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Il Fiore di Rim
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E-book410 pagine6 ore

Il Fiore di Rim

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Info su questo ebook

Nel mese di marzo del 2020, durante il lockdown in seguito all'epidemia, dovevo stare quasi tutto il giorno a casa. Per passare il tempo, avevo pensato di fare quelle cose che, in condizioni normali, non avrei mai fatto. Una di queste era mettere in ordine il contenuto del grande tiretto del mio comò dove, da anni, giace una marea di carte, documenti e quant'altro. Così, un giorno, entrando in camera da letto, avevo deciso di mettere ordine in quel tiretto. Dopo averlo svuotato sul letto, mi ero messo con tutta calma a vedere il suo contenuto. C'erano cose da buttare, altre da conservare gelosamente, altre invece da tenere solo come ricordo. Ad un tratto, avevo notato una busta da lettera, leggermente ingiallita che, a prima vista, sembrava una vecchia lettera. Ma non lo era. Non ci potevo credere ai miei occhi. Era la poesia che Rim mi scrisse nel giugno del 1980, quasi quarant'anni fa, e che s'intitolava ``Perché sei mio''. Da quel momento, del contenuto di quel tiretto non mi interessava più niente. Così, avevo rimesso subito tutto dentro come capitava, poi mi ero seduto sul letto con la poesia in mano. Prima di iniziare a leggerla, istintivamente, l'ho poggiata per un attimo sul mio cuore e ho sentito un mix di tristezza, nostalgia ed altri sentimenti che non riuscivo a capire. Il ritrovamento di quella poesia, secondo me, non era opera del caso, ma era un messaggio di Rim che mi chiedesse di scrivere la nostra travolgente storia d'amore che, ancora oggi, mi ricordo di ogni suo singolo episodio. Quella storia, tuttora, la considero la cosa più bella, intensa ed emozionante che mi era successa nella vita. Poco importa poi come era andata a finire. Sono ancora convinto che, senza quella storia, la mia vita non avrebbe avuto nessun significato. E così io ve la racconto, partendo dal lontano settembre del 1979.
LinguaItaliano
Data di uscita28 giu 2023
ISBN9791220275903
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    Anteprima del libro

    Il Fiore di Rim - Jilani Khaldi

    Il Fiore di Rim

    Jilani Khaldi

    Copyright © 2023 - Jilani Khaldi

    All rights reserved.

    Table of Contents

    Dedica

    Prologo

    §1. Settembre 1979

    §2. Il colloquio al centro geofisico

    §3. Il mio nuovo lavoro

    §4. Vantaggi e svantaggi

    §5. Ottobre 1979

    §6. Il primo incontro

    §7. Le prime lezioni

    §8. La svolta

    §9. Dicembre 1979

    §10. Perché ti chiamano Brown?

    §11. Pantera

    §12. Eddy

    §13. Gennaio 1980

    §14. Post fidanzamento di Rim

    15. Febbraio 1980 (Parte Prima)

    §16. Febbraio 1980 (Parte Seconda)

    §17. Marzo 1980 (Parte Prima)

    §18. Marzo 1980 (Parte Seconda)

    §19. Marzo 1980 (Parte Terza)

    §20. Aprile 1980

    §21. Maggio 1980

    §22. Giugno 1980 (Parte Prima)

    §23. Giugno 1980 (Parte Seconda)

    §24. Giugno 1980 (Parte Terza)

    §25. Festa di addio

    §26. Luglio 1980

    §27. Agosto 1980

    §28. Settembre 1980 (Parte Prima)

    §29. Settembre 1980 (Parte Seconda)

    §30. Ottobre 1980

    §31. Marzo 1990

    §32. La fine di una speranza

    §33. Ultimo giorno a Tunisi

    §34. Post Rim

    Dedica

    Dedico questo romanzo a tutte le persone che hanno avuto una grande storia d'amore, ma che non hanno avuto l'opportunità di raccontarla.

    San Salvo (CH) - Italia

    3 Marzo 2021

    Prologo

    Mi vedrai nel volto di ogni donna che incontrerai, perché sei mio. (Rim - 28 Giugno 1980)

    Nella vita, ci rendiamo conto dell'importanza delle cose solo quando le abbiamo irrimediabilmente perse. (Brown)

    Nel mese di marzo del 2020, durante il lock-down in seguito all'epidemia, dovevo stare quasi tutto il giorno a casa. Per passare il tempo, avevo pensato di fare quelle cose che, in condizioni normali, non avrei mai fatto. Una di queste era mettere in ordine il contenuto del grande tiretto del mio comò dove, da anni, giace una marea di carte, documenti e quant'altro.

    Così, un giorno, entrando in camera da letto, avevo deciso di mettere un po' di ordine nel comò. Dopo aver svuotato il primo tiretto sul letto, mi ero messo, con tutta calma, a vedere cosa conteneva. C'erano cose da buttare, altre da conservare gelosamente, altre invece da tenere solo come ricordo. Ad un tratto, avevo notato una busta da lettera, leggermente ingiallita che, a prima vista, sembrava una vecchia lettera. Ma non lo era. Non ci potevo credere ai miei occhi. Dentro quella busta c'era la poesia che Rim mi scrisse nel giugno del 1980, quasi quarant'anni fa, che s'intitolava Perché sei mio.

    Da quel momento, del contenuto di quel tiretto non mi interessava più niente. Così, avevo rimesso subito tutto dentro come capitava, poi mi ero seduto sul letto con la poesia in mano. Prima di iniziare a leggerla, istintivamente, l'ho poggiata per un attimo sul mio cuore e ho sentito un mix di tristezza, nostalgia ed altri sentimenti che non riuscì a decifrare.

    Il ritrovamento di quella poesia, secondo me, non era opera del caso, ma era un messaggio di Rim che mi chiedeva di scrivere la nostra travolgente storia d'amore che, ancora oggi, mi ricordo di tutti i dettagli di ogni suo singolo episodio.

    Quella storia, tuttora, la considero la cosa più bella, intensa ed emozionante che mi era capitata nella vita. Poco importa poi come andò a finire. Sono ancora convinto che, senza quella storia, la mia vita non avrebbe avuto nessun significato. Ed ora ve la racconto, partendo dal lontano settembre del 1979.

    1. Settembre 1979

    Da ragazzo, avevo sempre odiato settembre. Per me era il mese delle preoccupazioni e le angosce. Appena arrivava, finivano le vacanze, il divertimento, l'allegria e tutta la spensieratezza dell'estate. Finivano anche gli amori e le amicizie stagionali. Poi iniziavano il lavoro, la scuola, l'università e gli incubi degli esami.

    In quel giorno d'inizio settembre, ricevetti una lettera dal preside della scuola. Mi comunicò la conferma dell'incarico di insegnante di matematica per il secondo anno e la data d'inizio dell'anno scolastico. Poi concludeva che in caso di rifiuto dell'incarico, lo dovrei comunicare all'amministrazione almeno tre giorni prima della data d'inizio delle lezioni.

    Quella lettera mi fece preoccupare e non poco. Per me fu un gran segnale d'allarme. Avevo ancora meno di due settimane per trovare un nuovo lavoro, altrimenti dovrei passare un altro anno simile a quello precedente se non volessi rimanere disoccupato. Per me tornare ad insegnare nella stessa scuola era una replica dell'anno scolastico appena passato. Cioè, per cinque giorni la settimana, fare esattamente le stesse cose. A partire dall'attraversare con il motorino tutta la città di Tunisi dalla periferia nord, dove abitavo, fino alla deprimente periferia sud dove lavoravo. Un traffico intenso e caotico, soprattutto nelle ore di punta, con il rischio di fare un incidente da un momento all'altro.

    Non parliamo poi d'inverno, quando le condizioni climatiche erano avverse. Strade interrotte o allagate, schizzi d'acqua delle macchine che passavano, pioggia, freddo, raffiche di vento e disaggi da non finire. Poi, una volta in classe, le condizioni di lavoro erano sempre pessime. Aule piccole ed affollate, ghiacciate d'inverno. Non c'era nessun tipo di riscaldamento. Poi a partire dal mese di maggio, arrivava il caldo che, giorno dopo giorno, aumentava fino a diventare insopportabile.

    A tutto questo, aggiungiamo studenti svogliati e dispettosi, rendimento bassissimo e, per finire in bellezza, stipendio basso. Così, per arrivare a fine mese, dovevo per forza arrotondare con qualche ora di ripetizioni. Era una necessità, una questione di pura lotta per la sopravvivenza. Ricordo che spesso finivo le mie giornate di lavoro senza voce, con tanta rabbia nel profondo dell'anima e la voglia di non tornare più a quella maledetta scuola. Mi chiedevo spesso: «ma non potevo trovare qualcosa di meglio per vivere?»

    Ero quasi convinto di non dovere più continuare ad insegnare. Almeno in quella scuola. L'esperienza dell'anno precedente bastava e avanzava. Perciò, durante quei pochi giorni rimasti prima del rientro, intensificai le mie ricerche per trovare un nuovo lavoro, sperando in un colpo di fortuna. Così, da quel giorno, portavo sempre con me, ovunque andassi, una piccola cartella con tre buste affrancate e tre fogli di protocollo. In quel modo, potevo rispondere immediatamente a qualsiasi annuncio che mi potesse interessare.

    Durante i giorni di fine agosto ed inizio settembre, passavo quasi tutte le mattinate nella caffetteria del parco del Belvedere che distava quasi tre chilometri da casa. Un lembo di terra ad una cinquantina di metri dallo zoo, circondato d'acqua di color verde intenso con coloratissimi pesci ed anatre. Un posto meraviglioso per rilassarmi, leggere libri e giornali, studiare e chiacchierare con gli amici, al coperto oppure all'aria aperta, immersi nella natura. Lo frequentavo con i compagni di scuola dai tempi del liceo per fare compiti e commedie.

    Era Garofano il gestore della caffetteria, faceva anche il cameriere per risparmiare sulle spese di servizio. Un mio ex compagno di scuola che, dopo il diploma di terza media, andò a lavorare per aiutare la famiglia dopo la morte del padre. Si sposò molto giovane. Aveva la mia età ed era già papà di due figli. Quando vedeva una bella ragazza, diceva sempre che la sua più grande sfortuna fu quella di sposarsi troppo giovane, altrimenti, si sarebbe sposato con quella che passava in quel momento.

    A proposito, sono stato io a dargli quel soprannome perché a scuola, di tanto in tanto, si presentava con un fiore di garofano all'orecchio. Ma solo lui e pochi ex compagni di scuola si ricordavano di questo fatto. Garofano era magro, alto e con uno sguardo penetrante che a volte sembrava cattivo e sfidante, ma, in realtà, non lo era mai stato. Aveva il passo corto e veloce, perciò appariva sempre dinamico. Era un tipo particolare, molto simpatico, con la battuta sempre pronta e che spesso canticchiava canzoni d'amore mentre serviva i clienti.

    A Garofano piaceva molto sapere i fatti degli altri, ma non svelava mai i suoi. Per chi lo incontrasse per la prima volta, lo poteva prendere in simpatia oppure in antipatia. Non c'era una via mezzo. Era il mio compagno di banco e non avevamo mai avuto un diverbio perché non lo prendevo mai sul serio. Tutti i suoi atteggiamenti mi facevano solo ridere. E fino all'ultima volta che lo vidi, il nostro rapporto era rimasto praticamente invariato.

    In quegli anni, in tutte le caffetterie di Tunisi, c'era una simpatica abitudine praticata dai suoi frequentatori. Leggevano i giornali, poi li lasciavano sul tavolo. Così, altri li potevano leggere e così via. Approfittando della generosità intellettuale dei lettori, chiesi a Garofano di conservarmi quei giornali con i maggiori annunci di offerte di lavoro. Così potevo risparmiare il prezzo di almeno tre giornali, visto che gli stessi annunci di solito duravano qualche giorno.

    Quei primi giorni di settembre, per me, furono molto tristi. E non solo per l'arrivo della lettera dal preside. La mia amata e bellissima Jamila tornò a Tripoli a fine agosto, senza lasciare alcuna traccia e nemmeno salutarmi. La conobbi al festival di Cartagine durante un concerto, a metà luglio, e da quella sera ci incontravamo quasi tutti i giorni. Era in vacanza con la famiglia a Tunisi. Ci innamorammo subito e passammo le ultime due settimane di agosto da fidanzati con infinite gioie, dolcezze e tenerezze. Poi tutto finì all'improvviso. Jamila sparì lasciandomi un enorme vuoto ed infiniti punti interrogativi.

    Io e Jamila, spesso passavamo il pomeriggio al parco del Belvedere a passeggiare e chiacchierare, prima di accomodarci nella caffetteria. Lì, Garofano ci riservava un posto discreto sotto un grande albero accanto all'acqua. Jamila piaceva molto a Garofano, come gli piacevano tutte le belle ragazze. Così, di tanto in tanto, veniva al nostro tavolo per cantarci un pezzo di qualche canzone d'amore. A volte si univa a noi offrendoci il meglio della sua caffetteria. Quando poi Jamila lo provocava, allora lui si scatenava con le sue irresistibili battute che ci facevano tanto ridere, soprattutto a lei. Spesso ridevo solo per accompagnarla perché quelle battute le conoscevo tutte, ormai da una vita, anche se lui aggiornava di continuo il suo repertorio.

    Quel giorno stavo da solo, ero pensieroso e di cattivo umore. Garofano sapeva della partenza di Jamila. Quando mi portò il caffè ed i giornali del giorno precedente, mi guardò con un'aria un po' da strafottente e mi cantò un pezzo di una nota canzone d'amore: e se ne andò senza nemmeno salutarmi.... Allora io gli dissi:

    «Senti Garofano, per favore, non rompere di prima mattina. Lasciami stare, vattene.» e lui, senza prestare la minima attenzione alla mia richiesta, si sedette accanto a me e mi disse:

    «No, non me ne vado, perché non posso vedere il mio miglior amico ed ex compagno di classe per anni, nonché il mio miglior cliente triste.»

    «Ma non vedi che ci sono dei clienti che ti aspettano?»

    «Non me ne frega niente di loro, ci sono gli altri camerieri a servire. E se hanno fretta, potrebbero pure andarsene.»

    «Va bene. Ma che mi puoi fare?»

    «Prendiamo qualcosa insieme mentre parliamo.»

    «Sbrigati allora, offrimi il meglio che hai, anche se Jamila non c'è.»

    «Ma non ti preoccupare Brown, vedrai che se ne andata Jamila e verrà un'altra ancora più bella.»

    Garofano era uno tra i pochi amici che mi chiamavano Brown al di fuori dei compagni del Campus. E così gli risposi:

    «Vedo che sei diventato anche poeta Garofano. Non smetterai mai di stupirmi.» e ci demmo il cinque.

    Quella frase, detta in arabo, era poetica perché la parola jamila in arabo significa bella. Così, lui usò lo stesso termine sia come nome, sia come aggettivo. Cioè, la sua frase è traducibile in: Ma non ti preoccupare Brown, vedrai che se ne andata Bella e verrà un'altra ancora più bella. Devo ammettere che quella volta Garofano previde veramente il futuro per me.

    Passai tutte le mattinate successive a leggere gli annunci di lavoro dei quotidiani dei giorni precedenti che Garofano mi conservava, nonché a chiedere lumi ad amici e conoscenti. Ma non riuscii a trovare niente di interessante. I giorni passavano in fretta mentre le mie preoccupazioni crescevano giorno dopo giorno. Avevo pensato anche di emigrare, ma ormai era troppo tardi per quell'anno. Ci dovevo pensare molto prima, almeno a fine primavera, come fecero due miei ex compagni che migrarono in Canada. Io, invece, a fine anno scolastico, decisi di passare un'estate tranquilla e spensierata a Tunisi. E così rimasi fregato.

    Due giorni più tardi, sempre di mattina e nella stessa caffetteria, lessi questo annuncio: Importante ente pubblico cerca un giovane fisico per un posto di lavoro a tempo indeterminato. Ambiente stimolante, ottima remunerazione ed assicurata carriera di lavoro. Il candidato deve essere militesente e con padronanza della lingua inglese scritta e parlata. Scrivere all'ufficio di collocamento all'indirizzo..., offerta di lavoro numero....

    Lessi quel annuncio un paio di volte. Sembrava proprio che cercassero me. Così, in meno di due ore da quel momento, la mia lettera di risposta a quel annuncio era stata già imbucata nella casella di posta rapida. In quel modo, poteva arrivare a destinazione al massimo la mattina del giorno dopo.

    Durante il resto della giornata, non avevo mai smesso di pensare a quel annuncio. Non vedevo l'ora di avere una risposta, almeno per capire chi l'aveva fatto. Comunque mi sentii leggermente sollevato, almeno sul piano psicologico. Per me, il sasso l'avevo già buttato ed ora dovevo solo aspettare il suo eco. Continuai lo stesso a cercare altri annunci, ma con meno affanno.

    La mattina di tre giorni dopo, mi ero appena alzato quando sentii il campanello di casa suonare due volte. Così faceva il postino con me quando c'era posta da firmare. Due brevi invece quando c'era posta normale. Corsi subito alla porta e lo trovai davanti con una lettera in mano:

    «Buongiorno! Una raccomandata da firmare.»

    «Una raccomandata? E da dove arriva?»

    «Vediamo un po'. Dal Centro Geofisico Nazionale. La accetti?»

    Risposi come se fossi in un sogno:

    «Centro Geofisico Nazionale! Certo che l'accetto. Dove devo firmare?»

    «Qui. Indicare data e ora.»

    Aprì la lettera con molta cura, in modo da non danneggiare lo stemma e l'intestazione sulla busta. La lessi prima in piedi, poi seduto, e di nuovo in piedi. Giravo dentro la mia piccola casa passando da una camera all'altra, con la lettera nella mano destra e la busta nella mano sinistra senza sapere cosa dovevo fare. Poi, di tanto intanto davo un'occhiata alla busta per guardare lo stemma e l'intestazione che erano bellissimi: Ministero dell'Energia e delle Miniere - Centro Geofisico Nazionale. Ero contento e stupito allo stesso momento. Non mi aspettavo una risposta del genere. Pensai subito che quella lettera potesse cambiare completamente la mia vita. In positivo, ovviamente.

    La lettera conteneva pochissime parole. Mi chiedevano di recarmi il giorno successivo al Centro Geofisico, alle nove di mattina, munito della lettera e di un documento di riconoscimento per sostenere un colloquio. Quindi, non era un'assunzione. Ma io, comunque, ero contento e fiducioso.

    Telefonai all'istante a mio cugino Mounir e gli parlai di questa inaspettata notizia. Lui, oltre ad essere mio cugino, fu il mio miglior amico e confidente negli ultimi anni. Aveva pochi anni di più di me ed era una persona eccezionale, calma, saggia e riflessiva. Non ci fu mai un problema tra di noi. Ci chiamavamo dandoci l'appellativo fratello. Ci volevamo molto bene. Faceva l'impiegato presso la Lega Araba a Tunisi, conosceva e frequentava gente di alto rango sociale.

    Mounir sapeva già della lettera che avevo inviato all'ufficio di collocamento, ma non sapeva fino a quella mattina quale fosse l'ente che pubblicò l'annuncio. Così, gli chiesi se conosceva qualcuno che mi potesse dare una mano, ma lui mi rispose ridendo:

    «Conosco uno solo che sicuramente ti farà prendere quel posto.» mentre continuava a ridere. Allora io gli chiesi stupito:

    «E chi è?»

    Ma lui per pochi secondi rimase in silenzio, come se stesse cercando di ricordare un nome, poi mi rispose seriamente:

    «Guarda che quella persona sei proprio tu, fratello. Vai tranquillo domani, quel posto è tuo perché non troveranno meglio di te. Ne sono certo. Domani avrai la conferma.»

    A pensarci bene, Mounir disse il vero.

    Io e Mounir passammo tutto il pomeriggio a girare tra caffetterie e centri culturali. Volevo perdere tempo ed arrivare subito all'indomani. Cenammo insieme al nostro abituale ristorante del centro, poi ognuno tornò a casa sua. Anche lui, come me, viveva da solo, ma al centro di Tunisi.

    Quella notte, dopo aver immaginato infiniti scenari del colloquio di domani fino a tarda notte, mi addormentai profondamente. Fu una delle poche volte che mi svegliai la mattina prima che suonasse la sveglia. Mi sentii abbastanza riposato e pronto per l'attesissimo colloquio. Non riuscii a mangiare niente quella mattina, avevo lo stomaco chiuso. Forse per l'emozione. Mi feci la barba, mi vestii ed uscii di casa in fretta. Non vedevo l'ora di arrivare al Centro Geofisico. Ma dopo solo un centinaio di metri, mi venne un dubbio. Non mi ricordavo se avevo chiuso la porta di casa a chiave o meno. Così tornai indietro per controllare. Era chiusa a chiave. Non mi feci nessun rimprovero per l'accaduto perché l'emozione era forte quella mattina.

    Alle nove precise, mi presentai al Centro Geofisico con la lettera e la mia carta d'identità in mano. Un palazzo signorile ottocentesco di quattro piani in Via d'Inghilterra, in pieno di Tunisi, con un giardino davanti molto curato. Quella via l'avrei attraversata chissà quante volte a piedi, prima di quel giorno, ma senza mai accorgermene della presenza di quel edificio.

    Appena misi piede nel grande hall, vidi un usciere dirigersi verso di me. Lo salutai e gli spiegai il motivo della mia presenza con la lettera e la mia carta d'identità in mano. Mi chiese subito di seguirlo al terzo piano dove il direttore mi stava già aspettando. Lì, l'usciere mi chiese di aspettare, poi bussò alla porta dell'ufficio del direttore ed entrò da solo. Dopo un attimo uscì e mi chiese di accomodarmi.

    L'ufficio del direttore era piccolo, ma molto ordinato, pieno di fotografie e piccoli quadri. Era poco luminoso, anche con la luce accesa, aveva una sola finestra di modeste dimensioni. Dietro la scrivania c'erano due armadi pieni di libri ed oggetti vari. Alcuni libri erano messi in ordine, altri invece erano accatastati alla rinfusa maniera. Questi ultimi, molto probabilmente, erano quelli che il direttore consultava di frequente. Non si sentiva l'odore di fumo di sigarette in quel ufficio, tipico di tutti gli uffici in Tunisia, forse perché il direttore non fumava, oppure non fumava all'interno del suo ufficio. Così dedussi.

    Il direttore era sulla cinquantina, capelli brizzolati, basso e un pochino sovrappeso. Aveva i baffi e portava spessi occhiali da vista. Rispose al mio saluto con una voce molto bassa, poi mi fece un cenno con la mano di sedermi su una delle sedie di fronte alla sua scrivania. Mi diede l'impressione della persona molto religiosa. Notai che davanti a lui, sulla sua scrivania, aveva una scheda con il mio nome e la lettera che avevo inviato. Questo voleva dire che eravamo più concorrenti a partecipare alla selezione e che ci presentavamo per il colloquio uno alla volta.

    Il direttore iniziò a parlare molto piano e a bassa voce, mentre teneva la mia carta d'identità tra l'indice ed il medio girandola continuamente da una parte all'altra, dicendo:

    «Quindi, figlio di El Jerid?» (regione del Sud Ovest della Tunisia).

    «Sì, sono nato lì, ma a nove anni la mia famiglia si trasferì a Tunisi. Scusi direttore, ma ci sono molti concorrenti?»

    «Finora lei è il numero nove. Noi prenderemo il più adatto alle esigenze del Centro. Saremo molto leali. Questo la preoccupa?»

    «No, affatto, mi sembra giusto.»

    Poi, guardandomi negli occhi, continuò a dire:

    «Vedo che lei ha fatto le medie ed il liceo scientifico a Collège Sakidi. Allora è bravo?»

    «Me la cavavo abbastanza bene, grazie.»

    «Lo dicono i fatti. Tutti quelli che avevano studiato in quella scuola, chi più, chi meno, hanno raggiunto un certo successo nella vita.» poi, guardando la mia lettera, aggiunse:

    «Ho notato che, oltre la calligrafia, la sua domanda si presenta diversamente da quelle degli altri concorrenti. In senso positivo, voglio dire.»

    «Grazie, l'ho scritta al volo in una caffetteria dopo aver letto l'annuncio.»

    In quel momento il direttore assunse un atteggiamento più serio e cominciò a parlare più velocemente:

    «Ora le devo fare una serie di domande e lei mi deve rispondere in modo molto breve. Anche con un semplice sì o no.»

    «Sono pronto.»

    «Qual è il colore del cancello del Centro Geofisico?»

    «Verde scuro.»

    «Sicuro?»

    «Sì.»

    «Quanto costa la rivista Time?»

    Ero molto contento di sentire questa domanda. Per me fu quella della provvidenza, così risposi velocemente:

    «Prezzo di copertina 2,5 dinar.»

    «Ha un altro prezzo?»

    «Sì. Per gli studenti ha un prezzo molto più basso. Mi abbonai a Time appena mi iscrissi all'università. L'anno scorso ho rinnovato l'abbonamento come insegnante e mi è costato un po' di più.»

    E lui commentò con un sorriso:

    «Il prossimo abbonamento, forse, le costerà ancora di più.»

    Capii al volo quello che intendesse dire e con un sorriso risposi al volo:

    «Me lo auguro direttore.»

    «Pratica qualche sport?»

    «Avevo praticato ginnastica artistica durante gli anni di liceo, poi arti marziali durante l'università. Attualmente vado in piscina, un paio di volte la settimana.»

    Avevo notato che mentre rispondevo alle sue domande, lui prendeva degli appunti sulla mia scheda.

    «Servizio militare?»

    «Ufficiale di riserva, genio militare. Congedato con il grado di tenente e con buona condotta. Settembre 1978.»

    «Dove?»

    «Biserta.»

    In quel momento il direttore alzò la testa e mi guardò con un sorriso e disse:

    «Anch'io ho fatto il militare come ufficiale di riserva, genio militare, ma a Sousse. Tanti anni fa.» facendo un segno con la mano per indicare molto tempo passato. Poi aggiunse:

    «Allora lei conosce le tecniche di rilevamento topografico?»

    «Sì, abbastanza bene.»

    A sentire la mia risposta, il direttore si chinò all'indietro sulla sua sedia e fece un segno di approvazione con la testa dicendo:

    «Molto interessante.»

    Mi sentii sollevato. Poi continuò con le domande:

    «Patente?»

    «B.»

    E mi ero subito alzato per prenderla dalla tasca di dietro dei pantaloni, ma lui intervenne:

    «No, non è necessario che me la mostri.»

    «Occupazione attuale?»

    «Insegnante di matematica.» e gli indicai il nome del liceo.

    In quel momento il direttore dondolò per un attimo la testa e disse:

    «Insegnante di matematica. Si vede che la scuola non attiri più nessuno oggi.»

    Il direttore si mise a leggere in silenzio la scheda apportando qualche correzione, poi mi guardò negli occhi e disse:

    «Ora io le leggo questa scheda e lei mi deve solo confermare o meno il suo contenuto.»

    «Va bene direttore.»

    Dopo aver letto molto velocemente la scheda, mi chiese:

    «Tutto corretto?»

    «Sì, tutto corretto.»

    «Questa scheda per noi rappresenta il suo curriculum, secondo le procedure del Centro. La darò alla segretaria per metterla in bella copia, poi lei la dovrà firmare nel caso in cui lavorerà con noi.»

    «Va bene.»

    A quel punto il direttore si alzò e mi disse:

    «Abbiamo finito con le domande. Ora passiamo alla prova scritta. Mi segua.»

    Ci dirigemmo verso un altro ufficio, poco distante dal suo, ma nello stesso piano. L'ufficio era piccolo ma luminoso, aveva un ampia finestra che si affacciava sulla via d'Inghilterra. Era molto pulito. Sembrava una camera di un ospedale. C'era solo una sedia ed una scrivania sulla quale era poggiato un libro chiuso, due fogli di carta bianca ed una penna, la classica BIC blu. C'era anche un posacenere bianco di ceramica, pulito e posizionato nell'angolo destro della scrivania per chi si trovasse seduto sulla sedia. Mi avvicinai alla scrivania e lessi il titolo del libro al contrario: Applied Geophysics (Geofisica Applicata). Il ritmo del mio cuore accelerò all'improvviso. Oddio! Ancora un altro esame. Ma non bastavano tutti quelli che avevo già fatto all'università? Così mi chiesi.

    In quel preciso momento, mi apparse come se il direttore mi avesse letto nel pensiero. In effetti, me si avvicinò e poggiò la sua mano sinistra sulla mia spalla destra e mi disse:

    «Io sono certo che lei conosca bene l'inglese, forse anche meglio di me, ma il protocollo prevede tassativamente che questa prova scritta sia fatta a tutti i concorrenti.»

    «Sì signor direttore, sono d'accordo con lei.»

    «Allora, lei ha 30 minuti per tradurre questa pagina del libro al francese. Tutto qui.»

    Mentre diceva queste ultime parole, il direttore sfogliava il libro. Sembrava che cercasse una pagina particolare. Poi disse:

    «Eccola. Questa è la pagina da tradurre.»

    Avevo subito annotato il suo numero su uno dei fogli bianchi sulla scrivania. Poi lo sentii aggiungere:

    «Tornerò esattamente dopo trenta minuti. Va bene?»

    «Va benissimo.»

    Il direttore chiamò l'usciere e gli ordinò di portarmi da bere, poi tornò nel suo ufficio. Mi sedetti con il libro aperto tra le mani e comincia a leggere velocemente la pagina da tradurre. Avevo i polsi poggiati sul bordo della scrivania in modo da avere la giusta inclinazione per la lettura. Ma non riuscii a leggere a causa di un leggero tremolio ai polsi che faceva sfarfallare le lettere. Ero troppo teso. Non mi era mai successa una cosa del genere prima di quel momento in un esame scritto, nemmeno in quelli più difficili e decisivi all'università. Così, poggiai il libro sulla scrivania e le mani sulle pagine perché il libro tendeva a chiudersi. Il testo era molto facile, assolutamente alla mia portata, ma io continuavo lo stesso a sentirmi agitato. E non capivo il perché.

    In quel momento arrivò l'usciere con il caffè su un piattino con tre zollette di zucchero, una bottiglia d'acqua minerale ed un bicchiere. Alla vista della tazzina di caffè, accesi la mia prima sigaretta della giornata. Avevo deciso di non fumare più la mattina come primo passo di smettere, ma l'atmosfera del momento non mi consentì di mantenere la promessa. L'usciere, con un finto sorriso stampato sulle labbra, mi disse:

    «Ecco il suo caffè e l'acqua. Poi se le serve qualcos'altro mi chiama.»

    «Grazie, molto gentile.»

    Mentre lui sistemava le bevande sulla scrivania, presi qualche spicciolo dalla tasca ed aspettai che finisse, poi glielo diedi:

    «Ecco, questo per lei.»

    «Grazie.»

    «Di nulla.»

    «Chiudo la porta?»

    «Sì, grazie.»

    Erano già passati cinque preziosi minuti ed io non avevo nemmeno toccato la penna. Poi, per quasi un minuto, tenni i gomiti puntati sulla scrivania con la faccia tra le mani e gli occhi chiusi cercando di concentrarmi. Subito dopo, partii speditamente. E dopo solo venti minuti, la mia battaglia di quella mattinata era già finita. Pensavo di averla vinta perché avevo tradotto tutta la pagina senza riscontrare la minima difficoltà e con il testo finale quasi senza cancellature. Subito dopo, aprì la porta e tornai a sedermi sulla sedia. Accesi la mia seconda sigaretta trasgredendo di nuovo il patto di non fumare di mattina mentre aspettavo il ritorno del direttore che fu puntualissimo:

    «Allora, ha finito?»

    «Sì, cinque minuti fa.»

    «Vediamo un po'. Mi passi il foglio per favore?»

    «Eccolo.» E feci un bel respiro.

    Il direttore fece un passo all'indietro e cominciò a leggerlo silenziosamente mentre io cercavo di carpire ogni segno della sua faccia. Leggeva sorridendo. Sembrava contento. Sorridevo pure io. Ad un certo punto, si fermò di leggere e mi guardò negli occhi chiedendomi di alzarmi e di avvicinarmi a lui. Poi mi disse con un sorriso ed un tono rassicurante:

    «Senta, lei è proprio la persona che cercavamo.»

    In quel momento non trovai nessuno modo per ringraziarlo, mi venne quasi spontaneo di abbracciarlo. Sentii all'istante che la mia vita era già cambiata e che non dovevo più tornare ad insegnare in quella scuola maledetta. Non mi sembrava vero che tutto potesse accadere dopo aver letto un brevissimo annuncio su un giornale. Poi mi vennero in mente le parole di Mounir del giorno precedente. Tutti questi fitti pensieri durarono solo pochissimi secondi. Ero molto emozionato, quasi incredulo. E quasi senza voce gli dissi:

    «Grazie signor direttore.»

    «Comunque, il posto è suo ma ad una sola condizione.» In quel momento mi sentii pronto ad accettare qualsiasi condizione.

    «Dica?»

    Dopo aver guardato il suo orologio, mi disse:

    «Ora sono quasi le undici, il Provveditorato è ancora aperto, lei deve andare subito a chiedere le dimissioni. Hanno i moduli già pronti. Deve solo specificare il motivo. Cioè, scrivere nella causale: Assunzione presso il Centro Geofisico Nazionale, indicando la data odierna. Poi di tutto il resto ci occuperemo noi.»

    Ero quasi incredulo, perciò gli chiesi:

    «Ma devo fare solo questo?»

    «Sì, solo questo per il momento.»

    «Allora ci vado subito.»

    «No, aspetti. Ora scendiamo un attimo giù dal capo del personale per sistemare alcune cose prima. Mi segua.»

    Scendemmo al primo piano, ma il capo del personale non c'era in ufficio. Il direttore chiamò un usciere che arrivò di corsa.

    «Dove il signor ...? Ma sta sempre in giro?»

    «La porta del suo ufficio è aperta, quindi dovrebbe essere da qualche parte nel Centro. Ora lo vado a cercare.»

    Dopo pochi minuti, il capo del personale arrivò. Il direttore non gli diede nemmeno il tempo di sedersi e gli ordinò:

    «Senti ..., fai subito un'assunzione provvisoria al signor Khaled per quel concorso di geofisico. Dovrà iniziare domani mattina.»

    Poi il direttore si rivolse a me dicendo:

    «Se riesce a fare quello che le ho chiesto presso il Provveditorato entro oggi, allora domani sarà il suo primo giorno di lavoro con noi. Non la possiamo assumere prima delle dimissioni dalla Pubblica Istruzione.»

    «Scusi direttore, ma lei ha parlato di assunzione provvisoria.»

    «Sì, così lo prevede il protocollo. Sono solo tre mesi di prova, poi lei sarà automaticamente assunto a tempo indeterminato nel caso in cui lei deciderà di continuare a lavorare con noi ed invecchiare nel Centro come me :-)»

    «Grazie direttore :-)»

    Mentre il direttore mi stava volgendo le spalle per tornare nel suo ufficio, gli chiesi:

    «Scusi direttore. Ma che lei sappia, il Provveditorato accetterà immediatamente le mie dimissioni senza fare storie?»

    E lui rispose rassicurandomi:

    «Non potrà opporsi, perché anche noi siamo un ente pubblico, ma siamo classificati ente strategico, quindi, abbiamo la precedenza di assumere tecnici.» mi ero risollevato a sentire quelle parole.

    Subito dopo, il capo del personale mi diede un foglio con una lista dei documenti da consegnargli entro un mese ed un paio di fogli prestampati da riempire. Dovevo anche fare un visita medica completa presso l'Ospedale Militare per il certificato di idoneità fisica. E prima di lasciarmi andare, mi diede l'orario di lavoro ed il codice di comportamento, un libricino di una ventina di pagine.

    Alle undici e trenta, lasciai il Centro Geofisico in fretta scendendo le scale due scalini alla volta. Stavo per cadere in un paio di occasioni. Ero troppo eccitato per tutta quella sfilza di fatti ai quali non mi ero minimamente preparato. Balzai su Gazzella, il mio motorino, e cercai di guidarla quella volta con maggiore consapevolezza del solito. Non sia mai che mi succeda qualcosa lungo quel tragitto. Così pensai mentre mi dirigevo verso il Provveditorato.

    Di solito, sulla strada, tranne in rarissime occasioni, non davo mai la precedenza a nessuno perché a Tunisi, come regola, nessuno rispettava il codice stradale. Passava prima il più forte, ma, in quei frangenti, io e Gazzella eravamo quasi imbattibili ovunque, soprattutto negli incroci senza semaforo. Quel giorno, invece, avevo guidato in modo più tranquillo per non rischiare niente. Così, oltre a guidare rilassato, ma

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