Il troncarami a battuta curva e altri attrezzi
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Anteprima del libro
Il troncarami a battuta curva e altri attrezzi - Paola Ranzani
creatrice"
Il troncarami a battuta curva
«Ci casco sempre, che cretino!»
Lo zio era imbestialito.
«Vedi che succede a prestare le cose! Quando è stato? L’anno scorso in agosto, mi pare e non me l’ha più restituito. Sono stufo, stufo marcio, quello si prende delle libertà, prende questo, prende quello, come le forbici per potare che ho dovuto ricomprare. Non sono mica la sua ferramenta e che cavolo; se li compri gli attrezzi. Pidocchio. Parassita!»
Effettivamente il vicino se ne approfittava. Era il compagno di una sua lontana parente, figlia di emigrati a Genova dalla montagna reggiana, la Gina, che con alcuni familiari passava qualche breve periodo di vacanza in quella vecchia casa, con travi sbilenche e intonaci corrosi; in agosto, a capodanno o per la festa delle castagne. Dopo anni di assenza e abbandono qualcuno era infine tornato in quella casa chiusa da anni.
Per la festa delle castagne… Che poi le castagne ormai non c’erano neppure più: quelle di Minozzo o di Sologno si erano inselvatichite come donne non corrisposte e non le raccoglieva più nessuno, le mangiavano i cinghiali, va a sapere che ci venivano a fare qua in appennino, anziché starsene al mare, visto che dicevano di abitare ad Arenzano. Ormai mio zio Luigi non sapeva manco più quale fosse il grado di parentela con quei vicini che parlavano come il Gabibbo.
«Senti, io ora glielo dico, che me lo deve restituire, perché mi sono rotto le palle, di lui e anche di sua moglie che ogni volta che vengono si affacciano al muretto e chiedono, chiedono, con quella cantilena genovese che sembrano dei brasiliani: scusami, non avreesti queesto Luigi? E magari non avreesti per caso un tasseello del quindicii? E il trapanoo? E prestami per favore quelloo… e questoo, un attiminoo . Un attimino un cavolino, che poi quanto mi stanno sulle palle quelli che dicono un attimino, finisce che glielo presto e se lo tengono dei giorni, e poi quando mi faccio coraggio per chiederlo indietro manca sempre qualcosa, la punta da pietra, la chiave per stringere, lo ritrovo sporco come se lo avessero buttato nel fango.»
Mia zia mediava: «Sì è giusto, devi andare a riprenderglielo. Con serenità e decisione, dici: scusa Giona, mi ridai il troncarami? Te l’ho prestato in agosto e poi tu sei andato via e hai chiuso la casa, ti sei dimenticato… no no.. non dirgli così, anzi magari chiedigli con gentilezza, se per caso, per puro caso, ha lui il tuo troncarami che forse, ma forse eh!... glielo avevi prestato in agosto.»
«No, no, Marisa. Non ci siamo. Vado da Giona e lo pretendo. PRETENDO. Nuovo dico, nuovo, l’avevo appena comprato, settanta euri sonanti, da Franzini a Castelnovo Monti, un Castellari, professionale a battuta curva. Però che scemo lasciarlo sul muretto mentre bevevo il caffè, non aspettava altro…: Oh Luigi, ne approfittoo un attiminoo che taglio quel ramo bassoo del fico.»
Passavo le vacanze dagli zii a Minozzo, antico borgo e frazione di Villa Minozzo paese dell’ alto appennino reggiano. Gli zii erano degli attivi sessantacinquenni, ormai in pensione dopo una carriera da insegnanti.
Mi piaceva molto stare da loro, non solo per il clima nettamente più fresco che a Bologna e neppure solamente per il bel paesaggio, diviso tra la vista della Pietra di Bismantova e il monte Prampa; quello che mi divertiva maggiormente era assistere alle loro schermaglie e il fatto che mi facessero partecipe e testimone involontario delle liti col vicino che in fondo mi era molto simpatico. Liti. Veramente no. Erano solo ansiose e drammatiche rappresentazioni di possibili diverbi che si consumavano in modo quasi rituale, esclusivamente tra loro. Vere liti con i vicini non ne ho mai viste, le tensioni si sfogavano così: con dispute accese, contenziosi infiniti e ragionevoli conclusioni della coppia.
Lo zio si fece coraggio e andò quindi a pretendere la restituzione del troncarami.
Dalla mia comoda sdraio potevo vedere Giona, il colpevole, che armato di un grosso bicchiere panciuto, ornato di cannuccia nera e colmo di una ondeggiante soluzione arancione, crollava sulla sua poltrona da giardino, con un verso che faceva sempre: non era un sospiro, direi che era una sorta di sfiato esausto, il verso di uno che schianta dalla stanchezza.
In effetti mi pareva piuttosto pigro; si alzava tardi e stava prevalentemente in poltrona ad armeggiare con uno dei tanti telefonini della sua collezione, un cellulare decennale, alzandolo, abbassandolo per controllare il segnale debole, commentando ogni cosa ad alta voce.
Non era antipatico, anzi, era dotato di un carattere spigliato e socievole, aiutato dalla sua tendenza etilica che lo portava ad essere sempre un po’ euforico.
Mio zio si alzava il mattino prestissimo per i suoi lavori; dopo tanti anni passati ad insegnare storia e italiano si era convertito all’agricoltura.
«D’estate, alle nove, bisogna già avere finito la giornata di lavoro nell’orto, che poi si gronda.»
E infatti, alle nove, lui aveva già tre ore di lavoro alle spalle e contemplava compiaciuto le sue file di pomodori e il campetto ordinatissimo, geometrico, con file e quadrati di bietole e carote. Un quadro di Mondrian. Voltando lo sguardo e mutando rapidamente espressione, poteva invece vedere il cortile ingombro di rottami dei vicini: latte arrugginite, un vecchio lavandino gettato al suolo in un angolo, contornato da erbacce secche, qualche cespuglio informe, capace nonostante tutto di sorprendenti fioriture, sedie sbilenche sparse, resti di bivacchi e grigliate, mosconi ipertrofici che volavano appesantiti e obesi sulle croste di zucchero delle molte tazzine abbandonate. Un quadro di Pollok.
Giona di solito si affacciava verso le nove o le dieci, sbadigliando rumorosamente per poi crollare sulla poltrona con il solito sfiato, tirandosi indietro i capelli lunghetti e unticci, grattandosi le spalle pelose. La sua compagna gli portava premurosa un caffè, che lui sorbiva con soddisfazione e alto volume di schiocchi di labbra.
Raramente si metteva in movimento per fare qualcosa di utile per la sua casa, tipo tagliare un po’ d’erba, potare qualche cespuglio, legare qualche tralcio della sformata massa vegetale del decadente pergolato.
Se lo faceva immancabilmente c’era già il sole a picco e presto si arrendeva imprecando, tra rivoli di sudore per il caldo e i tafani.
Era già un po’ che zio era scomparso nella casa del vicino, e non si sentiva volare una mosca. La Marisa era inquieta.
«Non sarà successo qualcosa? E’ più di mezzora che è là dentro, magari l’ha fatto arrabbiare; speriamo bene, se non torna tra cinque minuti vado a vedere.»
Poco dopo lo zio uscì, senza il troncarami, ma con una bottiglia agguantata per il collo.
«Vai a capire: abbiamo controllato insieme ma il troncarami non c’è, anzi, lui giura che in agosto, il giorno stesso, l’aveva rimesso sul muretto dove l’aveva trovato, uffa, l’avrà portato via qualcuno che l’ha visto passando.»
«Doveva avvisarti, non lasciarlo lì in bellavista, anche se fosse vero è colpa sua, deve ripagartelo e basta…»
«Non me la sono sentita di insistere, in fondo è stato molto gentile, ci siamo fatti un bicchierino, mi ha raccontato del suo lavoro, che però non ho capito bene, mi pare faccia commercio ambulante, davvero interessante, dice che vende dei ravatti, ma che sono i ravatti?.»
«E la bottiglia? »
«E’ un olio finissimo, del suo oliveto sopra Arenzano, che ne fa pochissimo, così dice… ed è speciale. L’ho assaggiato sul pane, davvero squisito, una favola.»
«Gentile però, a regalarti l’olio.»
«Non me l’ha regalato, lo vende a dodici euri al litro, però li vale tutti, ne ho preso un litro per provarlo.»
«Si dice euro, non euri. Che fine ha fatto il prof di italiano? Comunque non è un litro, è una bottiglia di vino da settanta cc, ti fai pure fregare, va be’ contento te! Intanto sei senza troncarami…»
«Ma sì, chessaràmai, domani c’è mercato a Castelnovo, ne compro uno più economico che va bene lo stesso.»
Il giorno dopo andammo tutti e tre a Castelnovo Monti, che è proprio un bel paesone e in fondo lo zio se la cavò con venti euro; comprò poi anche un pennato e un segaccio. Approfittammo del viaggio per fare la spesa alla Coop. Mentre la zia valutava quale cassa avesse la fila più veloce, incontrammo la compagna di Giona, Gina, che spingeva un carrello stipato di bottiglie di olio Coop che quel giorno erano in offerta sottocosto.
Lei non diede segno di vederci, forse non ci vide davvero, ma gli zii la notarono e osservarono il carrello guardandosi tra loro con un punto interrogativo stampato sul volto.
Intorno alla storica Rocca andò intensificandosi il via vai di bottiglie d’ olio di Arenzano.
«E’ una truffa dovesti telefonare ai NAS, Luigi.»
«Ma dai, ai NAS! Addirittura! Non è mica adulterato; scoprono che è olio di oliva, come dice lui, certo che è un gran furbone, mi viene anche il dubbio per quel passito che ci ha portato l’ anno scorso, che poi mi sono informato, lo Sciacchetrà lo fanno solo a Rio Maggiore non ad Arenzano. Ti ricordi che ne ho comprato tre bottiglie? Magari era lo Zibibbo che vende il Discount. Sì, purtroppo credo sia proprio un gran furbone.»
La mattina vidi Giona accatastare due cartoni colmi di bottiglie di olio Coop vuote e mi venne da sorridere quando lo vidi crollare sulla poltrona col solito verso, quasi stesse sgonfiandosi. Doveva avere fatto almeno un’ora di duro lavoro a travasare.
Comunque presto il commercio si estinse, le vacanze estive si avvicinavano alla fine, i villeggianti ripartivano e c’era aria di smobilitazione.
Anche Giona sembrava dedicarsi seriamente a piccole riparazioni e da due giorni era intento a passare un po’ di impregnante sugli scuri.
Ovviamente aveva chiesto allo zio nell’ ordine: la levigatrice, la carta abrasiva, un pennello… Lo zio, sbuffando e gorgogliando in dialetto stretto, aveva fornito solo carta e pennello, il più frusto di tutti e aveva detto che la levigatrice era rotta. Aveva declinato l’offerta di Giona che proponeva