One-eyed Sam
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Anteprima del libro
One-eyed Sam - Gloria Venturini
AbelBooks
ISBN 9788867522453
Prima edizione febbraio 2021
Copyright © Abel Books – Piergiorgio Leaci editore
Via Milano 44 – Novoli
www.abelbooks.net
Gloria Venturini
ONE-EYED SAM
AbelBooks
A tutti i Sensa Süg di questo mondo
che non hanno bisogno ritagliarsi un loro spazio nella società
perché senza di loro
l’umanità intera sembrerebbe uno spazio vuoto
e senza colore.
PROLOGO
Apocalisse nel deserto
Mosca nera su muro bianco.
Sarà lì da ore
immagino.
Forse è morta
penso.
Le mosche tendono a perdere ogni barlume di grazia in quel loro frenetico spostarsi da un luogo all’altro, di conseguenza questa, essendo tanto immobile ed elegante, dev’essere sicuramente morta
ipotizzo.
Il mio appartamento ha pareti bianche che riflettono stancamente la luce del giorno, un tenue accenno di vita che scivola all’interno da finestre strette e opache: mi sembra di vivere in uno di quegli angoscianti e criptici cortometraggi di David Lynch, dove stanze debolmente illuminate e dall’arredamento dozzinale vengono di colpo invase da conigli giganti elegantemente vestiti.
Solo che a casa mia non succede mai niente di così sorprendente e poi – detto tra noi – non mi piace proprio Lynch, non l’ho mai capito. Ricordo che durante gli anni dell’Università i miei compagni di corso passavano ore nei cortili della facoltà, sotto le grandi magnolie, a discutere di come il brillante regista avesse costruito Mulhollan Drive come un nastro di Moebius o sciorinando termini come esoterismo
e meditazione trascendentale
ogni volta che qualcuno nominava la serie TV Twin Peaks.
Solo che a me queste cose non interessavano, mi sforzavo di mostrare un certo coinvolgimento perché era quello che ci si aspettava da un giovane brillante iscritto alla facoltà di Scienze delle Comunicazioni, ma nella realtà nessuno dei corsi che frequentavo suscitava davvero il mio interesse. Le uniche lezioni alle quali partecipavo con piacere erano quelle di editoria multimediale ma unicamente per i notevoli attributi fisici dell’assistente del professore alla quale comunque non sono mai riuscito ad avvicinarmi: persino il giorno dell’esame il caso volle che fosse il docente a interrogarmi e non lei.
A poca distanza dalla parete bianca, appoggiata su un piccolo tavolino nero, c’è una statuetta in legno di Buddha, circondata da bandierine colorate con tonalità celesti, rosa shocking e verdi smeraldo. Ho provato spesso ad immaginarmi un simile oggetto adagiato sulle esotiche e dorate spiagge di Goa ma inevitabilmente la mia mente riesce solo a proiettarlo in qualche squallido mercatino domenicale dalle pretese etniche: probabilmente la colpa è solo mia, non ho abbastanza immaginazione. La statuetta apparteneva ad Annica, la mia ex ragazza (l’unica a essere sinceri), che per un breve periodo aveva deciso che il mio essere così misterioso si armonizzava bene coi suoi capelli rasta, il suo adorato yoga e la scelta vegana. Dopo alcuni mesi però – svelato finalmente il mistero della mia essenza (ovvero che non possedevo nessuna profondità insondabile o pensieri trascendentali, solo non parlavo molto) – mi aveva mollato, lasciandosi dietro come unica traccia del suo passaggio nella mia casa del tofu scaduto, un vago aroma di patchouli e il povero Siddharta ricoperto di bandierine tibetane. Ricordo che la sera in genere uscivamo con i suoi amici per andare a bere qualcosa nel bar vicino a casa: non mi sono mai sentito a mio agio con l’alcool, non capisco il senso dei giramenti di testa, della nausea e degli sbalzi d’umore repentini nascosti in fondo al bicchiere. Per trarmi d’impaccio quindi avevo confessato alla comitiva di essere irrevocabilmente astemio. Qualche battuta compassionevole sul mio triste stato e mi ero liberato della noiosa incombenza di dover giustificare ogni sera il mio desiderio di sobrietà. Così bevevo Coca Cola e li osservavo cambiare: il tono della voce si alzava, le parole erano meno nitide, i discorsi tendevano a ripetersi e, in definitiva, più loro si ubriacavano e si divertivano più io mi annoiavo.
Se zoomiamo ancora un po’, dopo il tavolino nero sormontato dal Buddha si arriva al divano, dolce cimelio della mia infanzia, ereditato dalla nonna paterna, una severissima e mastodontica bergamasca – una matriarca cresciuta nelle valli alpine macinando mulattiere e mungendo mucche. La domenica io e mio cugino passavamo interminabili ore inventandoci mirabolanti passatempi da salotto mentre gli adulti si dilungavano in digestivi alle erbe; quando nessuno ci guardava ci piaceva metterci a saltare come i disperati sul divano della nonna, fingendo di essere pirati all’arrembaggio. La vecchia però se ne accorgeva sempre e in quei casi ci obbligava a passare il resto del pomeriggio seduti in cucina coi grandi, ad ascoltare poco avventurosi problemi di lavoro e pettegolezzi degni delle più aride perpetue riunite in chiesa per il rosario. Anni dopo l’agognato divano era passato a me ma la voglia di saltarci sopra si è era ormai affievolita.
Ed infine, adagiato sul divano, io.
L’oggetto nella stanza su cui meno c’è da raccontare. Una figura in negativo, di cui solo si può descrivere cosa non è: mai avuto grandi passioni o immensi amori, mai fatto incorreggibili errori o preso fondamentali decisioni.
Anche il mio aspetto tradisce la banalità della mia esistenza: sono più basso che alto, magro ma non tonico, occhi scuri di medie dimensioni e neanche un accenno di barba; solo i miei capelli sono notevoli, molto folti e neri, però li taglio sempre corti per cui non si notano. Non sono estroverso o artista, non sono incisivo né assertivo, non ho il polso di un matematico, il cuore del pompiere, né lo sguardo del filosofo.
Ma, ciò che è peggio, non sono un problem solver, né un team leader, non ho viaggiato, non sono un gran pianificatore, ho una mediocre conoscenza del computer e parlo solo italiano e inglese (poco).
Non ho particolari soft skills né hard skills. Niente skills per me, solo trentadue anni e la necessità d’inserirmi nel mondo; domani mattina ho l’ennesimo colloquio di lavoro, stavolta per un’azienda che vende pali d’illuminazione per piattaforme petrolifere. Mai saputo niente sui pali, forse dovrei leggere qualcosa, informarmi. Solo che non servirebbe a molto temo, non sono uno che fa colpo io.
Sicuramente uno degli altri candidati sarà più affascinante, brillante o interessante, lo charme è indispensabile, soprattutto se si vuol vendere pali; probabilmente dovrei improvvisare uno spettacolo folkloristico da majorette, proprio lì, davanti a tutti, in sede di colloquio, facendo roteare pali e bastoni a ritmo di una fanfara: magari mi considererebbero un candidato che sa dimostrare un’appassionata affinità col mondo dei pali, un ottimo Brand Ambassador!
Ricordo che una volta durante un colloquio per un lavoro in un negozio di accessori da uomo a Milano, nel disperato tentativo di apparire disinvolto ho raccontato una barzelletta che avevo letto il giorno prima su internet: non è andata bene, al selezionatore mancava il senso dell’umorismo.
Non sono neanche dotato di quel tanto di fantasia necessaria per inventarmi qualche aneddoto interessante sul mio passato, inoltre sono sicuro che se mentissi mi diventerebbero rosse le orecchie e inizierei a sudare. Mai farsi vedere nel panico se il tuo lavoro è vendere qualcosa, specialmente pali, magari poi si scopre che gli acquirenti sono cartelli, probabilmente colombiani, sicuramente della droga.
Ecco. Un altro esempio di come, prima di ogni colloquio, confusione e deconcentrazione siano le mie compagne predilette.
Vorrei poter chiamare un amico, qualcuno in grado di motivarmi e d’impedirmi di smarrire la strada in questo labirinto celebrale fatto di nebbia, confusione