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Il libro delle paure
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E-book297 pagine4 ore

Il libro delle paure

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Info su questo ebook

Tessa è una giovane donna atterrata dalle difficoltà della vita. Ha seppellito i brutti ricordi dietro a un’esistenza solitaria che non ammette ulteriori frustrazioni. A un certo punto non se ne sentirà più appagata perché in fondo sa di precludersi anche le gioie. Quando giunge il momento di osare viene però travolta dalle sue paure. Paure che prendono vita e la intrappolano nella dura lotta contro se stessa, scatenata dall’irrefrenabile desiderio di conoscere a tutti i costi la verità. L’amore è la forza più immensa, e saprà salvarla da una tragica fine.
LinguaItaliano
Data di uscita12 apr 2017
ISBN9788899819446
Il libro delle paure

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    Anteprima del libro

    Il libro delle paure - Sara Coppini

    INDICE

    PREFAZIONE

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    VIII

    IX

    X

    XI

    XII

    XIII

    XIV

    XV

    XVI

    XVII

    XVIII

    XIX

    XX

    Il libro delle paure

    Sara Coppini

    Temperino rosso edizioni

    Prima edizione 2017

    ©Grafica Afo-TR designer

    Immagine di copertina 

    Karol Lazarz.

    © 2017 Temperino Rosso Edizioni Fortini

    ISBN 978-88-99819-44-6

    PREFAZIONE

     Notte fonda, inoltrata, che strappa il fragore e l’eccitamento dal nido vitale e li assopisce. È tempo per Tessa di fermare il frenetico vorticare che ha capo ma mai una coda. Non trova riposo, gli occhi esibiscono come briosi manifesti i sanguigni capillari

     Si direbbe la didascalia di un’opera teatrale o cinematografica e non l’inizio di un romanzo, quale effettivamente è questo incipit con cui Sara Coppini apre la sua prima fatica letteraria dal titolo: Il libro delle paure.

     Si tratta di un testo che ha come protagonista una giovane donna di nome Tessa, che vive sola, delusa e affranta dalla vita. Ama l’arte e dipinge di notte quando non riesce a prendere sonno, a causa di paure che la fanno sentire inadeguata al proprio lavoro e al ruolo di educatrice di un bambino nel momento in cui ne avrà uno. La sua vita allora si complica: perde prima il lavoro e poi rompe con la sua famiglia d’origine, finendo, in seguito ad altre vicissitudini, a dover scegliere tra la vita e la morte. La salva l’amore, l’unica forza in cui crede fermamente anche quando non le si insinua il dubbio che non esistono certezze incrollabili, se è vero che l’uomo in genere, e non solo il suo, è un angelo capace di tramutarsi in demone, sotto la pressione di eventi e occasioni indipendenti dal proprio volere. 

     Una trama, questa, che ben si cala, riflettendovisi, nella temperie dei nostri giorni che l’autrice descrive facendo fronte alle difficoltà e alle problematicità della scrittura con sicurezza impavida, fino a risolvere certe situazioni conflittuali di Tessa col mondo che la circonda, più che sul piano dialettico, su quello della variazione.

     Da qui, una maggiore fluidità del racconto, la dilatazione del tempo, per cui il giorno non finisce al suo tramonto, né i tramonti si esauriscono nell’arco della loro durata; e dello spazio, che diviene sempre più ampio, ma anche le azioni non si concludono perché non dipendono solo dal volere di chi le ha iniziate. Dipendono dai capricci di una gatta, che scesa in strada, non intende più ritornare a casa e costringe Tessa, venuta a riprendersela, a seguirla dentro un’antica villa sconosciuta, dove, attraverso un tragitto sinistro e abbandonato che le porta sino alla soffitta, può recuperare ricordi e vecchie sofferenze; dalle sinuose radici di una quercia che fanno presa sui suoi polsi fino a trascinarla all’inferno, consistente in un luogo sotterraneo dove i peccatori vivono spassosamente i misfatti e le sofferenze della vita passata sullo sfondo di amene distese di vigneti che producono buon vino in grado di scemare il peso delle colpe; e da un incantesimo, che provoca in Tessa un’anamnesi che la scaraventa da un fatto all’altro, fino a quando non dimentica tutto quello che è stato, in attesa della nuova vita che sta per presentarsi.  

     Tessa, va subito detto, è un personaggio autobiografico, un motivo di più perché il libro si presti a una duplice possibilità di lettura e di interpretazione: come documento privato della vita personale dell’autrice, dei suoi rapporti con la famiglia, nonché della sua crisi esistenziale; e come implicita radiografia della storia di altre persone esemplari di un mondo in dissesto, in cui non v’è traccia di alcun ideale di speranza che illumini la risalita dal baratro in cui sono precipitate.  

     Venendo alle ascendenze letterarie, non sembrerebbero mancare richiami alla classicità, se si giudicano come felici rielaborazioni di modelli antichi e moderni la discesa agli inferi di Tessa accompagnata dal suo Virgilio di turno, certo Vincent che ricorda il famoso dotto latino per via della consonante iniziale del nome; quel panno immenso che aleggia nel cielo e che si avvita come uno straccio che viene strizzato così simile a quell’insegna / che girando correva tanto ratta / che d’ogne posa mi parea indegna ancora di dantesca memoria; e l’attesa di Tessa e Joshua del primo tramonto dell’anno, che pare rimandare al miraggio di Leopold Bloom sulla spiaggia di Dublino, mentre tutti, compresa Gerty MacDowell seduta su uno scoglio, sono in attesa dei fuochi d’artificio. 

     È un romanzo, questo, che giunge puntuale in un momento storico segnato dalla crisi dell’io nella società globalizzata e dalla precarietà dei valori tradizionali.  E precaria è Tessa, per la sola colpa, posto che sia una colpa, di vivere solo in rapporto ai sensi, priva com’è la sua esistenza, e non solo la sua, del contributo della ragione.

     Raramente mi è capitato di leggere un romanzo così sicuro e compatto, come quest’ultimo di Sara Coppini. Si sa che dei momenti di discontinuità, dovuti a debolezza e vacillamento nella materia ispiratrice o nella resa formale, sono un po’ scontati per tutti gli scrittori, soprattutto se esordienti. Ma questa giovane autrice è così rigorosa con se stessa, che da sé non si perdona affatto alcunché d’irrisolto e di provvisorio: tutto deve essere giunto all’apice estremo del decoro. Non c’è nulla insomma, per lei, che risenta di banale improvvisazione o di superficialità dilettantesca. Ne è prova la minuziosa attenzione con cui segue l’alternarsi di stati d’animo della protagonista sempre dettati dall’ansia e dalla paura di fallire. 

     Ma un plauso maggiore, a mio giudizio, merita per la lingua e lo stile: l’una, italiano purissimo, senza dialettismi e barbarismi oggi tanto di moda; l’altro, vivo ed efficace nelle parti dialogate, vigoroso nelle digressioni meditative, elegante nelle descrizioni paesistiche, perfino essenzialmente poetico negli indugi di più raccolto stupore. 

     Il tutto al servizio di una visione della vita che muta con lo scorrere degli eventi: da dolorosa e pessimistica all’inizio e per buona parte del romanzo, diviene ottimistica nel finale, dove la prosa comincia a diradarsi per lasciare spazio a delle poesie, onde meglio cantare l’amore che ha strappato Tessa alla morte a cui stava per soccombere.  

                                                                                    Giuseppe Leone

    I

     Notte fonda, inoltrata, che strappa il fragore e l’eccitamento dal nido vitale e li assopisce. È tempo per Tessa di fermare il frenetico vorticare che ha capo, ma mai una coda. Non trova riposo, gli occhi esibiscono come briosi manifesti i sanguigni capillari. Che invochino il riposo, tanto tarderà a sopraggiungere, come spesso capita. 

     È la notte fuori che scuote, che si riempie del buio, un piombo pesto che invade ogni spazio, anche quello della mente. Un poco la inquieta, e ne sarebbe terribilmente invasa se la sua concentrazione non si focalizzasse sulla serena consapevolezza che nulla di male le possa accadere. Se si lascia trasportare, senza troppo pensare, torna fragile quanto lo era da bambina, quando nel suo caldo letto si stringeva alle coperte per portarsele fin sopra le orecchie, e lì sentirsi al sicuro. Almeno fin quando non si sganciavano dallo scrupoloso fagotto imbastito fra il materasso e la sponda del letto. Allorché ripartiva l’impresa per ricostruire la sicura tana navigante, al di sopra della palude popolata da mostruose presenze butterate e viscose. Crescendo si dimostrò impavida, arrancava al buio nell’ambiente famigliare di casa collezionando ematomi contro i bordi della mobilia. Le capitava di avventurarsi anche per stradine secondarie, nascoste, sentieri boscosi. Combatté con l’ignoto della mente che vibra al minimo sibilo dell’aria, la quale lambisce i corpi solidi e rimbalza in direzione dell’affinato udito. Ha dovuto infine ammettere che mai si trovò faccia a faccia di alcunché potesse spaventarla, per catapultarla nei panni di quei protagonisti di film che puntualmente si destano, per assurde motivazioni, completamente soli e dispersi nel nulla. E non represse l’accelerato battito schiavo della suggestione, mai.

     Nonostante questo Tessa riconosce che il buio ha un certo fascino. Sì, solleva una pace che non ammette replica. Predilige infine la penombra: né luce né buio, la giusta via di mezzo, quella che dovrebbe persistere fra tutte le cose. Come seconda opzione sceglie la notte vera e cruda mentre piano la respira, tempestata delle luci artificiali. I neon incandescenti, le insegne colorate, i lampioni che si elevano a emanare una frigida luminosità. È l’attimo in cui la città più le piace, annerita dall’oscurità. L’ambiente si spolvera di magia, le vie che lo percorrono conservano discrete i suoi segreti e non si vergognano della loro ispida essenza.

     Tessa inala la fitta foschia, serafica. La mastica piacevolmente durante l’abituale occupazione notturna intrapresa quando l’insonnia la investe senza troppi complimenti. È al cospetto di un fedele amico che impugna il compito di custodire la prorompente creatività nascente in seguito al crepuscolo. La stanchezza è resa nulla dalla tumultuosa molestia che distrugge gli equilibri e si appropria di una lustra natura per infuocarla di emozioni, così da consacrare la ragazza di fronte allo schermo acceso sul programma di disegno a mano libera. 

     Tessa preferisce di gran lunga pennellare su di una tela allo sfolgorio della luce diurna, poiché esprimere se stessa assume una carica di maggior spontaneità, per non parlare della soddisfazione incrementata dalla pittura appiccicata fra le ciocche dei capelli e rinsecchita fra le venature della pallida pelle. È come divenire un tutt’uno con lo stesso dipinto. L’immagine immortalata, benché statica, movimenta le sensazioni inerpicate nell’animo, un portento inequivocabile che riesce a sconvolgerla in modo unico e speciale, ogni volta come fosse la prima. Nelle silenziose tenebre tenta di sviluppare l’impressione del momento sul quadro digitale che non può lambire con setole e dita. Le capita di riscuotere successo una volta introdotte le opere in rete, acquistate da ignoti per svariate finalità. È in simili casi che si rende conto di quanto oramai il lavoro manuale venga sminuito dall’era tecnologica. Per Tessa quelli che ne capiscono sono sempre in minoranza, e si contrappongono ai greggi di inespressivi imitatori: i pecoroni.

     Si protrarranno fino a tre, probabilmente, le notti di scarso sonno, e crollerà stremato il corpo alla seguente. Quella mattina la sveglia è risuonata poco dopo l’alba, come al solito. Ora l’orologio calca le due e venti e ancora le palpebre non si appesantiscono. Eppure Tessa si sente stanca, anche da tutto quello che la circonda sovente. A volte la sfiora il desiderio di essere altrove, dove non saprebbe riconoscere l’angolo di una strada, i locali e i loro affezionati frequentatori, un agglomerato di casette di vecchia data, i giardinetti ben curati, i ragazzi svogliati in sella alle biciclette … Per rendersi poi conto di essere rinchiusa nel solito tran tran, all’interno del suo minuscolo appartamento. 

     Sulla poltrona color vermiglio poco distante, posta sotto la finestra, fingono l’insonnia anche i due cagnolini. Sono l’unica fonte di affetto che le bazzica attorno, delle persone diffida troppo. La pelosa coppia ha pedinato la padroncina non appena si è fiondata fuori dal letto, per migrare verso l’unico svago in grado di distoglierla dalla frustrazione di non riuscire a scivolare nell’inconscio riposo notturno. Passa in tal modo le ore d’irrequietudine, tracciando una riga dietro l’altra, prima stecche come schiene irrigidite dal dolore, poi tremolanti come i lamenti di un vecchio zoticone. Almeno riesce a distrarsi dal nervosismo che le sale come il raffreddore per non sapersi rilassare mentre la inondano estro e fantasia. Non le resta che arrendersi anche questa volta e giocare svogliatamente con il piccolo mouse fucsia, della giusta misura della esile mano.

     Tessa medita, nell’ultimo periodo non è più la stessa. Si muove lentamente, la concentrazione è annebbiata. Non si sente il solito botto tonante pronto a esplodere, ricolmo dell’innocua aggressività da sfoderare come un incantesimo. Quel vivace impeto trasudante entusiasmo incondizionato si è arenato al largo, e lei sosta sulla sponda opposta. Ha la vista affaticata e resta mummificata, incapace di focalizzare con spassionata enfasi l’impressione che non ritornerà e che rigorosamente anima spirito, mani e braccia in un baleno, per strimpellare armonicamente i tasti che trascinano e spostano, inventano e dicono, riempendo di travolgimento un foglio vuoto. Riuscire a trasformarla in una sensazione che urti l’animo di chi abbia voglia di lasciarsi intrappolare nell’intricato roveto creativamente assemblato, intarsiato di minuscoli e studiati accorgimenti carezzanti gusto ed eleganza, è per Tessa semplicemente una cosa da sballo. Decisamente meglio che scolarsi litri di birra a un consunto bancone specchiandosi nella monotona banalità. Come gli amici squattrinati che la cercano alla sera. Lei lascia squillare il telefono fino a che si arroventa e interrompe l’inconcludente comunicazione. Da tempo li ignora, da quando ha scelto di dedicarsi ai suoi intimi bisogni che prima di quel tempo aveva represso. 

     La riconquista di sé è iniziata da qualche anno, da quando si è arresa alla lunga e tormentata storia d’amore che l’ha non soltanto sconvolta, ma persino allontanata dai saldi principi che la componevano in ogni loro forma e in ogni centimetro di carne, calda e viva. Una carne vissuta, rimasta sfregiata, straziata dall’egoismo di chi ha saputo tramortirla. Perché Tessa di amore si è consumata. Non avrebbe permesso di esser presa in giro per sempre. La realtà della quale divenne parte, finì per starle troppo stretta. Si è sentita stringere alla gola una corda invisibile, tessuta del peccato di possessione sguinzagliato dalle stesse persone che ha amato. E finendo per perire per mano delle loro distorte aspettative alla fine si è divincolata, smettendo di assecondarle e giustificarle. Non dimenticherà mai lo strazio interiore che pianse sangue d’amore. Poi è partita senza una spiegazione plausibile, perché trapanare logicità nei cervelli di chi è diventato schiavo dell’irrazionalità è un’impresa impossibile. Se ne è fatta una ragione sin da subito. 

     Poco a poco Tessa si è riappropriata della sua esistenza. Dapprima si è lasciata travolgere da chiunque le capitasse, per coglierne la bellezza nascosta e imparare a respirare aria nuova. In seguito è maturata con definita completezza, delineando l’integrità di energica donna pronta a farsi rispettare e a sostenere il suo perché. Raggiungendo la completa indipendenza, in special modo dagli affetti e dalle conferme altrui, è riuscita a sbrindellare il cordone ombelicale di insicurezza che la teneva in vita in precedenza, mascherandole con inganno la grande forza che in realtà la plasmava. Dato che si è sempre reputata instabile e fragile non conosceva ancora l’ardore suo implacabile, e una volta che questo venne sospinto verso il trionfo, imparò a non cercare conforto, a non richiedere acclami. Come una bestia abbandonata all’istinto di sopravvivenza ha digrignato i denti attorno a ogni legame, viscido e sacrificale, strappandone ogni frammento. Fu libera da tutti, dai finti amici, dai derisori approfittatori, dalla sua stessa famiglia che nemmeno la considera un cuore palpitante nell’immediato presente. Tessa si è spesso chiesta, pensando alla madre, crede forse di aver partorito una bambola di pezza?

     Ogni attenzione dei genitori si rivolge esclusivamente alla sorella minore, la quale è incapace di assumersi le responsabilità e si crogiola furbamente nei vantaggi che le sono concessi, senza limite. Per Tessa l’unica verità attribuibile alla sfaticata ragazzetta si applica come una funzione matematica al rifiuto più palese che dimostra di incontrare una condizione che ottenga la costante ignota con la quale fermare la terra sotto i piedi. Teoricamente a tal punto dovrebbe partire con la marcia ingranata sorreggendosi sulle sue sole ginocchia, per un’ascesa che presupponga come invariabili costanti l’umiltà e la voglia, affinché il risultato ottenuto rappresenti un miglioramento derivante per ovvia conseguenza. Ciò sarebbe possibile se vi si applicasse con ferrea serietà, fattore elementare ma inversamente proporzionale alla discontinuità che costituisce piuttosto la vera natura di Isabelle. 

     Per la capricciosa sorella il lavoro e la perseveranza che esso richiede sono uno spettro famelico capace di terrorizzarla. E guai rammentarlo a mamma Dyane, la quale vede il marcio dovunque tranne che nella sua preziosa secondogenita. Tessa è convinta che l’avesse concepita in inusuali circostanze, annaffiate probabilmente da fiumi di alcool. Non trova altra spiegazione dato che l’intera famiglia, anche nelle precedenti generazioni, si presenta, senza ombra di dubbio, posata e volenterosa. Isabelle è una spina che infetta i rosei rapporti dei suoi genitori con chiunque, poiché la ripongono con cecità sotto le loro ali protettive. 

     Tessa prova chiaramente affetto per la sorella, ma non intende rinnegare il suo comportamento scellerato. Ha imparato sulla sua pelle che trovare sempre una scusa e difendere chi è in errore apporta a una lenta distruzione. Ha già veduto annerirsi una bella foto di famiglia, e non vorrebbe che si incenerisse del tutto. Papà Jovy sovrasta le sue tre donne raggruppandole in un chilometrico abbraccio, col viso rasenta la folta chioma dell’amata moglie, è lei con foga e intolleranza a reggere da sempre le redini di casa. In un angolo Isabelle sfoggia un sorriso sdentato, mentre Tessa, poco più di una bimba, perde lo sguardo verso un punto ben lontano dall’obiettivo, già estranea alla costruita serenità tenuta viva a suon di frustate da Dyane. 

     Le è capitato persino di provare una profonda rabbia che l’ha estraniata dal proprio candido e armonioso essere. Si è fortunatamente limitata a immaginare di accogliere fra i palmi il capo della sorella e quello della madre, per poi farli scontrare con forza l’uno contro l’altro, non una volta sola ma continuamente. Un simile impulso ha attinto irriconoscibile ferocia dall’esasperazione dovuta all’ennesima pretesa di farle cedere un concreto risultato, sudato e conquistato grazie alla sua volontà di marmo. In seguito alla separazione dal suo primo e folle amore, Dàvid, si ritagliò un incantevole spazio ai limiti del paesello natio, riadattando un minuscolo cascinale sollevato al di sopra della strada che serpeggia verso paesaggi montani incantevoli, ornato da un fazzoletto di giardino al quale si dedicò un’intera primavera per esaltarne ogni possibile splendore con l’aiuto di un amico giardiniere. Isabelle la pretese, la casa di Tessa, la sua nuova vita ripresa con fatica in seguito a una scottante delusione. Dyane piagnucolò al seguito della figlia minore.

     «Tesoro, tu sei grande, hai bisogno di ben altro. Possibile che non riesci a sistemarti con un bravo ragazzo? Aiuta tua sorella che vorrebbe imparare a essere indipendente.»

     Nauseata e indignata, Tessa, ha preferito cedere, non per dare soddisfazione a Isabelle, ma per uscire di scena poiché non ci sarebbe stato altro modo per salvarsi dinanzi a una madre che non sa ammettere di sbagliare.

     «Io vivo per le mie figlie!»

     «Ti lascio con le tue convinzioni madre.»

     Le sussurrò così una volta imbarcata sul traghetto con tutti i suoi beni materiali, senza che la sentisse. Intanto oltrepassava quella linea che l’avrebbe divisa da lei definitivamente, consegnandole la più grande consapevolezza della visione corrotta in grado di offuscare il buon senso di una donna fatta.

     «Ti amerò comunque per quel che sei, da lontano.»

     Approdò alla vicina città di Zefiro, posta al limite meridionale del lago dalla forma di clessidra. Per ricominciare, di nuovo.

     Ha ricercato la solitudine, amandola perché le dava finalmente spazio. Perché mai lo ha avuto, non glielo hanno permesso. Nessuno più si frappone fra il desiderio del suo inconscio e la quotidianità che le mette in mano la scelta della sua libertà. Non l’avrebbe sprecata. Sdraiata alla foce ne avrebbe sorseggiato ogni goccia, senza disperderne alcuna. E per non perdersi nel dubbio di quello che non si dice e si dimentica, ha imparato a parlare con se stessa per mantenere viva una limpida onestà che deve a se stessa. Ha imparato a dar colore alle parole imprigionando concetti e idee nella memoria, per immortalare il suo insegnamento di vita. Soprattutto si è tuffata nella trasformazione del suo ego sminuito in ogni possibile rappresentazione figurativa, affinché lo spirito ne venisse alleggerito.

     Tessa ha ricostruito uno stile di vita appartato e discreto che non disturbi il vicinato, tranne quando costringe le casse dello stereo a sputare le complicate sinfonie di violini e violoncelli. La musica la rilassa, soltanto che ha poca misura nell’assaporarla. Se necessita di una lauta carica in seguito a una giornata stressante, allora è capace di ignorare chiunque e smuove la manopola del volume fino al limite possibile, cosicché i timpani affamati giungano a vibrare violentemente.

     Ha imparato a gremire l’alleviante solitudine con tante cose; il disegno, il teatro, i concerti, le passeggiate. Per tutto il resto non dispone di volontà e tempo. Non si sente pronta per un cambiamento casomai rintoccasse insistente come le campane del mezzodì.

     Viene sorpresa inaspettatamente alle spalle. Prende forma una vena di tristezza. Tessa inizia a sentirsi sola, appesantita dalla mancanza d’affetto di una persona in carne e ossa.

    II

     Un campanello stride con insistenza. Cosa potrà essere? Il fischio del treno che si muove ad alta velocità? È lungo, tanto lungo, e viaggia celermente, da non riuscire a contarne i vagoni che sono interminabili. Tessa è ferma al passaggio a livello da chissà quanto. È in ritardo e ha un appuntamento. Viaggia da circa un’ora e mezza, continuamente incolonnata a una miriade di automobili che pare debbano tutte andare nella sua direzione, al suo stesso orario, o addirittura nello stesso posto. Non vorranno rubare il suo appuntamento?

     Qualcosa di caldo e morbido le solletica il viso. La piccola Crudelia struscia contro alla sua guancia la testolina color nocciola, implorando la coccola del risveglio. La sveglia sta suonando, rigetta il suo fastidioso e cantilenante rumoraccio. Tessa cambia spesso il motivetto squillante, e per quanto lo scelga con cura affinché strimpelli con armonia finisce comunque per odiarlo. Nella mente sussurra una preghiera perché possa restare sdraiata nel comodo giaciglio, solo per quel mattino. Sa bene che nessuno le darà retta. Un secondo batuffolo umidiccio l’accarezza. Anche Falco le augura il buongiorno. 

     «Coraggio, andiamo a guadagnarci la cena!»

     Esclama Tessa con una salutare dose di positività, e affonda il naso nei profumati manti delle sue bestiole.

     La giornata è grigia. D’altronde è autunno, non può aspettarsi niente di meglio della tipica atmosfera rugiadosa che si appiccica all’attento trucco spalmato su di ogni centimetro del

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