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Istanbul Capo Nord
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E-book400 pagine3 ore

Istanbul Capo Nord

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Info su questo ebook

Un diario di viaggio. Vivo, ironico a tratti, disperato quanto me,

ispirato da volti, immagini e voci. Annotato su di un taccuino, passo

dopo passo. Un foto racconto. Istintivo, in bianco e nero, autentico. Ho

vomitato le mie angosce, i miei pensieri, la mia rabbia, con parole

incise durante il tragitto, raccontato alla prima persona, attraverso i

miei occhi e le mie sensazioni, sulla linea d'oriente del vecchio

continente, la più misteriosa, da un estremo all'altro, da Istanbul a

Capo Nord. Un percorso via terra, per ritrovare me stesso, fuggendo

dalle follie di una carriera brillante, alla scoperta di una nuova

possibile filosofia di vita, che solo mettendomi sulla strada ho potuto

trovare.
LinguaItaliano
Data di uscita19 mar 2021
ISBN9791220328753
Istanbul Capo Nord

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    Anteprima del libro

    Istanbul Capo Nord - Nico Orbis

    633/1941.

    PREAMBOLO

    Meglio andarsene, forse.

    Magari fare un viaggio?

    Sparire?

    Guardo i libri che amo, riposti sugli scaffali. C’è anche un atlante, troppe volte solo sfogliato.

    Riempio un altro bicchiere fino all’orlo, col miglior gin che ho messo da parte. Ci butto dentro un cubetto di ghiaccio, facendo schizzare qualche goccia sul divano. Ora Greta si incazzerà.

    Mando giù tutto, pure il ghiaccio, che mi brucia la gola e mi dà la sensazione di dover vomitare.

    L’ho già fatto prima, non ha senso andare di nuovo al cesso.

    Sono un tizio che vive. Come tutti gli altri.

    Ho anche una buona carriera ed un bel suv nuovo fiammante.

    Ho una vita di merda. Come soltanto io posso sentire.

    Mi sono comprato quell’ultimo giocattolo scarabocchiando delle cifre su un assegno. Non ho bisogno di trattare troppo su un prezzo.

    Ora lo uso per fare il tragitto da casa a lavoro e viceversa. L’unica volta che l’ho preso per una gita è stato per andare al matrimonio del mio capo. Come per tutti gli altri colleghi, andava fatto. Per leccargli il culo, ovviamente, sperando di finire un giorno come lui, con un matrimonio farlocco assieme ad una bionda finta di vent’anni più giovane.

    So di avere sempre abbastanza soldi e cose da comprare, ma ormai di non avere più nulla. Perché quei quattrini, in realtà, io non li guadagno. Li pago. Con il mio tempo. L’unica vera moneta sovrana, che tutti hanno in tasca ma che nessuno ti può cambiare, quando ne sei a corto, nemmeno se metti sul tavolo la valuta più pregiata al mondo.

    Mi aveva detto una cosa giusta, ieri sera, la mia amica psicologa.

    Mesi fa era venuta in azienda per farci da coach in un corso di team building. Aveva parlato di equilibrio, consapevolezza di sé, rapporti umani, vita bilanciata. Una serie di cazzate.

    Anche ieri l’avevo posseduta, velocemente, sul pianerottolo del suo condominio.

    Poi avevo solo fumato sigarette, senza provare alcuna eco del piacere.

    Vedi che di questo passo tu vai in burnout, mi aveva detto.

    Ci si era messa anche Greta, un paio di settimane prima, con la sua proposta di sposarci. Non aveva preso la via diretta. Sa come trattare con me, che ragiono di solito per calcolo e non per emozioni. Aveva parlato alla terza persona, descrivendo l’esistenza idilliaca di una coppia immaginaria, ma intendeva noi.

    Tra un’ora tornerà a casa e mi guarderà di nuovo con gli stessi occhi, nell’attesa di conoscere la mia risposta.

    Stamattina, prima di uscire, mi ha fatto trovare sul tavolo l’Anna Karenina di Tolstoj, con un segnalibro d’argento alla pagina in cui un inventato ufficiale pietroburghese colloquia con il protagonista del romanzo:

    Ed ecco la mia opinione. Le donne sono il principale ostacolo all’attività di un uomo. È difficile amare una donna e combinare qualcosa. Per questo c’è un solo metodo comodo, che non t’impedisce di amare: il matrimonio.

    Sul margine mi ha scritto un messaggio.

    "Ti conosco. Non ti porrò mai limiti. Ma affrontali con me. Sceglimi, adesso".

    Sono un solitario.

    Anche se, in fondo, odio star da solo. In genere ho bisogno di parlare, di condividere il mio pensiero con qualcuno.

    Stavolta non ne ho trovato la forza.

    Neppure l’occasione.

    O, forse, il coraggio.

    Mi sono chiesto se ha un senso, la strada in cui mi trovo. Se magari non ce ne siano altre che valga la pena percorrere.

    Tante o poche volte, nella vita, un problema può risolversi con un’azione che non ci si aspettava di riuscire a compiere, andando fuori dai propri schemi. Dipende da numerosi fattori. Di certo l’incoscienza, l’audacia, ma anche l’amor proprio.

    Decido.

    Di andare via, là fuori.

    Di riscuotere il mio tempo.

    Prendo una cazzo di valigia. Quello che non mi serve lo lascio qui. Cioè tutto quanto.

    Mi tengo il telefono e qualche vestito per una stagione indefinita.

    Afferro un taccuino in bianco.

    Perché magari vorrò scrivere, di tanto in tanto, invece di parlare.

    Perché?

    Non lo so.

    Guardo di nuovo la libreria.

    Prendo dallo scaffale uno dei miei volumi preferiti, prima di andarmene. Sposto il segnalibro d’argento di Greta su un passaggio:

    "Uno si mette a scrivere perché…

    …perché è incazzato

    …perché odia la gente e vuole insultarla

    …perché non ha voce

    …perché pensa di avere qualcosa da dire

    …perché fa paura andare alla deriva senza far nulla

    …perché rimane impantanato tra un’intenzione e l’altra

    …perché c’era una volta l’amore ma ho dovuto ammazzarlo" *.

    C’era una volta l’amore ma ho dovuto ammazzarlo.

    Lo appoggio accanto al libro che mi aveva lasciato Greta.

    Capirà, forse.

    Lei non mi troverà qui.

    Io, sarò in viaggio.

    I

    TURCHIA

    Salgo su un taxi per l’aeroporto.

    Che volo ha, a quest’ora?.

    La tentazione di ricordare all’autista la nobile arte di farsi gli affari propri mi assale, ma riesco a dominarmi. Resto semplicemente in silenzio. Devo sembrargli un po’ fatto, allora s’azzittisce pure lui. È giovane, e forse aveva solo voglia di spezzare la noia del turno serale di un mercoledì qualunque chiacchierando, magari sentendo qualche storia interessante.

    Pur volendo non ne avrei, da raccontargliene.

    Da oggi però conto di costruirne almeno una, quella del viaggio che mi appresto a fare.

    Alla biglietteria compro il primo volo per Istanbul.

    È il punto di confine. L’Europa e l’Asia. La Tracia e l’Anatolia, per essere più romantico.

    Mi ha sempre affascinato, questo luogo, ma non ho mai avuto tempo per andarci, dovendolo passare a produrre soldi.

    Da là vorrei risalire, finché c’è terra sotto i piedi, fino a Capo Nord.

    L’avevo immaginato tante volte, questo viaggio. Attraversare a poco a poco il bordo che separa due mondi. Una linea composta da nazioni piccole e grandi, abitate da popolazioni diverse, da culture e da modi di vivere agli antipodi tra loro, eppure legate assieme come pezzi di un solo puzzle.

    Un tragitto simbolico, con l’idea di raggiungere una cima ideale, in capo al mondo, per dimostrare a me stesso di non essermi smarrito, di aver saputo ritrovare la strada.

    Avevo perfino disegnato una mappa, una volta. Poi era ripresa la videoconferenza del cazzo ed io mi ero perso quel foglio chissà dove.

    Non ho più una cartina né un’idea, oggi.

    Un biglietto di sola andata in mano e coraggio a sufficienza per quel primo folle passo da fare in avanti.

    Attendo l’alba, ciondolando tra i corridoi del terminal. Torna la luce del giorno. L’aereo si stacca da terra. Mi sembra così lento, a farlo. Devo essere io, con il peso della mia testa.

    Prendo il telefono e fisso la prima immagine che mi fa sentire un po’ più leggero.

    Atterro all’aeroporto di Sabiha Gokcen, frastornato e con pessimi pensieri nel cervello.

    Raggiungo in autobus piazza Taksim, centro nevralgico delle attività urbane e delle rivolte, quando ci sono. Cioè spesso.

    Mi sposto con la metropolitana e realizzo il mio primo obiettivo: salire in cima alla storica torre di Galata.

    Mi muovo lento nello spazio angusto del cornicione che permette l’affaccio, fermandomi ad osservare l’intreccio d’acqua e terra che compone il Corno d’oro.

    Eccolo, il confine tra i due mondi.

    Davanti a me, i due continenti si fronteggiano.

    Sotto, centinaia di antenne della tv via satellite sono arroccate sui tetti. Gli arredi da esterno di chi vuole mettere in mostra il proprio attico, tra le case consumate della città vecchia, abbarbicate l’una sull’altra.

    Le moschee, sopra le alture.

    Le correnti che drenano l’acqua del Mar Nero, giù verso il Mediterraneo.

    Mi rivolgo idealmente verso nord, pensando alla distanza da percorrere.

    Sono solo, al confine, ed all’inizio di un lungo viaggio.

    Respiro.

    Ascolto il rumore di una delle più vecchie città del mondo.

    Sono lontano abbastanza.

    E mi sento meglio.

    Scendo dalla torre di Galata e resto a ciondolare un po’ tra i vicoletti.

    Non avere niente da fare mi carica di strane sensazioni.

    L’agenda l’ho lasciata a casa e ho disattivato i promemoria dello smartphone.

    Fai, vai, chiama, appuntamento, rinvio, bozza, riunione, affitto, rata, richiama. Tutto nel cesso.

    Ho spento pure la rete del cellulare.

    Immagino quanti mi staranno cercando, in questo momento, perché gli è partito l’avviso: chiama a quello.

    Godo.

    Smetto di pensare. Guardo davanti a me.

    Mi sono lasciato la torre poco distante. Sono in una stradina che scende verso il porto.

    La torre chiude lo spazio di luce tra gli edifici.

    L’avevano tirata su i genovesi, nel medioevo. Per un sacco di tempo era la costruzione più alta di Istanbul, poi sono arrivati i grattacieli, ma qua non gli contendono la piazza.

    Prendo una guida da uno dei negozietti di souvenir assiepati agli angoli. Leggo che una volta la torre veniva usata per avvistare gli incendi.

    Rivolgo di nuovo la mente verso chi ha perso le mie tracce e col cazzo che può avvistare me.

    Liberazione.

    La prima bella parola che appunto nel mio taccuino bianco.

    Il mattino seguente prendo a camminare di buon passo verso il mare, tra i vicoli tortuosi e gli edifici che sputano muffa dalle pareti, impregnate di sale e di vecchiaia.

    Mi soffermo su un murales con un cuore disegnato su una porta di metallo, sbarrata, e l’invito: APRI IL TUO CUORE.

    Attivo la rete del telefono.

    Quattordici chiamate perse, e sei messaggi di Greta.

    Aveva finito di prepararmi la cena, quando ero già in aeroporto.

    Un paio di: ci sei?, e poi: sto buttando tutto. Fatti sentire per favore.

    Non sa dove sono.

    Le scrivo soltanto: sono partito, poi ricaccio il telefono in tasca.

    Mi specchio in quel cuore disegnato su una porta di metallo, chiusa e impenetrabile, e leggo di nuovo: APRI IL TUO CUORE.

    Sentivo che le cose non andavano, ormai da mesi, ed io non stavo bene con me stesso, figuriamoci con gli altri, tanto meno con lei.

    Eppure aveva provato di tutto, per rasserenarmi. Mi aveva anche chiarito che mi amava così, imbronciato, perché comunque ero so fucking special.

    Lontano, anche da Greta. Fa parte del mio piano strampalato.

    Così liquido la questione, con l’intenzione di non volerci più pensare, almeno per un po’.

    Riprendo a camminare, e gonfio i polmoni d’aria di confine.

    Fa un caldo boia, a metà giornata, e sudo. Sempre meglio di quel pesce, penso.

    Sul ponte di Galata, porta d’accesso al quartiere di Sultanahmet, cuore della città storica, da decine di canne da pesca pendono ami che affogano nell’acqua.

    Ci galleggia un po’ di tutto, in questo canale. Sacchi di plastica, pezzi di carta, una bottiglia di aranciata, un assorbente, una carcassa di pesce morto, meduse schifose che sfiorano residui più schifosi di loro.

    Eppure emergono pesciolini in quantità. Mi stupisce che non siano radioattivi. Nei secchi dove vengono stipati non sembrano fosforescenti. No, devono essere normali. Boh.

    C’è una coppia di turchi esperti che ne sta facendo incetta. Batte tutti gli altri concorrenti dieci a uno. Che ci mettono nelle esche? Caviale? Marijuana?

    Una bambina si incuriosisce e partecipa alla scena. Il visetto, incorniciato da una lunga treccia, gli conferisce un’immagine sacrale.

    Innocenza, ecco cosa trasmette.

    C’è quel pesce appena uscito dall’acqua putrida che sembra puntare un occhio disperato su di lei. In fondo è un innocente anche lui, ma la condanna è inappellabile.

    Vorrei augurare buon appetito ai pescatori, ma mi sta venendo da vomitare.

    Un nuovo giorno mi accoglie con il Lodos, il vento caldo che spira da sud-ovest.

    Arranco un po’ con il respiro e mando giù un sorso d’acqua, mentre cammino nella zona degli imbarchi dei traghetti, vicino al ponte di Galata.

    Ha un qualcosa di magnetico, questa parte della città. La sensazione del confine, la bellezza che mi circonda a giro d’orizzonte, l’umanità variegata e affaccendata nei mestieri più diversi.

    La gente si muove velocemente. Tutti sembrano in ritardo per qualcosa. Sono forse l’unico che avanza al ritmo di un bradipo.

    Lento ma non distratto.

    C’è un vecchio seduto su uno sgabello, in un angolo del marciapiede, che suona la chitarra e canta con quel che gli è rimasto di una voce stanca.

    Mi siedo per terra, affianco a lui.

    Non si gira a guardarmi prima di un paio di minuti. Deve averne già visti assai, di scimuniti. Forse pochi, però, con tutti i denti a posto, un bell’orologio al polso, le scarpe quasi nuove. Allora si ferma un po’ a fissarmi.

    Cerco di abbozzare una conversazione semplice.

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