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Il cacciatore di tramonti
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Il cacciatore di tramonti
E-book423 pagine6 ore

Il cacciatore di tramonti

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Info su questo ebook

Evan è un ragazzo di 24 anni con la passione per la fotografia, in

particolare ama fotografare i tramonti, vive a Roveri, un piccolo paese

nel nord est d'Italia, abita con la madre, il padre ed il suo cane

Wilson, oltre a frequentare l'università di fotografia, alcuni giorni

alla settimana fa il giardiniere presso villa Zagara, chiamata cosi per

gli aranceti tanto amati dal conte quand'era in vita, li risiedono la

Contessa de Migris, o chiamata anche signora Tullia, ed il

maggiordomo

Umberto. Evan trascorre volentieri delle ore li perché ama la natura;

in particolare i fiori d'arancio. Vicino a casa c'è un piccolo boschetto

in cui spesso Evan si reca a

passeggiare con Wilson e a fotografare,

un giorno mentre scattava ad un tramonto si accorse che nelle

fotografie compariva una sagoma, questo fatto lo incuriosì al punto di

iniziare una ricerca per scoprire chi fosse.

Chiese informazioni, poi si mise a cercare lungo la strada vicino al boschetto

senza risultati.

Dopo tanti giorni di attesa durante un tramonto nel boschetto rivide tramite

l'obiettivo di nuovo quella sagoma, lasciò tutto e velocemente corse verso

essa, si fece coraggio e si avvicinò, era una ragazza.

Da questo momento inizierà tutto!
LinguaItaliano
Data di uscita3 mar 2021
ISBN9791220325653
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    Anteprima del libro

    Il cacciatore di tramonti - Denis Magro

    10/11/2020

    1

    Roveri è un paesino di campagna nel nord d’Italia. Mille anime abitano questo luogo tranquillo, uno come tanti altri, dove la routine e il silenzio regnano indisturbati mentre il frastuono della città riecheggia in lontananza. La velocità della modernità rallenta man mano che ci si addentra in questo mondo rurale e il caos urbano non aggredisce la pace di chi ha deciso di evitare le grandi metropoli.

    Al tramontare del sole gli unici suoni sono quelli dei grilli e delle grida di bambini stanchi. A Roveri la vita scorre tranquilla, proprio come quella delle sue acque. Il paese è infatti attraversato dal fiume Sinde, che nasce a qualche chilometro di distanza e si snoda per tutto il territorio circostante per poi divenire un immissario di un altro fiume e arrivare esausto fino al mare, non molto distante. Come spesso accade, i ruscelli non sono altro che ricordi dolci, memorie silenziose che, arrivate alla fine dei giorni, divengono cristalli di sale.

    A Roveri non ci sono molti appartamenti, se non per il condominio I Salici vicino al Sinde. Ci sono piuttosto molte villette e vecchie case coloniali ristrutturate, segno inequivocabile della storia contadina di questo luogo. I vecchi aratri non sono più in funzione, ma sono testimoni del passato di questo territorio e spesso vengono riesumati con fierezza nelle dimostrazioni di aratura assieme alle vecchie macchine per lavorare la terra.

    Ma Roveri rivela anche un altro fascino. Tra le passeggiate bucoliche si possono incontrare sfarzi di storia e la chiesa è uno dei pezzi più pregiati di questo paesino. All’interno vi è conservato un dipinto di Lucrezio raffigurante una Madonna col Bambino, che come molte altre opere di questo artista si contraddistingue per la malinconia delineata nei volti.

    Non lontano dalla chiesa, lungo un viale di castagni, si scorge un cancello imperiale con guglie taglienti e due enormi leoni impietriti che scagliano uno sguardo severo a chiunque pensi di avvicinarvisi. Qui si erge Villa Migris, che, come spesso accade, prende il nome da colui che ne volle la costruzione. Il conte Napoleone Migris infatti ne commissionò la realizzazione tra il XVII ed il XVIII secolo.

    Al di là della giovane siepe di gelsomino che circonda la proprietà vi è un piccolo labirinto erbaceo che delimita un trittico di statue, tre donne che, come in estasi, si abbracciano tra loro, e sembrano abbracciare anche lo stesso paese, forse la vita stessa. Questa antica abitazione è chiamata anche Villa Zagara e non è difficile capirne il motivo. Appena girato l’angolo della facciata, si trova un aranceto e almeno cento alberi tra limoni e aranci si stagliano tra la dependance e la cappella privata della villa.

    Il conte era molto affezionato a queste piante e la meticolosità con cui venivano curate viene tuttora portata avanti. È tra i mesi di aprile e maggio che questi alberi entrano in fioritura. Le foglie verdi e le spine iniziano ad essere coperte dai candidi fiori di arancio e l’aria, tinta di neroli, rilascia il gusto aspro dell’arancio amaro, sprigionando un profumo così intenso da infondere calma e serenità a chiunque passi nei dintorni.

    La villa rimane silenziosa tra i suoi corridoi e le uniche stanze occupate ospitano la proprietaria, ed il maggiordomo.

    Lei è una signora di 83 anni di nome Tullia, vedova del conte Teodoro Migris, venuto a mancare nel 2013. La contessa, chiamata da tutti signora Tullia, era solita alzarsi molto presto al mattino e dopo aver fatto colazione nel suo salone affrescato si recava dalla parrucchiera nel centro di Roveri per farsi fare la piega. Aveva sempre un’acconciatura perfetta ed era impossibile vedere i suoi capelli grigi fuori posto. I suoi occhi argentei erano incavati dal tempo, ma erano sempre brillanti e pieni di vita. Al suo ritorno si recava in giardino per raccogliere dei fiori ed andava a salutare il marito al campo santo.

    Rimaneva lì per una buona mezz’ora e poi tornava a casa, non di certo per rimanersene seduta.

    Nonostante la presenza di maggiordomo e giardiniere, difficilmente si tirava indietro dal compiere le faccende giornaliere, che rappresentavano tutta la sua vita. Amava soprattutto i mestieri da fare all’aperto e non di rado la sua testardaggine aveva causato qualche infortunio.

    « Evan lascia stare, sposterò io più tardi le edere! Non ti preoccupare, tu pensa pure alla siepe » disse la signora Tullia.

    « Signora Tullia lei non cambia mai! » esclamò Evan. « Dovrebbe esimersi dal fare certi sforzi o finirà per rimanere nuovamente bloccata. »

    « Ma se sono più pimpante di te! » lo rimbeccò ridendo la signora Tullia. « Io bloccata? Non dire fesserie! Pensa a tagliare i gelsomini tu. »

    « Va bene signora Tullia » mormorò Evan con un lieve sorriso. Appena la donna entrò in casa per cambiarsi, Evan abbandonò per terra le forbici e corse in fretta a spostare i vasi di edere prima che lei se ne potesse accorgere. Poi riprese a potare minuziosamente i gelsomini, che all’arrivo dell’estate avrebbero riempito l’aria di un profumo narcotico.

    Evan era un ragazzo di 24 anni. Un lungo ciuffo castano sovrastava i suoi occhi verdi. Era piuttosto alto, ma l’esile corporatura lo faceva sembrare ancora più giovane di quel che era. Da qualche anno aiutava la signora Tullia nel mantenimento del giardino. Aveva iniziato ad andare qualche volta d’estate prima di concludere le scuole superiori, ma l’amicizia che aveva instaurato con la contessa e il grande amore per la natura, soprattutto per i fiori, avevano fatto sì che continuasse ad andare anche dopo la fine della scuola.

    Amava anche lui in particolar modo il periodo di fioritura degli aranci.

    Non vedeva l’ora che arrivasse quel periodo per poter raccogliere i fiori, portarli a casa, e donare alla sua stanza quel dolce profumo.

    Questo lavoretto gli portava via solo poche ore alla settimana, ma aveva promesso alla contessa di continuare ad andare,

    anche perché lei era molto restia nel cercare qualcun altro. D’altronde ormai era diventato più un nipote che un dipendente.

    Per recarsi dalla signora Tullia, Evan impiegava poco meno di dieci minuti in bicicletta. Usava una bici bianca con un grande cesto in vimini, in cui riponeva i fiori che spesso raccoglieva, e il cigolio del pedale sinistro accompagnava sempre le sue corse. Era solito mettere dell’olio ogni volta che si trovava vicino al capanno degli attrezzi, ma sembrava non volerne sapere di smettere, quasi avesse una vita propria quel dannato pedale. Di certo, infastidiva i tre bassotti della signora Tullia perché ogni volta che Evan arrivava alla villa iniziava un concerto senza fine.

    Una volta in giardino, la signora Tullia si avvicinò a Evan che stava riponendo gli attrezzi da lavoro nel capanno e gli chiese:

    « Oggi è sabato. Cosa farai nel pomeriggio? »

    « Penso che andrò a fare un giro nei dintorni per fare qualche scatto » rispose Evan, mentre si ripuliva le mani. « Lei invece cosa farà? »

    « Sul tardo pomeriggio verrà finalmente a trovare sua madre quello sconsiderato di mio figlio e molto probabilmente poi ceneremo fuori assieme » disse la signora Tullia.

    « Mi fa piacere che passi, me lo saluti tanto » esclamò Evan, incamminandosi verso la sua bici. « Ci vediamo martedì allora! »

    « Senz’altro, tu invece stai attento! » lo esortò la signora Tullia. « Ogni volta ti avventuri in posti pericolosi! Ciao Evan. »

    « E lei eviti di lavorare troppo signora Tullia » disse Evan sorridendo. Mentre le parole si perdevano nel vento, Evan inforcò la bici e si diresse verso casa, ma mentre stava per varcare il cancello si fermò e urlò alla signora Tullia:

    « Raccolgo qualche rosa per mia madre! »

    « Certo fai pure caro » rispose l’anziana signora.

    « Grazie » urlò Evan a squarciagola.

    Nel frattempo si era concluso il concerto canino, che però riprese insistentemente non appena Evan uscì dal cancello.

    Sebbene la strada che divideva Villa Migris dalla casa di Evan fosse breve, lui corse talmente tanto veloce da perdere una rosa nel tragitto.

    Ovviamente non se ne accorse e inforcò spensierato la sua via di sassi ad una velocità così sostenuta che all’arrivo davanti casa dovette frenare bruscamente, sollevando una piccola nube di polvere. Aperto il cancello a spinta, lanciò la bici con la speranza che magari fosse la volta buona che il pedale smettesse di cigolare.

    « Ciao mamma! Ti ho portato tre rose e sono le tue preferite » disse Evan correndo. « Sono nella bici, puoi prenderle tu? Io devo prepararmi lo zaino che poi scappo. »

    Dopo aver accarezzato al volo Wilson, il suo cane, si precipitò di sopra lanciando una scarpa nel corridoio e una nel secondo scalino. Mentre staccava le batterie della macchina fotografica dal caricatore, la madre lo chiamò dal giardino:

    « Evan! Ma le rose non dovevano essere tre? »

    « E infatti sono tre mamma! » gridò Evan confuso.

    « Affacciati e vedrai tu stesso che sono due! » lo ammonì la madre.

    « Maledizione! Mi sarà sicuramente caduta dalla bici » esclamò Evan. « Comunque due sono sempre meglio di zero. »

    « Sei sempre il solito! La prossima volta attento a non perdere la testa per strada » lo rimbeccò la madre ridendo.

    « Sei davvero simpatica mamma! » disse Evan sarcastico.

    Subito dopo riprese a prepararsi per l’escursione. Finito di riempire lo zaino, mise in auto i cavalletti, il resto dell’attrezzatura fotografica e due panini. Infine caricò Wilson nel sedile posteriore e partì. Quando era con la sua macchina fotografica, aveva tutto. Non andava mai a scattare con altre persone. L’unico assistente assoldato era Wilson, che molto spesso lo aiutava a far da guardia all’attrezzatura che Evan lasciava incustodita, ma che in realtà desiderava ardentemente dedicarsi alla sua mansione preferita, scavare le buche.

    « Wilson devi stare fermo in auto o prima o poi mi toccherà metterti

    in una gabbia! » esclamò Evan.

    Wilson abbaiò mansueto e si stiracchiò sul sedile.

    « Mi sembra un’ottima risposta Wilson » disse Evan.

    2

    Questo sabato aveva deciso di andare a Remen, un paesino incastonato tra le montagne. Dopo qualche tornante si apre una vallata dove domina un piccolo lago artificiale, che si è reso popolare proprio per le sue dimensioni, e le vette ancora imbiancate dei monti che lo circondano si lasciano ammaliare dall’animo cristallino delle sue acque. Questo luogo dista circa un’ora da Roveri ed è stupefacente come in così pochi chilometri il panorama cambi in maniera talmente marcata. Dalla campagna alla montagna, il paesaggio è lì che attende silente di infuocarsi, pavoneggiarsi, squarciare e poi sparire.

    Ad aprile le giornate iniziano già ad allungarsi e i tramonti si fanno attendere. Per quel giorno l’orario indicativo era verso le otto. Evan e Wilson arrivarono con ben due ore di anticipo, perciò, dopo aver dato una ciotola piena d’acqua al suo assistente, Evan issò lo zaino in spalla prese il cavalletto in mano e iniziarono a girovagare nelle vicinanze del lago in cerca di un buon punto in cui poco più tardi posizionare la macchina fotografica.

    Nel frattempo un brontolio raggiunse lo stomaco di Evan che quindi si sedette per fare uno spuntino.

    « Wilson potresti prendere tu per una volta i panini in auto? » disse Evan. « Immagino di no! Aspettami qui che arrivo subito, scansafatiche! »

    Evan corse in macchina e prese i panini che aveva preparato.

    « Al volo! » gridò Evan.

    Wilson addentò il succulento pezzo di panino e lo divorò senza farne cadere nemmeno una briciola. Appena finirono il picnic, Evan si accese una sigaretta e mentre la teneva tra le labbra per cercare il suo taccuino, il fumo gli annebbiò gli occhi, facendoli lacrimare. Trovato il taccuino e la penna, si mise a scrivere qualche riga. Tre parole e una boccata di fumo, così finché non finì la sigaretta.

    Nel frattempo si alzò un lieve venticello che portava con sé l’aroma delle erbe montane, dei primi fiori e del profumo di quella dolce malinconia che anticipa lo splendore di un tramonto.

    E infatti il sole stava iniziando ad arrossire, lanciando in ogni direzione pennellate fulve. Mentre Wilson mordicchiava un ramoscello trovato nei paraggi, Evan tolse il coperchio dell’obiettivo e iniziò a impostare la macchina fotografica. Dopo aver abbassato il cavalletto, fissò per bene la camera in modo tale che nessuna vibrazione potesse rovinare gli scatti.

    Abbandonato il color turchese, il piccolo lago iniziò pian piano a incendiarsi, le montagne taglienti divennero ancor più spigolose, le ombre più nette e le pareti si colorarono di un gradevole arancio che cambiava al passare dei minuti. Evan lanciò vicino allo zaino il cappello che spesso indossava, ma che di solito mentre fotografava toglieva o girava al contrario perché il frontino gli impediva di vedere bene dentro al mirino della macchina fotografica.

    Preso da un’incontrollabile foga, come mosso da un incantesimo, iniziò a scattare e a spostarsi repentinamente da un posto all’altro in cerca delle migliori angolazioni in cui immortalare il tramonto e le vispe cime riflesse nel lago. Dovette persino bagnarsi le scarpe nell’acqua ormai gelida per far entrare nell’inquadratura tutte le montagne, come una foto di famiglia in cui le persone si stringono per poter entrare nell’obiettivo.

    Evan correva e saltava come una lepre impazzita. Gli occhi gli brillavano, quasi fossero loro a non voler tramontare.

    Si alzava, si piegava, si distendeva tra i fiori per creare nuove composizioni. Mentre era steso a terra una cavalletta gli saltò tra i capelli, non prima di aver catturato l’attenzione di Wilson che abbaiò rumorosamente, indispettito dal grosso insetto.

    Lo spettacolo del tramonto sembra inafferrabile con i suoi repentini cambiamenti. Le tinte si accentuano e affievoliscono, mutano e stridono, quasi avessero vita propria, e ogni cosa, ogni assume un aspetto magico, i fili d’erba, le rocce, i rami degli alberi, l’animo delle persone.

    La frenesia cedette posto alla pace mentre i fiacchi raggi di sole si accingevano a sparire. Evan appoggiò la macchina fotografica, si sedette in una panchina di legno davanti al lago, fece salire Wilson e rimasero in silenzio a guardare ciò che rimaneva della giornata.

    Com’è strano quando la luce lascia spazio al buio. I pensieri si fanno più nitidi e anche gli occhi più cristallini si rannuvolano. Lo splendore del tramonto assale i cuori, trascinandoli in luoghi estatici, ma poi all’improvviso tutto finisce e sorge il silenzio.

    La quiete alba notturna rasserena, ma per alcune persone ciò non accade. Capita invece che l’angoscia prenda il sopravvento. Evan fissava immobile il crepuscolo e nemmeno il picchiettare frenetico di un picchio nero distrasse la sua leggera tristezza. Solamente quando un luccichio si accese nei suoi occhi e un lampo rischiarò tutto il lago si riprese e sgomento tornò in sé.

    Il leggero vento si fece più violento, fischiava e a tratti quasi urlava. Al secondo tuono in lontananza Wilson iniziò ad abbaiare spaventato.

    « Wilson vieni qui, non avere paura! » lo tranquillizzò Evan.

    Come solo il padrone amorevole di un cane sa fare, Evan lo accarezzò rassicurandolo. Da un parte Evan era tentato di raccogliere tutto e tornare verso casa prima che il temporale arrivasse, ma allo stesso tempo il pericoloso fascino dei lampi gli impediva di prendere una decisione. Aveva una gran voglia di fare qualche scatto.

    « Vieni Wilson, andiamo in auto » disse Evan.

    Nel frattempo qualche goccia iniziò a bagnarli. Evan prese una mantellina e chiuse in auto Wilson.

    « Amico rimani qui! Torno tra pochissimo » disse Evan, mentre gli dava due gustosi biscotti.

    Poi corse subito verso la sponda del lago, mentre l’ombrello che stava aprendo per poco non gli scivolò dalla mano.

    Il vento sibilava e le nuvole nere si accendevano e si spegnevano come lampade difettose. Strinse lo spago attorno al collo della mantellina e, mentre con una mano teneva l’ombrello, con l’altra impostava il tempo corretto della macchina fotografica.

    Immortalare i lampi non è facile. Per farlo ci vuole pazienza e la giusta conoscenza, cose che Evan aveva, ma il tempo stava imperversando e dopo un forte fulmine caduto a poca distanza decise di raccattare tutto e correre verso l’auto.

    Wilson era entusiasta del suo ritorno e si mise in piedi cercando di passare dal sedile posteriore a quello anteriore.

    « Aspetta Wilson, fermo! » lo incalzò Evan. « Devo prima togliere la mantellina e asciugare l’obiettivo e la macchina fotografica. »

    Mise il cavalletto dietro e dopo aver sistemato tutto accarezzò Wilson che non stava più nella pelle. La pioggia si faceva più intensa e i loro volti venivano accesi ad intermittenza dalla tempesta. Evan si asciugò come meglio poteva il viso e i capelli fradici. Mentre chiudeva la porta dell’auto scivolò dalla sua tasca il taccuino, che cadde nel fango. Lo raccolse subito, prima di serrare velocemente lo sportello, ma non si accorse che un foglietto era rimasto a terra e in pochissimi minuti venne inzuppato dalla pioggia. Vi era scritta una poesia, una delle tante che Evan aveva scritto, e che ora l’inchiostro aveva indelebilmente donato alla terra assieme alle gocce di pioggia:

    Il ricordo lacustre dorme tra i neri cristalli

    l’acqua ribolle ribelle accaldata.

    Le ortiche arcaiche respingono e

    soccombono.

    E il canneto abbrustolito

    è spezzato dal cigno di passaggio,

    distratto e pallido

    appare argenteo e scompare.

    E il canto lontano vibra incessante

    al riflesso della luna,

    lineare e disturbato.

    Il ricordo lacustre riposa tra i seni cinerei,

    il vento fosco fischia rasserenato.

    Le luci fioche accendono e scompaiono.

    E il terriccio inumidito è attraversato

    dalla nebbia di passaggio,

    astratta ed eterea,

    appare candida e scompare.

    E il profumo lontano inebria incessante

    al ricordo del gelsomino,

    penetrante e dimenticato.

    Appena rientrati a casa, Wilson mangiò e andò a buttarsi nella sua morbida cuccia, mentre Evan si fece una doccia bollente inebriandosi delle note di vetiver del suo shampoo. Poi iniziò a scaricare le foto nel computer e si mise subito a guardarle. Come ogni volta, finché non ebbe finito, non andò a dormire.

    Mentre sistemava le immagini, era frenetico e allo stesso tempo così assorto da non udire e vedere nient’altro che il proprio schermo. Il tramonto infuocato si rifletteva sulle lenti dei suoi occhiali e gli occhi turbati brillavano di gioia. Pensava a come non vi sia nulla di più bello su questo pianeta. Il sole è tutto e l’unicità con cui ogni giorno dipinge scenari spettacolari lo rasserenava.

    Le giornate uggiose, per quanto romantiche, gli suscitavano il malumore e diceva spesso che un giorno senza tramonto è un giorno che non è esistito.

    Erano ormai le tre di notte. Evan sorseggiò la sua tisana alla lavanda e a ai fiori d’arancio e spense il computer, ma non i pensieri. Salì in camera, lanciò i vestiti sulla sedia e sprofondò sul letto, senza però prendere sonno.

    Nel dormiveglia ripensò al profumo della pioggia, agli odori delle erbette montane e dei fiori e, mentre finiva di ripercorrere la giornata, si abbandonò a Morfeo.

    3

    L’indomani, anche se ormai già lo era, Evan si alzò presto. Avrebbe certamente preferito rimanere tra le coperte ancora calde, ma il sonno lo aveva abbandonato e il richiamo dell’alba e del cinguettio frenetico del mattino lo aveva spinto giù dal letto.

    Aprì gli scuri e lasciò entrare la fievole luce, mentre una garzetta spiccava il volo al rumore del balcone sulla parete. Le sponde del fiume Sinde dietro casa scintillavano di una lieve rugiada e una leggera bruma donava al corso d’acqua un aspetto magico.

    Wilson si alzò per una carezza, ma tornò subito ad acciambellarsi nella sua cuccia. Il rumore della caffettiera era sovrastato solo dall’aroma dello stesso caffè che si espandeva per tutta la cucina. Evan si accese una sigaretta e si incamminò lungo la riva del fiume fino a sparire tra la nebbia. Gli piaceva molto questa sensazione di torpore, come se non si fosse ancora del tutto svegliato. L’aria densa e la visione offuscata davano spazio allo scorrere dei pensieri, al flusso irrefrenabile della sua mente.

    La quiete del mattino e del suo animo vennero interrotte all’improvviso da due spari. L’eco si propagò, facendo volar via gli uccelli dagli alberi, mentre l’ululato di alcuni cani si perdeva in lontananza. La domenica in campagna purtroppo si macchiava ancora di una pratica preistorica, quale era la caccia. Animali allevati solo per poter essere cacciati, un divertimento tanto barbaro quanto inutile.

    Pochi istanti più tardi comparve in maniera rocambolesca un fagiano, che impaurito cercò di svolazzare il più lontano possibile.

    « Dannati cacciatori! » esclamò Evan infastidito. « Che li fotografassero gli animali invece che sparargli. »

    Si mise due dita in bocca e fischiò così forte da tagliare la nebbia in due e lo fece ripetutamente, sperando di rendere vani gli sforzi dei cacciatori. Evan non sopportava in nessun modo il maltrattamento degli animali. Era capitato spesso che lungo le rive del Sinde avesse trovato delle trappole per nutrie, degli animali non autoctoni che venivano riversati nel nord Italia da alcune aziende che con il loro manto producevano pellicce. Agghiacciato da tanta crudeltà, Evan considerava un dovere liberare queste creature.

    Con il trascorrere del tempo una fievole luce iniziava a luccicare tra le nebbiolina, un timido sole si ergeva sopra gli alberi e l’aria frizzante cominciava a mitigarsi.

    Nel frattempo Evan aveva raggiunto il boschetto vicino a casa sua, un piccolo luogo incantato, dove il Sinde si divideva in due rami, che avvolgevano come un abbraccio l’intera zona, rendendola di fatto una piccola isoletta. L’acqua in alcuni punti si trasformava in piccole cascatelle. Quello dell’acqua, era senza dubbio un suono che Evan amava molto. Per quanto fosse piccolo, questo boschetto era ricco di vegetazione. Vicino alla piccola diga vi era una coppia di enormi platani centenari, lungo le rive c’erano voluminosi pioppi, ma l’albero più maestoso era sicuramente il gigantesco pino marittimo. Inoltrandosi lungo il piccolo sentiero si arrivava a una seconda cascata, quasi interamente incorniciata da un amolo, una pianta che tra maggio e giugno si ricopre di gustosi frutti simili alle ciliegie.

    Nella sponda opposta vi era una vecchia abitazione con annesso un antico mulino ad acqua, in disuso ormai da molti anni.

    Evan amava questo luogo e lo considerava il suo giardino segreto. Mentre si sedeva su un tronco davanti al fiume, si mise a contemplare l’interezza del paesaggio, fischiettando assorto. All’improvviso si ricordò che a breve sarebbe stato il suo compleanno.

    Prese il telefono dalla tasca, aprì il calendario e disse fra sé e sé:

    « Allora il 23 sarà di martedì! Porca miseria, compirò gli anni fra soli due giorni, e non ho organizzato niente, me ne sono completamente scordato. »

    Frustrato, scagliò un sasso in acqua e il tonfo riecheggiò tra le mura vuote della casa abbandonata, facendo sobbalzare non solo i piccioni dal tetto ma anche un martin pescatore, che dalla sponda opposta si alzò in volo sparendo nel nulla. Certamente un momento meraviglioso perché vederne uno non è cosa facile. Il martin pescatore è uno splendido uccello dai colori sfavillanti, interamente blu con il petto arancio.

    « Che delizia! Mi sento davvero fortunato oggi per questo magnifico incontro » pensò Evan, mentre con lo sguardo cercava di scrutare dove l’uccello potesse essere volato, ma sapeva benissimo che non lo avrebbe rivisto.

    Ritornò poi al pensiero del compleanno, in fin dei conti quest’anno avrebbe compiuto 25 anni, una tappa importante.

    « Qualcosa mi inventerò di sicuro! » si disse. « Magari una cena e poi andiamo a farci qualche birra. »

    Si accese una sigaretta e si incamminò verso casa. Nel campo a fianco un trattore arava il terreno e, mentre rivoltava le zolle, uno stormo di gabbiani svolazzava poco sopra pronto a banchettare. Evan fece un cenno di saluto al contadino e continuò a passo svelto. Il sole sembrava volere uscire, ma appena la nebbia si diradò si iniziarono a scorgere delle nuvole minacciose.

    Nel frattempo Evan arrivò a casa e, affamato, si diresse in cucina, da dove si sprigionava il profumo del ragù, un profumo così comune quanto intimo, un richiamo irresistibile che ti riporta a casa ovunque tu sia, un aroma che ti dice che non può che essere domenica.

    « Mamma ma hai fatto le lasagne? Sento un certo profumino » esclamò Evan.

    « Sì, le ho appena messe in forno, tra pochissimo saranno pronte »

    rispose la madre mentre stendeva la tovaglia sul tavolo.

    « Magnifico! Ci volevano proprio, ho una fame super. Ma Wilson dov’è? » chiese Evan.

    « Tuo papà è andato a prendersi il giornale in edicola e ha portato Wilson con lui. » disse la madre. « Dovrebbero essere di ritorno ormai, forse si sarà fermato in piazza a chiacchierare con qualcuno. »

    « A proposito potevi ricordarmi che martedì compirò gli anni, io me ne sono ricordato solamente poco fa! » disse Evan.

    « Manca solo che ti debba ricordare anche quello. Che zuccone! » disse la madre e risero insieme.

    Nel frattempo Wilson ed il padre tornarono e, liberato dal guinzaglio, Wilson saltò addosso a Evan come se non lo vedesse da un mese.

    « Dai lavatevi le mani tutti e due che tra cinque minuti tiro fuori dal forno le lasagne! » li esortò la madre.

    Era ormai mezzogiorno e le campane iniziarono a suonare. Si sedettero a tavola ed Evan spazzolò le lasagne in due minuti.

    « Per caso ce ne sono ancora? » chiese con la bocca ancora piena.

    « Certo, le ho rimesse al caldo nel forno, porta la padella che le finiamo! » rispose la madre.

    « Mamma, ma… » disse Evan esitante « visto che martedì faccio il compleanno, me le rifaresti a mezzogiorno? Non voglio aspettare un’altra domenica per poterle mangiare di nuovo! »

    « Va bene, quindi lasagne e tiramisù? » chiese la madre.

    « Ci mancherebbe altro che manchi il tiramisù, compio gli anni solo per quello » esclamò Evan.

    « Pa’, sai che ho visto un Martin Pescatore nel boschetto? »

    « Ah sì? È da un bel po’ che non ne vedo uno, in che zona era? » disse il padre.

    « Dalla seconda cascata, vicino alla vecchia casa, si è alzato da lì e poi è sparito subito tra i pioppi, spero di riuscire a rivederlo! » disse Evan.

    « Wilson, vieni che ti do le crocchette. »

    Anche se quel cane era più viziato di un essere umano, non mangiava mai il suo cibo prima di aver ricevuto qualche boccone del cibo della sua famiglia. Passava da Evan, dalla madre e dal padre con occhi imploranti, così per tutto il tempo dei pasti, e quando vedeva che non vi era più nulla, si arrendeva a mangiare le sue crocchette.

    Mentre bevevano il caffè, Evan notò dalla portafinestra che il cielo si stava rannuvolando sempre di più.

    « Le nuvole di stamani non erano affatto promettenti, mi sa che verrà giù il finimondo oggi, che rottura! » esclamò Evan deluso.

    « Approfitta per sistemarti la stanza Evan, che hai vestiti ovunque, c’è un disastro » disse la madre.

    « Sì, lo farò sicuramente » disse Evan.

    Un classico, ma capitava davvero di rado lo facesse. La scusa del creativo disordinato dava alla sua stanza le sembianze di un campo di battaglia.

    Il vento iniziava ad alzarsi e si vedevano i salici lungo il fiume danzare. Evan corse di sopra a prendere la macchina fotografica, uscì in giardino, aprì il cancelletto che si affacciava lungo il Sinde e avanzò qualche passo lungo l’argine. Il soffio armonico del vento passava di salice in salice, mentre i pioppi in preda alla disperazione si piegavano sino quasi a spezzarsi. Nell’aria c’era odore di tempesta e i primi tuoni in lontananza facevano tremare non solo il suolo, ma anche l’anima.

    Il cielo si oscurò velocemente, quasi qualcuno avesse rovesciato un ampolla d’inchiostro. Le foglie argentee risplendevano, le novelle margherite sembravano voler volare e tutto d’uno tratto si fece silenzio, un silenzio assordante. Evan era affascinato e rimase immobile, ,mentre le prime gocce portate dal vento gli accarezzarono il viso.

    Fece qualche foto in direzione del boschetto, dove il Sinde si snodava, e proprio lì il cielo sembrava pece, quasi vi fosse un fondale nero dietro agli alberi. Le nubi si muovevano vorticosamente e il silenzio venne fatto esplodere dal frastuono del temporale e della pioggia. Il cancelletto iniziò a sbattere, Evan lo chiuse e corse subito dentro casa.

    Asciugò la macchina fotografica e si buttò in doccia.

    « Oh sì, una doccetta calda ci sta proprio! » disse Evan, mentre apriva

    l’acqua. « Oggi userò il bagnoschiuma al legno di guiaco. Con questo tempaccio è perfetto. »

    Rimase in doccia per venti minuti, quasi volesse imitare la tempesta che imperversava fuori, ma proprio mentre si stava asciugando i capelli la corrente saltò e dovette finire manualmente con l’asciugamano. Colto dalla stanchezza, decise di andare a stendersi a letto per riposare. Lesse qualche pagina del Lupo della Steppa e poi si mise a dormire. Mentre cercava di prendere sonno, il vento fischiava e ululava, la pioggia divenne grandine e il chiasso che ne risultò gli ricordò i racconti di guerra del nonno. Il crepitio della grandine sulle tegole sembrava distruggere tutto e, guidato dall’ansia e dalla curiosità, Evan tentò di aprire lo scuro della sua camera per guardare fuori, ma il vento arrabbiato glielo impedì. Si rimise sotto le coperte con le cuffie alle orecchie, scelse una playlist di musica classica e in cinque minuti si addormentò.

    Il rumore del telefono che cadeva dal letto svegliò Evan qualche ora dopo. Con gli occhi socchiusi cercò con lo sguardo la fessura degli scuri e vide una luce gialla attraversare le tende.

    Si tolse le cuffie e, constatando che la tempesta si era finalmente placata, lanciò via le coperte e si accinse ad aprire i balconi, ma quello che vide non se lo sarebbe aspettato.

    Le emozioni si susseguivano e mutavano, lo stupore della distruzione lasciava spazio alla meraviglia del cielo. Si vestì mentre correva giù dalle scale, non mancò molto che cadesse, uscì sbattendo tutte le porte e si trovò davanti a un vero disastro.

    C’erano rami e foglie ovunque, alberi sradicati, mentre il fiume Sinde era passato dalle sue acque color verde bottiglia a un marrone rivoltante, ma c’era in questa visione, purtroppo o per fortuna, un richiamo più forte della devastazione ed era quello della bellezza. Il cielo plumbeo si stava squarciando e quella luce gialla filtrava densa tra mille spiragli, dando vita a un gioco spettacolare, quasi fiabesco.

    Il temporale ormai si era allontanato ed Evan prese il suo zaino fotografico, si infilò degli stivali, inforcò la bici e si diresse verso il boschetto. Anche lì molti alberi erano stati abbattuti dalla tempesta, le cascate si erano ingrossate, la casa disabitata con gli scuri spalancati sembrava aver ripreso vita e il fruscio del vento che se ne andava parlava della pioggia.

    Il sole dopo il temporale era qualcosa di magico. Era la speranza dopo il dolore, era la mano che asciuga le lacrime. Si sa, ogni tempesta, ogni sofferenza, non vengono per distruggere, ma per rinnovare. Dietro a ogni raggio vi è un nuovo insegnamento, vi sono novità da scrutare, una nuova luce da contemplare, dei dettagli che forse hanno il potere di cambiare tutto. Non è cosa facile descrivere un tramonto e quello che stava vedendo Evan in quel momento era certamente un’opera straordinaria della natura. C’era una sensazione nell’aria quasi inspiegabile. Rimase impietrito ad ammirare, ad ascoltare il suono di quella visione e avvertiva in quel istante che anche la sua essenza si apriva, si rischiarava.

    Sistemò il grandangolo alla macchina fotografica in modo da permettergli di avere un’inquadratura più ampia della scena, saltò giù dalla piccola chiavica che vi era all’inizio del boschetto, sprofondando con gli stivali nel fango, e si chinò per posizionare il cavalletto.

    Guardò dentro al mirino, scelse un’inquadratura e iniziò a scattare. Guardò dentro a se stesso, trasognante. Era immerso nel paesaggio del tramonto, ammaliato dalle nuvole infuocate riflesse nel Sinde e aveva l’impressione di essere dentro a un dipinto.

    Con il cuore aveva già impresso tutto, ma voleva anche fotografarlo al meglio.

    Dovette appoggiare l’attrezzatura sopra al muretto per cercare di divincolarsi dal fango, sembrava quasi stesse sprofondando nelle sabbie mobili. Fece dei movimenti circolari per liberarsi dal pantano e facendo presa sul muretto riuscì a tirarsi sù, ma nel farlo dovette passare forzatamente in mezzo

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