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Prossimo al naufragio
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E-book195 pagine2 ore

Prossimo al naufragio

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Info su questo ebook

A quel tempo avevo quaranta anni e cominciavo a sognare di guadagnarmi da vivere portando in barca a vela altre persone; mi sembrava che fosse una vita vissuta al massimo della libertà possibile.

Il contratto era firmato e la barca era diventata mia. Emozione: tanta; eppure non era la mia prima barca. Ne avevo avute altre tre prima di questa. La leggerezza che mi ha portato all'acquisto sconsiderato mi è quasi incomprensibile anche oggi a distanza di anni.

Al momento della firma avevo avuto messaggi premonitori che mi sconsigliavano l'acquisto, ma mi ero innamorato di quella barca e, quando ci si innamora, il raziocinio non viene ascoltato.
LinguaItaliano
Data di uscita26 feb 2021
ISBN9791220324984
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    Anteprima del libro

    Prossimo al naufragio - Giorgio Parra

    casuale.

    OGGI

    Il contratto era firmato e la barca era diventata mia. Emozione: tanta; eppure non era la mia prima barca. Ne avevo avute altre tre prima di quella. La leggerezza che mi aveva portato all’acquisto sconsiderato mi è quasi incomprensibile anche oggi a distanza di anni.

    Al momento della firma avevo avuto messaggi premonitori che mi sconsigliavano l’acquisto, ma mi ero innamorato di quella barca e, quando ci si innamora, il raziocinio non viene ascoltato.

    1965

    Tutto era iniziato da molto lontano.

    Avevo diciannove anni e, appena diplomato geometra, mi iscrivo alla facoltà di Ingegneria dell’Università di Pisa. E’ il Novembre del 1965 e, pieno di belle speranze, parto per Pisa e comincio a frequentare le lezioni. Mi accorgo subito che il compito che ho davanti appare sopra le mie forze. Purtroppo, per ragioni varie, non avevo fatto il liceo e la mia preparazione matematica era quasi nulla. Vado a lezione e non capisco un’acca. Studio con determinazione e quello che è stampato sul libro mi sembra scritto in turco. Passo tre mesi in una sorta di limbo psicologico e mi sembra di essere diventato un’ameba. Arrivano le vacanze di Natale, torno a casa e dico a mio padre che intendo lasciare. Non mi sento bene e l’idea della sconfitta intellettuale mi devasta. Mio padre mi conforta e, cosciente del mio impegno, che nei tre mesi appena trascorsi era stato più che serio e determinato, mi esorta a non mollare. E’ una persona lungimirante; mi ha visto superare i cinque anni dell’Istituto Tecnico per Geometri senza il minimo problema ed uscire dall’esame di Stato con una media molto brillante. Inoltre sa che, qualora mollassi gli studi, rimarrebbe dentro di me un senso di sconfitta difficilmente riparabile. Un grande grazie Babbo! Non lo capisco subito, ma, in un momento delicato della mia vita, ha saputo vedere lontano e spingermi nella direzione giusta. Finite le vacanze di Natale torno a Pisa, determinato a non mollare; il compito è arduo e l’orizzonte è scuro; continuo a non capire nulla nonostante il mio impegno; il mio morale scende sempre più in basso. Sto per decidere di abbandonare quella che sempre più nitidamente

    mi appare come una sfida persa, quando arriva l’incontro con un amico, geometra anche lui. L’amico mi dice che ha comprato i libri di matematica del Liceo Scientifico e che si è messo a studiare su quei testi quella materia. Lo faccio anche io e, nel giro di un paio di settimane, scopro nella matematica un mondo nuovo ed affascinante; i limiti, le funzioni derivate e gli integrali non sono più un mistero ma un attraente mondo da scoprire. Mi impegno dunque ancor più di prima e, nel giro di un paio di mesi, quando vado a lezione mi risulta chiaro ogni argomento svolto dai professori.

    La sfiorata sconfitta mi porta a prendere l’impegno universitario con serietà estrema; gli esami vengono superati brillantemente uno dopo l’altro. Non lascio spazio a nessun tipo di distrazione conducendo una vita quasi monastica. I cinque anni di studi trascorrono in un lampo e mi laureo con ottimi voti.

    1971

    Mi sembra però di aver perso qualcosa nei confronti della vita. Comincio a lavorare a testa bassa presso uno studio professionale di Ingegneria e, non passano neanche tre mesi, che debbo partire per assolvere gli obblighi di leva.

    Ho dunque l’obbligo, a cui è impossibile sottrarsi, di presentarmi a Roma presso il Centro Addestramento Reclute della Cecchignola di Roma. Dei primi quindici giorni ne passo almeno sei in CPR (Camera di Punizione di Rigore) o in CPS (Camera di Punizione Semplice) perché la disciplina che mi era imposta mi sembrava impossibile da sopportare; poi capisco e mi adeguo ai signorsì e ai sissignore. Trascorro al Centro Addestramento reclute tre mesi, vengo promosso Sottotenente e inviato al Centro Tecnico del Genio di Tor Sapienza (Roma). Dopo un po’ vengo contattato da un’impresa di Roma per andare a fare qualche ora di lavoro nei pomeriggi liberi dal servizio. Si tratta di progettare strutture in acciaio per costruzioni industriali. Mi trovo bene e trascorrono così i mesi relativi al mio obbligo di leva. Non faccio in tempo ad aver in mano il foglio di congedo dal Servizio Militare che mi viene fatta una proposta di assunzione con un trattamento economico più che buono. Accetto chiedendo una settimana per incominciare il lavoro. La settimana vola e mi trovo catapultato in un mondo di impegni continui e pressanti. Mi alzo il mattino alle sei e torno a casa la sera alle dieci. Non è proprio la vita che mi aspettavo di fare e sono sempre più scontento. Dopo un anno circa di questa cura mi accorgo che non ne posso più: sono circa sette anni (quelli della giovinezza) che conduco una vita seriosa ed ultra impegnata. Una mattina, guardandomi allo specchio, mi dico: basta! Prendo il coraggio a due mani e, quando arrivo in ufficio, informo il mio titolare circa le mie intenzioni. Mi esorta a ripensarci e mi offre anche un incentivo economico più che buono. In realtà quello che sto cercando non si compra con il denaro. Sono dunque irremovibile ed accetto, dal momento che i rapporti con il mio titolare sono sempre stati più che buoni, di restare altri due mesi per dargli il tempo di trovare un altro ingegnere a cui dovrò trasferire quanto da me appreso in quell’anno di lavoro pressante.

    Approfitto dei due mesi per presentare domanda di insegnamento presso l’Istituto Tecnico per Geometri di Ancona dal quale ero uscito diplomato sette anni prima. Passano sì e no una quarantina di giorni e vengo chiamato per una supplenza annuale.

    Il mio sostituto è arrivato da un mesetto e dunque mi sento moralmente libero da ogni tipo di impegno con il titolare dell’impresa. Ci stringiamo la mano e due giorni dopo eccomi ad Ancona ad insegnare Topografia. Lo stipendio è meno della metà di quello che prendevo fino all’altro ieri, ma ho tutti i pomeriggi liberi e tre mesi di vacanze durante l’Estate. Comincio ad aver un sacco di tempo a disposizione. I sette anni passati con un impegno dietro l’altro hanno lasciato il segno e sento dentro di me una sorta di avversione per tutto ciò che possa creare obblighi pressanti.

    1973

    Prendo il brevetto di pilota di aerei presso l’Aero Club di Ancona e trascorro l’Estate in Val D’Aosta dove frequento un corso per diventare aspirante guida Alpina. Mio padre è sconcertato: se avessi saputo che volevi fare il montanaro non avrei speso tutti quei soldi per farti stare a Pisa e farti diventare Ingegnere!

    So che ha ragione, ma non gli do retta e vado avanti così per un paio d’anni. Il fatto di stare ad Ancona durante l’Inverno e in val D’Aosta durante l’Estate non favorisce la frequentazione e la coltivazione delle amicizie.

    Mi abilito al trasporto passeggeri con l’aeroplano: questo fatto mi permette di portare in volo anche i miei amici. Ogni volta che debbo andare in qualche luogo per un qualsiasi motivo cerco un aeroporto nelle vicinanze, noleggio l’aeroplano presso l’Aero Club, e mi ci reco in volo. Accumulo esperienza atterrando in molti degli aeroporto italiani; atterro a Venezia-Lido, a Bologna, a Ravenna, a Forlì, a Fano, a Pescara, a Bari, a Brindisi, a Crotone, a Reggio Calabria, a Catania, a Palermo Bocca di Falco, a Marina di Campo nell’isola d’Elba, a Palermo Punta Raisi, a Napoli, a Firenze, ecc.

    Organizzo anche vacanze lunghe e mi spingo anche a Pantelleria, a Lampedusa, ad Olbia.[U1]

    Prendo l’abilitazione alla fonia in lingua inglese: questo fatto mi permette di volare anche all’estero. Comincio ad organizzare voli abbinati a vacanze in luoghi lontani. Visito con i miei amici Corfù, Tunisi, Bastia, le isole Baleari, Zara, Lussino, Brac, ecc.

    Le spese non sono eccessive perché condivido con gli amici presenti a bordo il costo del noleggio dell’aeroplano.

    Penso anche di cercare di fare il pilota professionista, ma la mia esperienza di volo, abbinata all’età non più verdissima non è sufficiente per fare il salto verso una compagnia aerea.

    1974

    Ed ecco che arriva Lei: la Vela! Non ne so nulla, ma, spinto dal mio spirito di avventura, frequento un corso di vela presso la S.E.F. Stamura di Ancona e rimango folgorato dal fascino del navigare sotto vela. L’invito di un amico ad una crociera presso le isole della Jugoslavia mi apre un mondo fantastico di vagabondaggi per mare con quel pizzico di avventura che non mi dispiace affatto. Posso fare vela rimanendo nella mia città. Abbandono dunque l’idea di fare la guida alpina e comincio a drogarmi con la vela. Partecipo ad ogni tipo di regata che mi viene proposta dai proprietari di barche cabinate vincendone ogni tanto qualcuna.

    Navigo sotto vela a lungo: prima con una deriva (un fantastico Flying junior) poi con il mio primo piccolo cabinato (un altrettanto fantastico muscadet) ed infine con un cabinato che, per quei tempi, era di taglia media-grande (un mitico passatore costruito dall’altrettanto mitico Sartini). Mi faccio una discreta esperienza navigando e macinando miglia su miglia lungo le coste della Croazia (che, a quell’epoca, faceva parte della Jugoslavia). Approfitto di ogni occasione per accumulare esperienza. Durante un’Estate sono a Porto Cervo per una serie di regate e conosco l’armatore di uno Swan 65 il quale mi invita a far parte dell’equipaggio per portare la barca in Martinica. Si tratta di partire all’inizio di novembre da Villefranche Sur-Mer (Nizza), fare scalo a Gibilterra e proseguire, traversando l’oceano atlantico, fino alla Martinica. Accetto con entusiasmo e mi organizzo con il lavoro. All’inizio di Novembre mi presento a Villefranche con la mia sacca da marinaio; l’emozione è alle stelle. La barca mi appare subito enorme e scopro di essere l’unico non inglese. Scopro che l’armatore che mi ha invitato non partecipa al trasferimento. Lo skipper mi accoglie con sufficienza. Faccio un po’ di difficoltà a comprendere quello che avviene a bordo; chiedo in continuazione di parlare lentamente, ma nessuno mi dà retta. Probabilmente il mio inglese è veramente scarso (please speak slowly). Ho quasi la sensazione di essere disprezzato in quanto di origini latine. Mi faccio forza perché la voglia di esserci è predominante. Dopo qualche giorno la barca lascia l’ormeggio di Villefranche e parte per Gibilterra; Due ore di timone, due ore di guardia in pozzetto e sei ore di riposo. Mi accorgo che, dopo lo skipper, sono, di gran lunga, quello che ci capisce di più. Sono in grado, non solo di condurre la barca con sicurezza, ma sono anche l’unico (oltre allo skipper) che sa mettere il punto nave sulla carta nautica. Durante la seconda notte di navigazione il vento rinforza e dobbiamo cambiare la vela di prua. Andiamo a prua in due. Cerchiamo di piegare il genoa appena ammainato. La barca è sbandata di una ventina di gradi. Gli spruzzi e le onde, sulle quali ogni pochi secondi la prua si infrange, ci investono continuamente. Non ci vuole molto a comprendere che il timoniere deve poggiare per raddrizzare la barca per il tempo necessario a piegare e stivare in cala vele il genoa; eppure chi conduce la barca non lo fa. Io lo chiedo in continuazione con il mio inglese più che modesto (un maccheronico go with the wind at your back), ma nulla accade. Finalmente lo skipper esce in pozzetto per capire il motivo di tutto il trambusto. D’autorità prende in mano la ruota e poggia. Capisco vagamente che rimprovera chi stava al timone e che ha parole di elogio per me (mi è sembrato che il succo del discorso fosse: possibile mai che un latino è più bravo di te!). Riusciamo dunque a piegare il genoa, ad issarlo con una drizza e a calarlo in cala vele. Agganciamo i garrocci del genoa ridotto e lo mandiamo a riva. L’episodio ha aumentato la mia autostima e l’apprezzamento per me da parte dello skipper, ma ho la sgradevole sensazione di un’ulteriore frattura con il resto dell’equipaggio. Siamo nel golfo del Leone e un forte mistral ci suggerisce di ridurre anche la randa. Prendiamo prima una mano di terzaroli e, poco dopo anche la seconda. Per nostra fortuna il vento non supera i trenta nodi. Viaggiamo veloci con il vento al traverso destro sviluppando una velocità che sta sempre sopra i dieci nodi con punte di quattordici/quindici. Il mare è decisamente più che formato e le onde superano i tre/quattro metri. La barca procede comunque con una discreta sicurezza. Gli uomini in pozzetto hanno la cintura di sicurezza sempre agganciata a qualche punto solido. La notte passa così in una situazione di leggera tensione, ma tutto va per il meglio. All’alba il mistral si attenua un po’ e scende a venticinque nodi allargandosi un poco e ridondando. Togliamo la seconda mano e la navigazione continua molto veloce sotto genoa ridotto e randa con una mano di terzaroli. Il cielo è coperto, ma non c’è minaccia di pioggia. La navigazione continua con venti poco più leggeri e, dopo cinque giorni e cinque notti dalla partenza da Villefranche, entriamo nel porto di Gibilterra. Sono più che emozionato; ho navigato sottovela per un bel pezzo di Mediterraneo e sono giunto a quelle che i naviganti di un tempo chiamavano le Colonne d’Ercole. A Gibilterra passiamo due/tre giorni in preparativi vari. Le crocette vengono imbottite con materiale morbido per non rovinare la randa quando sarà tutta aperta contro di esse durante le lunghe navigazioni al lasco; viene fatto il pieno di carburante che ci sarà utile per superare eventuali bonacce; si controlla l’attrezzatura e le dotazioni di sicurezza. Il tempo scorre piacevolmente. La seconda sera vado con tutto l’equipaggio a mangiare qualche cosa e a bere una birra in una specie di pub. Sono un po’ spaesato perché tutti parlano a voce alta e sghignazzano a più non posso. Scopro che Gibilterra è frequentata dai marinai della marina militare inglese, dai marinai della marineria mercantile e da noi della marineria da diporto e che la bassa manovalanza è esercitata da marocchini. Intuisco che vengono fatte battute a scapito di questi ultimi. Io sono l’unico che non ride. La mia serietà non è dovuta alla disapprovazione dell’atteggiamento xenofobo, anche se dentro di me sento un po’ di rabbia per il comportamento becero di un gruppo di cialtroni. Non penso proprio di mettermi a fare il tipo eticamente corretto anche perché non posseggo la minima padronanza della lingua. Il fatto è che non capisco un’acca di quello che viene detto. All’improvviso un tipo,

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