccola gomma, cancella una delle sessantaquattro note e la sostituisce con un’altra. Allora sarei stato pronto a buttarmi giù dalla finestra, perché era esattamente quella nuova nota che aggiungeva il tocco del genio al passaggio. E mi chiedevo: perché non l’ho trovata io la nota giusta? Una nota tra sessantaquattro era sufficiente a far la differenza tra uno zotico incapace e un genio!²

    Il genio che riemerge dai ricordi di Mtislav Rostropovič è Sergej Sergeevič Prokof'ev (1891-1953), all’epoca dell’aneddoto ormai al capolinea della sua parabola artistica e umana, provato nello spirito e nel corpo dalle umiliazioni inflittegli negli ultimi anni da un regime che lo aveva preso inopinatamente di mira, al pari (e più) degli altri compositori che costituivano allora il fronte progressista della musica sovietica. Circa quarant’anni era durata la sua vicenda professionale, sin da quando l’URSS non esisteva ancora, e lungo quei quattro decenni la sua creatività aveva spaziato in pressoché tutti i campi della produzione musicale, dai generi rappresentativi (opere, balletti, musiche di scena, musiche per film) al grande sinfonismo e concertismo, dalle diverse ramificazioni della musica da camera a un corpus per pianoforte tra i più importanti della letteratura pianistica del Novecento e non solo. Una versatile, inesauribile vena creativa capace di raggiungere spesso livelli assoluti, che lo colloca nel club esclusivo dei grandissimi del ventesimo secolo, per quanto la notorietà presso il grande pubblico sia essenzialmente dovuta a un ristretto numero di composizioni, soprattutto sinfoniche o destinate al palcoscenico, tra cui almeno un paio dei balletti oggetto del presente volume.

    Nondimeno la figura di Prokof'ev, nel panorama musicale europeo del secolo scorso, ha una sua peculiarità, è a suo modo singolare: audace sperimentatore ma senza rinnegare forme e linguaggi tardoromantici; russo fino al midollo eppure ricettivo a qualsiasi stimolo l’occidente gli offrisse (Aaron Copland lo definì «compositore profondamente nazionale [che] sa parlare un linguaggio universale»³); infine, insieme al connazionale Rachmaninov, estrema propaggine novecentesca della figura di compositore-pianista itinerante (per quanto dalle sue esecuzioni fosse più la sensibilità di musicista completo ad emergere che non il virtuoso trascinatore di folle), egli in quel panorama occupa idealmente una posizione più o meno equidistante dallo stesso Rachmaninov (almeno per la prima parte di carriera), da Stravinskij, di dieci anni più anziano nei cui confronti nutrì sempre un atteggiamento ambivalente di ammirazione-rivalità, e da Šoštakovic, quest’ultimo di un quindicennio più giovane con cui condivise invece il destino fatale di compositore sovietico negli anni più bui dell’era staliniana.

    Non fu un rivoluzionario Prokof'ev, un innovatore che minò alle fondamenta i canoni estetici e linguistici della musica d’inizio Novecento: a differenza di Schönberg, di Debussy, di Stravinskij, di Bartók, egli non inventò nulla, anzi la sua sostanziale fedeltà al sistema tonale, l’indifferenza per le sirene del neoclassicismo (ai cui algidi e levigati profili rispose, anzi, piegando il suo gesto stilistico verso un caldo e rassicurante lirismo), infine l’assoluta impermeabilità alla dodecafonia, determinano una collocazione ben poco avanguardista nel cerchio dei grandi della prima metà del secolo breve: una posizione un po’ appartata, analoga a quella di un Richard Strauss o di un Ferruccio Busoni, eppure distintiva e riconoscibilissima nella geografia musicale del primo Novecento. Tuttavia, e qui è il paradosso, stiamo parlando di un compositore che agli occhi del pubblico resta un’icona della stagione del modernismo in musica, in particolare per il periodo che va dalla Grande Guerra alla fine degli anni Venti.

    Il ruolo di Prokof'ev è pertanto difficile da definire in maniera univoca, e per il suo multiforme gesto creativo e per questa ambiguità di fondo, per la quale l’etichetta di modernista, attribuitagli soprattutto negli anni occidentali, rivela in filigrana venature liriche di matrice inequivocabilmente ottocentesca, quelle stesse che in Russia avevano condotto alla nuova coscienza nazionalistica del Gruppo dei Cinque.⁴ È questo rispettoso retaggio di passati musicali più o meno recenti che lo differenzia maggiormente dal primo Stravinskij, colui che prendendo il testimone della musica russa dall’ultimo grande del secolo precedente, Nikolaj Rimskij-Korsakov, la sottopose all’azione tellurica di un processo disgregatore capace di affrancarla definitivamente dai modelli franco-tedeschi, che da Glinka in poi, passando per le visionarie intuizioni di Musorgskij, l’avevano caratterizzata. Se questo rapporto col passato, da parte dell’autore della Sagra della primavera, si attuò attraverso la lente deformante di una rilettura autenticamente modernista, di una concezione dell’arte come espressione di nuovi linguaggi e valori, Prokof'ev, al contrario, sentì sempre il bisogno di non rompere il legame privilegiato con l’ascoltatore, ricercando sempre una dimensione comunicativa che fondamentalmente non lo discostava dal musicista ottocentesco, che nel pubblico trovava il principale interlocutore. Ciò ne fa, riprendendo la valutazione sociologica di Massimo Mila, una sorta di

    araldo di una delle soluzioni proposte ai problemi della musica nel mondo moderno […] caposcuola di tutta quella tendenza che, in vari paesi e attraverso un gruppo eterogeneo di musicisti d’ogni provenienza […] si propone di riportare la musica vicino agli uomini e magari restituirle una vera e propria funzione sociale.

    Tuttavia, altro apparente paradosso, questo stesso Prokof'ev non poté fare a meno della propedeutica azione devastatrice proprio di Stravinskij: per un ventenne anticonformista e ribelle, come quello che fuori dalle mura del conservatorio di Pietroburgo cercava i suoi primi spazi di compositore, il solco tracciato dall’autore del Sacre si rivelava il terreno congeniale per sviluppare quella sua predilezione per strutture meccaniciste e urbane, per ritmiche secche e taglienti, un linguaggio sfrontato e spesso irriverente nei confronti di quella tradizione con la quale, nel contempo, lasciava intatti i ponti. Quest’ambivalenza fra tradizione e innovazione ha sempre spiazzato musicologi e colleghi compositori, che si sono spesso divisi in maniera netta in merito alla sua musica, in particolare quella degli anni occidentali: da una parte i tradizionalisti che la consideravano non solo anti-accademica ma materica ed estremista (ma che nel contempo non potevano restare indifferenti alle suggestioni del suo afflato lirico), dall’altra i radicali, per i quali proprio quell’immediatezza e affabilità melodica era il palese limite di un compositore incapace di andare sino in fondo nella ricerca di un linguaggio pienamente d’avanguardia.

    In realtà, come detto, la personalità di Prokof'ev è da mettere a fuoco anzitutto nella logica del rapporto dell’opera d’arte con colui che ne è il primo destinatario, il pubblico, quella trasmissione e comunione di contenuti che da sempre ne costituisce un aspetto primario. Ciò non vale soltanto per gli ultimi tre lustri della sua vita, trascorsi in URSS, in cui egli dovette fare i conti con le imposizioni e i pesanti condizionamenti delle direttive culturali del regime, perché finanche nelle trasgressive composizioni giovanili, al di là del gesto musicale eclatante e indubbiamente modernista, scavando un po’ la turbolenta superficie ci si trova davanti, è vero, a un arricchimento delle strutture armoniche e sintattiche, ma pur sempre all’interno degli steccati linguistici tardoromantici. D’altro canto la sua musica si fa portatrice, non meno di altre, di quelle istanze extra-musicali che hanno contrassegnato i primi tre decenni del Novecento europeo, dal primitivismo al simbolismo, dall’espressionismo alla dinamicità futurista. Mai, però, in una dimensione autoreferenziale e chiusa, al contrario sempre in una logica comunicativa che a sua volta non escludeva quei tratti ironici, grotteschi, sarcastici (analoghi a quelli che caratterizzeranno la prima fase del percorso compositivo di Šoštakovic) che si ritrovano nelle sue composizioni e che così indigesti dovevano rivelarsi per l’ala più reazionaria della critica in madrepatria.

    A queste considerazioni ne va aggiunta un’altra, più privata, quella del rapporto con la sua professione, col mestiere di compositore: Prokof'ev considerava l’atto creativo idealmente sacro, un processo quasi trascendente inattaccabile da qualsiasi contingenza esterna. Una ragione per esistere (e per resistere) che dovette apparirgli come l’estrema àncora di salvezza quando, nell’ultima nefasta stagione della sua vita, la sua creatività andò a sbattere contro il muro delle imposizioni che, in nome dell’arte di Stato, lo costrinsero ad adeguare la sua musica a regole altrui, prestarla a contesti alcuni dei quali imbarazzanti: ma senza mai smarrire quella che Simon Morrison definisce creative integrity, la fede nel valore dell’atto creativo e nella portata morale e sociale dell’opera d’arte.

    Il profilo sin qui tracciato della personalità di Prokof'ev emerge con particolare evidenza nel folto gruppo di lavori di genere rappresentativo (opere, balletti, musiche di scena, colonne sonore), quelle di più facile presa sul pubblico per il diretto rimando a un contesto extra-musicale, nonché nelle non poche composizioni destinate all’infanzia, generalmente dalla connotazione narrativa, verso la quale egli dimostrò sempre una particolare sensibilità. Se si guarda all’affollato catalogo delle sue composizioni ci si accorge del peso che vi hanno i lavori per il palcoscenico, almeno otto opere e sette balletti, tanto che si potrebbe dire, un po’ come per Mozart se ci è concesso l’accostamento, che Prokof'ev fu primariamente uomo di teatro, come dimostra del resto, pur nei ristrettissimi margini di manovra concessigli negli anni sovietici, la mai doma ricerca di nuove formule drammaturgiche. Tuttavia, suggerisce Andrew Porter, gli mancarono probabilmente sano pragmatismo e abilità da navigato drammaturgo sul campo, come indirettamente dimostrato dalla poca fortuna avuta dalle sue realizzazioni di teatro musicale: pur quasi sempre con musica di indubbio livello qualitativo, Prokof'ev (lui stesso era solitamente l’autore dei suoi libretti) sembra mancare di cogliere l’essenza, l’autentica natura di un testo per restituirlo in termini operistici efficaci. Eccezioni sono L’amore delle tre melarance e L’Angelo di fuoco che, al contrario, egli riscrive rivestendo i testi originali di una propria visione, e che non a caso sono oggi considerate le sue opere meglio riuscite.

    Più favorevole rispetto allo sfaccettato universo operistico era il dominio del balletto, fortemente radicato in Russia nella grande tradizione che celebrava i suoi riti nei templi del Mariinskij o del Bol'šoj, un genere più duttile e meno suscettibile di interpretazioni trasversali. Proprio nel campo del balletto Prokof'ev trovò il terreno propizio per sviluppare le doti in lui innate, efficace senso drammatico e plastica inventiva melodica, manifeste ad esempio nell’immediata definizione del mood espressivo (bastano le prime note degli incipit per immergerci nell’atmosfera ambientale ed emotiva dei suoi balletti) oppure nella sempre penetrante caratterizzazione dei personaggi, qualità che andranno man mano affinandosi lungo il percorso che dal mancato balletto sciita condurrà al Fiore di pietra. Sono due le fasi, ben distinte, in cui questo percorso si snoda, quella russa-occidentale e quella sovietica, e in entrambe il compositore raggiungerà livelli di assoluta eccellenza. Poco l’avrebbe fatto supporre agli inizi di carriera, quando negli ambienti musicali pietroburghesi dei primi anni Dieci il balletto era considerato un genere minore (addirittura degenerato e noioso secondo Rimskij-Korsakov⁸) e il testimone čaikovskijano era stato raccolto da un compositore non di primissima fascia come Glazunov:⁹ probabilmente anche per questi motivi il giovane Prokof'ev non se ne sentiva particolarmente attratto negli anni di conservatorio, nemmeno successivamente alla scoperta dei primi capolavori stravinskijani. Sarà Sergej Djagilev, il geniale creatore dei Ballets Russes, a dare un’impronta decisiva alla sua maturazione, cambiando i programmi del compositore poco più che ventenne che, probabilmente, non aveva mai preso in considerazione l’idea di scrivere un balletto: a lui, che gli confidava di voler scrivere un’opera sul Giocatore di Dostoevskij, l’impresario rispondeva che era il balletto e non l’opera la forma teatrale dell’avvenire, il genere su cui puntare. E paradossalmente, a differenza del genere prediletto dal quale avrà più dolori che gioie, saranno proprio i balletti una delle maggiori fonti di guadagno (di fama come di denaro) per Prokof'ev, per quanto egli si ostinerà tutta la vita a considerare quella dell’opera la via maestra verso la definitiva consacrazione.

    Al pari delle opere, delle sinfonie e dei lavori cameristici, i balletti di Prokof'ev, coprendo pressoché l’intero arco della sua carriera compositiva, riflettono la progressiva evoluzione del suo stile, permettendo pertanto la ricerca di elementi comuni col resto della sua produzione dalla metà degli anni Dieci alla fine degli anni Quaranta. Arduo ritrovarvi, per l’eclettismo stilistico che li contraddistingue e la stessa varietà di soggetti affrontati (dall’aspro paganesimo del progetto sciita alle grandi creazioni neoromantiche di Cenerentola e del Fiore di pietra), delle costanti linguistico-formali che ne attraversino metodicamente l’intero corpus. Tuttavia, pur in tale eterogeneità, nel percorso che da Ala et Lolli condurrà ai balletti sovietici è possibile individuare, oltre a un certo grado di autonomia rispetto alle posizioni estetiche di Djagilev e Stravinskij da cui quel percorso aveva preso le mosse, una insita coerenza stilistica: come sostiene Stephen D. Press, a cui si deve lo studio più esauriente sui balletti che Prokof'ev scrisse per Djagilev, questa sorta di invisibile fil rouge che lega lavori apparentemente così diversi è da ricercare nella valenza prettamente melodica dell’invenzione prokofieviana; meglio ancora nell’aspetto eminentemente lirico, ravvisabile (con la sola eccezione forse del virtuale balletto sciita) pressoché in tutti i titoli, finanche nei modernisti Chout e Le pas d’acier, e che guadagnerà man mano sempre più spazio nelle partiture successive. Il lirismo, quindi, come elemento ricorrente e centrale in quel percorso, altro fattore che ne marca la distanza dalla produzione stravinskijana, nella quale si ritrova per certi versi la sua negazione. D’altra parte, se si guarda bene, lo stile graffiante e ostentato del primo

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