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La memoria del bindolo
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E-book518 pagine6 ore

La memoria del bindolo

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Info su questo ebook

Ambientato in una cittadina pugliese, il romanzo narra la vicenda di Coletto Mastronardi, un contadino di grande intelligenza e generosità, che ha dovuto rinunciare a fare l'ingegnere per essere utilizzato sin da piccolo in campagna, come d'abitudine nelle famiglie contadine. Coletto riversa allora il proprio sogno sul nipotino Lero, altrettanto intelligente e pronto, cui lo lega un grandissimo affetto. Ma il caso (Coletto non crede al destino) non consente che il suo progetto si realizzi. Anzi, una serie di vicissitudini, compresa la guerra, stravolge l'esistenza dei due personaggi principali, ma anche delle altre figure che animano il romanzo in un grande affresco. Nello splendido paesaggio pugliese emergono i vizi e le virtù degli abitanti di un paese di provincia: figure, avvenimenti e riflessioni psicologiche tutte scolpite con l'accetta e rigorosamente funzionali alla storia narrata.
LinguaItaliano
Data di uscita21 dic 2018
ISBN9788829580972
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    Anteprima del libro

    La memoria del bindolo - VITTORIO LEO

    © 2018 Lupi Editore

    Via Roma 12, 67039 Sulmona (AQ) 

    Tutti i diritti riservati 

    www.lupieditore.it

    ISBN 978-88-99663-78-0

    Finito di stampare nel mese di ottobre 2018 

    presso Universal Book srl - Rende (CS)

    per conto della casa editrice Lupi Editore

    Romanzo

    LA MEMORIA DEL BINDOLO

    di 

    Vittorio Leo

    Achille Signorile

    CAPITOLO I

    IL BINDOLO

    1925. La catena del bindolo si spezzò ancora una volta il 21 giugno del 1925. Era il periodo in cui fresche e rigogliose le verdure coltivate con antica esperienza arricchivano le aiole rettangolari che costellavano l’orto e Nicola Mastronardi sapeva quanti danni avrebbe provocato quella rottura.

    Era anche il momento in cui il sole cominciava a picchiare con tenacia atroce e qualsiasi interruzione nell’erogazione dell’acqua lungo i canali che circondavano le aiole avrebbe bruciato decine di giovani piante.

    In Puglia, il sole comincia a incendiare, già di buon mattino, i muri bianchi delle case, le chiome degli alberi e la terra. Innanzi tutto la terra. E prende ad assetare gli uomini, le piante e gli animali. Allora bisogna rincorrere l’acqua che fugge verso le viscere del pianeta, catturarla, portarla in superficie. E bisogna farlo in fretta. Perchè quando scende dal cielo violenta e copiosa e scivola via sul suolo riarso impenetrabile, duro come un marmo, l’acqua trova venature impensate e torna precipitosamente laggiù, verso il centro della terra. Al pugliese tocca allora inseguirla per ghermirne anche le più piccole gocce. Quando la trova, in quel punto nasce un pozzo sorgivo.

    Oggi, nel pozzo sorgivo si immerge una pompa idraulica elettrica o a gasolio. Nel 1925, invece, veniva montato un bindolo.

    In Puglia il bindolo ha un nome che deriva certamente dalla storpiatura del termine l’ingegno sotto l’influenza fonetica della lingua francese: "l’angégne, con la e" finale muta.

    L’angégne è una struttura elementare, costituita da cinque grossi elementi: il pozzo sorgivo; una adiacente pista di terra battuta; una vasca; gli scheletri di due grandi tamburi di ferro; infine, una catena a larghe maglie snodate su cui sono fissati i bigonci.

    L’ampia imboccatura quadrata del pozzo sorgivo è sormontata da una sorta di casupola di tufi, alta più o meno un metro e mezzo all’interno della quale si accede generalmente da una sgangherata porticina di legno chiusa con un lucchetto. Aprendo la porticina ci si affaccia direttamente sul buio del pozzo e c’è veramente il rischio di cascarci. Due o tre travi di legno consentono tuttavia di attraversare il pozzo dalla porticina al lato opposto. Il tetto della casupola è costituito da lastre di pietra sorrette da travi di legno e fortemente saldate tra loro con malta. Sul tetto sono praticate due larghe feritoie rettangolari distanti circa due metri l’una dall’altra. Da una di esse, la catena con i bigonci vuoti scende nel pozzo, per risalirne dall’altra con i secchielli pieni, gocciolanti di acqua. Tra le due feritoie è sistemato un canale di pietra che ha il compito di raccogliere l’acqua rovesciata dai bigonci in risalita e convogliarla in una capiente vasca, abitata da rane, rospi e libellule: ‘u pall-mint, deformazione dialettale del palmento. Quando occorre, l’ortolano toglie un tappo alla base del pall-mint e l’acqua si riversa lungo canali prestabiliti per irrigare tutto l’orto.

    Il meccanismo dell’angégne è piuttosto semplice, anche se, a descriverlo, potrebbe sembrare complesso.

    Il pozzo sorgivo è sormontato dallo scheletro di un tamburo di ferro, grande quanto da una feritoia al’altra. Vi è appesa la lunga catena con i bigonci. Il tamburo gira su un asse, all’altro capo del quale è saldato un secondo identico tamburo, che è l’anima dell’angégne: lo fa ruotare un anello orizzontale, pure di ferro, fornito di pioli verticali che si incastrano nelle sue traversine. Fatto girare sul proprio asse da un asino o da una mula agganciata ad una stanga, i pioli trasformano il movimento orizzontale dell’anello in quello verticale del tamburo. Il movimento si trasmette all’altro tamburo che gira a sua volta e trascina giù nel pozzo la catena. I bigonci viaggiano verso il fondo del pozzo, vuoti a testa in giù, pescano nell’acqua, si riempiono e tornano verso l’alto diritti, gocciolanti, ricolmi. Giunti al culmine rovesciano l’acqua su un intrico di rami e foglie che riempie il vuoto del tamburo. Con questo sistema, l’acqua viene convogliata nel canale di pietra e, da questo, nel pall-mint. Ecco cos’è l’angégne: un groviglio di ruote in ferro, mastodontiche, scheletriche e trasparenti da sembrare fragili.

    La mula muove in tondo l’anello orizzontale girando instancabilmente su una pista circolare in terra battuta. Ha gli occhi bendati in modo che abbia l’impressione di percorrere un’interminabile strada diritta e non soffra di capogiri e malesseri.

    Stesa per terra, la catena di ferro fa pensare ad un mostruoso rettile. E anche il suo nome, nel dialetto pugliese, suona minaccioso: "u ssart", come un sibilo per aizzare un cane, di incerta etimologia, probabilmente araba.

    Nel 1925, dunque, purchè ci fosse sentore di acqua a una ragionevole profondità, il pugliese scavava un pozzo sorgivo e ne traeva faticosamente il liquido con una carrucola e un capace secchio di alluminio o di legno. Se aveva soldi abbastanza comprava i tamburi in ferro per far montare un’angégne. E intorno prendeva vita un orto.

    Tra luglio e agosto la lotta tra il sole e l’agricoltore pugliese diventava drammatica. C’era un momento in cui il sole riusciva a far evaporare quasi la stessa acqua che l’angégne tirava dal sottosuolo, mentre l’acqua percorreva i canali, stretti e poco profondi che intersecavano l’orto. Le piante ne soffrivano troppo. Le foglie delle piante di pomodoro, i peperoni e le melanzane, i sedani, i finocchi e le lattughe sembravano accasciarsi e le loro cime piegavano il capo come se le avesse colpite un’improvvisa irreparabile notizia. Quando l’orticultore si accorgeva che la situazione era giunta a tal punto, fermava tutto. Riportava nella stalla la mula, l’accarezzava a lungo fino a che non si fosse distesa per terra a schiacciare un pisolino, poi tornava nell’orto a spiare l’agonia delle piante. Era sufficiente che non morissero prima del tramonto. Nel frattempo che la mula schiacciava il pisolino, l’acqua cresceva nel pozzo, il sole scemava la sua voracità avviandosi verso la Murgia. Quando vi scompariva, il pugliese si distoglieva dalla sua attenta meditazione e, quasi timoroso che il sole potesse tornare indietro, avviava l’operazione resurrezione. Rimetteva fuori la mula, le faceva indossare il collare di cuoio imbottito di paglia e carezzandole il collo la riportava all’angégne. Legava i tiranti alla barra, avvolgeva il capo della bestia in un pezzo di stoffa grigia, diceva sottovoce AAAH!.

    Ed ecco, i bigonci cominciavano a muoversi, tintinnanti quelli vuoti, capovolti verso il fondo del pozzo; silenziosi e appena cigolanti quelli ricolmi di nuova fresca acqua, dal fondo del pozzo verso l’alto. La vasca cominciava a rimpinguarsi, il pugliese correva a togliere il tappo dalla base del pall-mint. L’acqua balzava rumorosa dal grosso pertugio e poi si avviava lenta verso l’orto, lungo il canale primario largo appena quaranta centimetri. Il contadino la precedeva e cominciava febbrilmente ad aprire i varchi, scostando con la zappa un settore di terra qua e là, secondo il suo piano di irrigazione, perché l’acqua entrasse nei canali secondari. Giungeva lenta, in silenzio, preziosa e il pugliese la fissava nell’oscurità, ridendo in cuor suo. In pochi attimi gli steli e le foglie sembravano rianimarsi. Il pugliese si piegava, le lambiva nel buio con la mano callosa ma ricettiva, sensibile come l’ala di una farfalla, poi rideva di un riso che la sapeva lunga, un riso che udiva lui solo:

    - Bevete - mormorava, guardando il sole che calava dietro la Murgia - bevete tranquille, l’abbiamo fregato anche oggi.

    CAPITOLO II

    L’ORTO

    1925. Di orti se ne vedevano pochi nella sconfinata campagna di Puglia, dove non si poteva abitare per la mancanza delle più elementari condizioni per un decente soggiorno. L’orto bisognava guardarlo da vicino e di continuo e non solo per i ladri che facevano facilmente razzia di verdura e frutti, ma anche per controllare che il sole non bruciasse tutto nella sua ferocia Per questo la maggior parte degli orti erano attigui alle abitazioni, di solito alla periferia del paese. Alcuni contadini erano stati addirittura più fortunati: l’incremento edilizio aveva provocato l’imbrigliamento dei loro orti tra le nuove case sorte nei rioni popolosi, dove c’era una clientela pronta che non faceva fatica alcuna ad affacciarsi sui confini della terra coltivata.

    Era il caso dell’orto di Nicola Mastronardi, a Fontesorgiva un centro che contava diecimila anime. Sotto il suolo di Fontesorgiva affioravano da misteriosi abissi acque purissime. Scavare pozzi, lì, era stato più facile che altrove e questi pozzi avevano un altro vantaggio negato alle terre dei paesi limitrofi: erano pressoché inesauribili.

    Fontesorgiva perciò aveva più angégne e più orti di qualsiasi altro paese della provincia. Aveva quindi più agricoltura, più commerci, più industria. Era questa una ragione più che sufficiente perchè gli agricoltori di Fontesorgiva si rifiutassero di prendere in considerazione l’opportunità di vendere come suoli edificatori le aree adibite a orti.

    Per non voler vendere, Nicola Mastronardi aveva ragioni in più degli altri. Il terreno del suo orto era ottimo, ubertoso. E poi era uno dei più vicini al centro del paese. Con una passeggiata di sei, sette minuti si era in piazza. Inoltre, sin dal principio, il lato più lungo dell’orto a forma di triangolo rettangolo, parallelo alla strada che da Fontesorgiva conduce alla Murgia, era contiguo ai cortili delle case che lungo quella strada erano sorte col tempo. Le massaie si sporgevano dal muricciolo in pietra di confine, chiamavano Mastronardi o uno dei suoi ragazzi e domandavano un chilo di peperoni, due chili di pomodori, la lattuga o la melanzana.

    Negli ultimi tempi, poi, anche gli altri due lati dell’orto andavano stipandosi di case. Erano case più alte, che avevano il fronte sulle strade del nuovo tracciato cittadino e volgevano il sedere all’orto come donnicciole indispettite. Anche queste case si andavano popolando rapidamente, cosicché tutto il vicinato comprava da Mastronardi.

    Mastronardi aveva però due altre sue ragioni personali per non cedere mai quell’orto: le due vecchie case poste al confine degli altri due angoli dell’orto. Una era la sua stessa abitazione. Carmen, sua moglie che gli aveva dato quattro figli, si affacciava sull’ora del mezzogiorno alla finestra della cucina e l’avvertiva che la verdura era cotta o che aveva buttato giù la pasta. Chi udiva per primo avvisava gli altri. Mastronardi e i figli che lavoravano con lui lasciavano il lavoro, si ritrovavano presso l’angégne, raggiungevano l’orlo del pall-mint salendone i tre scalini in pietra, si lavavano con un grosso pezzo di sapone che si passavano l’un l’altro, si asciugavano e si avviavano allegri verso casa, ove Lina, l’ultima dei figli, stava apparecchiando velocemente.

    L’altra vecchia casa, all’angolo più vicino al centro del paese, era abitata da due sorelle di Carmen, Nora e Lucia. Lucia era rimasta nubile. Nora aveva sposato Gennaro Di Cagno, impiegato all’esattoria comunale. Erano nati sei figli.

    Tutti questi figlioli, quattro Mastronardi e sei Di Cagno, avevano trascorso l’infanzia insieme, attraverso e lungo quell’orto. Nicola Mastronardi voleva bene a questa gente, a tutta questa gente. Gli sembrava impossibile che Carmen e le due sorelle potessero rimanere separate da un orto dato in mano ad altri per costruire case e altre case ancora. Non voleva addirittura neanche pensare che dieci cugini cresciuti in quell’orto insieme alle altre piante e rimasti legati da un affetto che mai aveva avuto nubi, potessero vedere occupato da case di estranei quell’angolo di aria pura riempito per anni dalle loro grida spensierate.

    Quest’orto non è solo mio - pensava Mastronarrdi - ma è di tutti questi ragazzi che lo hanno reso diverso dagli altri orti. L’attraversano in lungo e in largo, pestano le piante per rincorrersi, è vero, ma qui si incontrano per vivere volendosi bene. E questa ragione era per lui la più importante fra tutte, perchè lui era fatto così e nessuno degli speculatori sulle aree fabbricabili era riuscito a piegarlo.

    Nicola Mastronardi stava salendo dai quaranta anni verso i cinquanta. Nessuno lo chiamava Nicola. Da piccolo lo chiamavano Nicolino, ma già a quindici anni era alto come un pioppo. A diciannove andò sotto le armi e lo presero nei granatieri. Quando lo videro in paese, così alto, bello, con un paio di mustacchi nerissimi e folti, nella divisa di granatiere, con uno smisurato sciabolone al fianco, i gambali scuri e rilucenti che lo facevano somigliare a quegli eroi dipinti sui teloni dei cantastorie, nessuno, nè tra i familiari nè tra i conoscenti, lo chiamò più Nicolino. E tutti lo chiamarono Coletto. Coletto era stato per tutti, da allora e Coletto era nel 1925. E poiché la statura rimaneva sempre gigantesca, il nome Coletto cominciò finanche a non bastare più. Bisognava aggiungere qualcosa. Perciò i conoscenti lo chiamarono Mest-Coletto che vuol dire maestro Coletto o mastro Coletto. Gli amici più intimi lo chiamarono ‘mba-Coletto che significa compare Coletto. Naturalmente i nipoti lo chiamavano ancora zio Coletto e solo i parenti sempre e solamente Coletto.

    Le famiglie vecchie e nuove annidate nelle case intorno all’orto nutrivano per Coletto Mastronardi un rispetto che andava al di là della semplice smisurata statura. Coletto aveva altri fratelli e sorelle alti come lui, ma nei paraggi delle loro abitazioni nessuno si sognava di rispettarli per qualche particolare ragione. Per Coletto era diverso. Intanto egli aveva frequentato la scuola sino alla quinta elementare. Per i suoi tempi, il fatto che un contadino avesse fatto la quinta elementare lo poneva già al di sopra, in percentuale, ad almeno altri novantanove suoi simili. Ma era chiaro che Coletto era stato costretto solo dalle circostanze ad abbandonare la scuola. I contadini pugliesi estraevano dal grembo delle loro donne la manodopera per i campi da coltivare e appena i figli erano in condizione di adoperare la zappa di dimensioni ridotte, quella di due chili, venivano piantati sotto il sole a dissodare. Gli agricoltori non avevano tempo per mandare i figli a scuola sino a dieci anni. Che il padre, altro gigantesco Mastronardi, avesse permesso a Nicolino di giungere sino alla quinta stava a indicare che il ragazzo aveva dimostrato doti notevoli. In questi casi gli insegnanti erano i primi a suggerire ai genitori qualche anno in più di frequenza.

    - Lasciatelo ancora qualche anno a scuola - dicevano - non si sa mai. Dopo potreste fargli frequentare le tecniche.

    Generalmente a tali generosi tentativi i genitori rispondevano con una sconcertante domanda:

    - Caro signor maestro, e la terra chi la zappa?

    Nè si poteva dar loro torto. Tuttavia, Vitantonio Mastronardi era un uomo ragionevole e si era arreso per due anni alle insistenze del maestro. Così, invece che ritirarlo ad otto anni lo aveva fatto a dieci. E questo era un forte strappo alla regola.

    Ma nell’animo di Nicolino era rimasto un acuto rimpianto per gli studi abbandonati. Nei ritagli di tempo egli aveva letto tutto ciò che gli capitava tra le mani ed era stato tuttavia ben poco. Durante il servizio militare aveva cominciato a leggere il giornale e il giornale lo leggeva anche nel 1925. Ma dove eccelleva Coletto era nel campo dell’aritmetica. Senza carta e lapis egli calcolava, in pochi secondi e con la sola memoria, la cubatura di un tronco d’albero o del vano di un appartamento. Se gli chiedevi di moltiplicare 3876 per 954, lui alzava la fronte al cielo, chiudeva gli occhi e cominciava a tracciare invisibili segni con l’indice destro sul palmo calloso della mano sinistra, così, a mente. E ti dava il risultato, preciso, come se quelle cifre le vedesse su una lavagna immaginaria. A quanti lo conoscevano, il fatto sembrava miracoloso.

    Quando un vicino di casa ricorreva a lui per farsi spiegare la cartella delle tasse, egli si esprimeva in un suo italiano pulito mentre trattava i termini tecnici della questione. Ritornava al dialetto quando si chinava all’orecchio del ricorrente di turno, per bisbigliargli: - Senti, se non hai i soldi per pagare le tasse prima che ti saltino addosso, sono qua io. Eventualmente ritorna quando non c’è nessuno e vedrai che troveremo il rimedio.

    Spesso erano in molti a non avere quei soldi. Lui però accontentava tutti e in cambio non domandava interessi, nemmeno la firma su uno straccio di carta, ma solo il massimo riserbo (adoperava proprio questi termini) su queste sue buone azioni.

    Inutile dire che la cosa era nota a tutti e tutti avevano preso a considerarlo una specie di provvidenza mandata tra loro.

    Così come tutti sapevano che due cose soltanto lo facevano andare in bestia: la sporcizia e la caduta d’u ssart nel pozzo.

    L’angégne era fonte di innumerevoli preoccupazioni. Nel pozzo si poteva cadere e nel fondo buio e cupo c’era il demonio che ogni tanto si faceva vedere. Anche nella vasca poteva precipitare un bimbo e annegarvi. Poi c’era la mula che scalciava inopinatamente, quando tu, vedendola cieca sotto le bende, eri portato a prenderti qualche confidenza. Erano grattacapi continui. Per questo il pozzo e la vasca, che erano vicini, erano sopraelevati rispetto alla pista della mula. La scaletta di tre gradini per salire alla porta del pozzo era riservata solo ai grandi. I piccoli erano tenuti continuamente d’occhio. E poichè le precauzioni non sono mai troppe, tutt’intorno alla casupola era sistemato un muretto di tufi su cui si lasciavano crescere fitti reticoli di rose rampicanti o siepi di ortiche.

    Ma il vero grosso terribile pericolo era costituito dalla caduta d’u ssart nel pozzo. Pericolo imponderabile. Pericolo che poteva provocare calamità irreparabili, stragi di vite umane, se non si fosse osservata ogni possibile misura di sicurezza. La rottura d’u ssart non poteva evitarla nessuno. Poteva non verificarsi mai o a intervalli di due tre anni, o un anno dopo l’altro, o a distanza di un mese o di un giorno. Nessuno poteva saperlo e prevederlo, per quanta cura si avesse della pesante collana di ferro.

    In questi casi, l’ipotesi più augurabile era che ‘u ssart si rompesse nel punto più alto del suo percorso, in coincidenza col punto più alto del tamburo cui era agganciato. Solo allora i suoi due spezzoni precipitavano contemporaneamente dritti nel pozzo attraverso le rispettive bocche, per ammucchiarsi poi sul fondo delle acque. Ma se la rottura di una maglia si fosse prodotta in un punto della collana. vicino al livello delle acque e dalla parte dei bigonci vuoti le conseguenze si facevano incalcolabili. Il troncone fratturato non poteva rimanere appeso alla ruota del pozzo perchè, attratto dal peso della parte opposta o dei bigonci pieni, risaliva come una folgore puntando verso l’alto, dopo aver attraversato con un fragore da cataclisma la bocca del pozzo. Ora somigliava a una gigantesca frusta o a un mostruoso braccio lungo dieci, quindici metri. Fendeva 1’aria sibilando e, svincolandosi dal collo della ruota, si abbatteva per tutta la sua lunghezza sul terreno circostante. Nè si arrestava ancora. Sempre attratto dal suo peso, aveva come un improvviso ripensamento e scompariva di nuovo nel pozzo dalla bocca opposta. Tutto nel tempo di un lampo. Diecine di bigonci si fracassavano e i legni e i cerchi volavano come fuscelli. Così sarebbe stato fracassato un bambino che si fosse trovato a tiro dell’allucinante rettile di ferro. Perfino un adulto si sarebbe visto ghermire, impotente, e sarebbe scomparso nel pozzo tra le mortali spire d’ u ssart.

    E queste tragedie, in Puglia, erano relativamente frequenti.

    CAPITOLO III

    ‘U SSART

    1925. U ssart dell’angégne di Coletto Mastronardi, dunque, si spezzò il 21 giugno del 1925. Non si spezzava da tre anni. Erano le quattro del pomeriggio.

    Da tre ore Concetta, la mula, aveva ripreso a. camminare.

    Il sole occhieggiava ancora alto nel cielo lattiginoso perlustrando le terre in cerca di acqua da trasformare in vapore. Lo schianto d’u ssart fu udito come una cannonata seguita dagli echi e dai rimbombi che dagli abissi del pozzo si propagarono in un baleno.

    Cento donne, nelle case vicine, capirono e si segnarono. La mula abituata a tirare sotto sforzo, si sentì improvvisamente leggera e corse a velocità folle per qualche attimo. Il macchinario liberato da ‘u ssart girava come se i due giganteschi tamburi fossero di vetro. Poi Concetta si fermò e anche il macchinario si fermò.

    Seguì un agghiacciante silenzio. Da un punto dell’orto distante un centinaio di metri dall’angégne, il silenzio fu lacerato da una bestemmia. Così esplose l’ira di Coletto Mastronardi. Scaraventò lontano la zappa con cui stava dissodando le zolle rinsecchite intorno alle piante dei peperoni e si avviò. La sua bestemmia si. moltiplicò. Le sacramentazioni diventarono come un discorso lento ma chiaramente marcato. Ogni tanto si fermava e puntava lo sguardo al sole, come accusandolo, il sole, il suo vecchio indomabile nemico. Dalla solita finestra si affacciò Carmen. Con uno sguardo rapido scrutò tutta l’estensione dell’orto; vide il marito e i due ragazzi in punti diversi.

    - È successo niente? - domandò. Ma Coletto badava a marciare verso l’angégne e a bestemmiare terribilmente.

    - Cristo mio! perdonalo tu – si disse Carmen e si allontanò dalla finestra. Dopo un attimo era già uscita sulla strada e si avviava verso l’angégne. Era obesa, eppure camminava alla svelta. Quasi nello stesso istante, dall’altra vecchia casa all’angolo opposto dell’orto, uscirono due donne, Nora e Lucia, le sorelle di Carmen.

    Si avviarono frettolosamente sullo stretto viottolo che congiungeva quell’angolo all’angégne, e lo percorsero in fila indiana.

    Tutti sapevano cosa dovevano fare. Dalle minuscole finestre posteriori dei fabbricati sorti di recente intorno all’orto, si affacciarono donne e uomini e vedendo le tre sorelle, una da una parte e due dall’altra, muovere verso l’angégne scesero a loro volta e si incamminarono verso l’orto di mest-Coletto. Tutti si muovevano sapendo ciò che si doveva fare.

    Carmen Nora e Lucia giunsero quasi contemporaneamente all’angégne. Sedettero senza parlare su uno dei tronchi di mandorlo stesi lungo il basso edificio grezzo di tre vani adibiti a ripostiglio, pagliaio e stalla di emergenza che costeggiava il cateto minore dell’orto. La mano destra di ciascuna donna era scomparsa nella larga tasca del grembiule e rimaneva lì, muovendosi impercettibilmente. Sentivano Coletto, nel ripostiglio, che radunava le lunghe funi e l’arpione e continuava a bestemmiare senza sosta.

    Carmen Nora e Lucia avevano cominciato a recitare il Rosario a bassissima voce. Tenevano sempre la mano destra nella tasca del grembiule, muovendo i grani della corona. Pulite e chiare quelle di Nora, dolci quelle di Lucia, sommarie quelle di Carmen che non era mai stata a scuola, le Ave Maria salivano al cielo frammiste alle raffinate bestemmie di Coletto. Le sorelle ritenevano nella loro genuina semplicità che le bestemmie rimanessero indietro nella corsa verso il cielo e, precedute dalle loro preghiere, potessero non giungere all’orecchio di Dio. Eppure, nascondevano le coroncine. Se in quel momento avesse visto quegli arnesi, Coletto avrebbe centuplicato la sua ira.

    Intanto, sullo spiazzo compreso tra l’edifico, il pall-mint e la pista dell’angégne si erano radunati uomini e donne del vicinato. Erano arrivati, avevano salutato con rispetto le tre sorelle e si erano fermati in attesa. Rimanevano in silenzio e immobili sotto il sole cocente, come la mula, come le ruote dell’angégne.

    Stefano e Maurizio, due dei tre maschi di Coletto, erano giunti essi pure da punti diversi dell’orto e si erano uniti al padre nel ripostiglio per preparare il materiale. Uscirono infatti dall’antro reggendo rotoli di grosse e lunghe funi. Coletto teneva l’arpione legato ad un cavo di fili d’acciaio intrecciati. La prima operazione toccava proprio a lui. Era rischiosa. Stefano aveva sedici anni, Maurizio quattordici. Ogni rischio doveva correrlo lui, Coletto. Salì la scaletta di pietra senza guardare in faccia nessuno e raggiunto il pozzo si affacciò oltre la porticina della casupola. Guardò verso il fondo scuro nella speranza che qualche maglia d’u ssart affiorasse dalle acque. Ma non vide nulla e commentò la cosa con una bestemmia comprendente i nomi di diversi santi e di pezzi più grossi del Cielo. Poi salì sul tetto della casupola, legò la cima del cavo d’acciaio ad una parte del grande tamburo e calò giù l’arpione attraverso una delle bocche, sinché lo vide scomparire sotto il livello dell’acqua.

    Ogni minimo rumore saliva incupito dalle ampie pareti del pozzo.

    Coletto rientrò nel pozzo e si incamminò come un equilibrista sulle travi che lo attraversavano da parte a parte. Giunto all’altezza dell’imboccatura da cui penzolava il cavo con l’arpione, lo afferrò, lo tirò e lo guidò nell’acqua. Poi cominciò a sondare dirigendo l’arpione di qua e di là nell’intento di agganciare una delle maglie d’u ssart aggrovigliato sul fondo. Ne doveva agganciare una sola, mai due, specialmente se appartenenti a settori d’u ssart molto distanti tra loro. Il meglio sarebbe stato che avesse agganciato una maglia più vicina possibile ai punti di rottura, il che avrebbe facilitato l’operazione di recupero. Un’eventualità remota.

    Coletto sondò per dieci minuti circa, manovrando paziente il cavo d’acciaio e tirando di tanto in tanto per sentire se aveva impigliato una maglia. Ora non bestemmiava più, perché era troppo intento a quella operazione. Ad un tratto il cavo resistette come se una mano indispettita avesse afferrato l’arpione.

    - Figlia di puttana fetente porca, ti tengo! - gridò Coletto.

    Fu come un segnale. Gli uomini e le donne radunati sullo spiazzo si mossero velocemente, attraversarono la pista e andarono a sistemarsi in fila indiana dietro la casupola, come soldati che attendessero la distribuzione del rancio. Stefano e Maurizio salirono invece sul tetto con le funi. Legarono la cima di quella più grossa alla cima del cavo d’acciaio, la fecero passare sulle traversine della ruota, continuarono a srotolarla e quindi la gettarono in basso al di là del terrapieno ai primi uomini della fila indiana. Questi l’afferrarono e, continuando a srotolarla, la passarono indietro agli altri. Ciascuno, uomo o donna, la stringeva con le due mani e rimaneva così come in attesa di una gara di tiro alla fune. Stefano restò vicino al pozzo, Maurizio scese e si recò alla mula. Fece invertire la posizione all’animale in modo da far percorrere allo stesso la pista nel verso contrario e far girare in senso antiorario la ruota del pozzo.

    Coletto uscì, distribuì un’occhiata scrutatrice agli uomini in fila indiana, a Stefano vicino al pozzo, a Maurizio impietrito presso la mula, poi riprendendo a bestemmiare sottovoce si avviò, discese la scaletta, si accorse finalmente delle tre sorelle.

    - Buon giorno Nora, buon giorno Lucia - mormorò. E le donne, per non interrompere la preghiera, chinarono il capo, tutte tre.

    Ora Carmen cominciò a seguire tutti i movimenti di Coletto senza lasciarlo un attimo. Coletto percorse per venti metri lo stretto viottolo dal quale erano arrivate Nora e Lucia, e si andò a piazzare al di là della pista in un punto distante trenta metri dalla fila indiana di uomini e donne in attesa.

    A capo scoperto, sotto il sole che bruciava beffardo, con la camicia che spiccava bianchissima sulla verde distesa, Coletto, alto come una sequoia, gridò:

    - Pronti?

    Ventitré, ventiquattro persone lo fissarono senza fiatare.

    Le sorelle poterono ora recitare a voce appena più alta le loro preghiere. La loro ansia era cresciuta a dismisura.

    Il sole occhieggiava implacabile, allungando con esasperante lentezza l’ombra di Coletto Mastronardi sul terreno.

    La grossa fune che correva dalla bocca del pozzo alla fila indiana passando sulla ruota a tamburo era ora tesissima.

    - Aooooh! F-rza! - Questo fu l’ordine. Secco. La o della parola forza era saltata e l’aria era stata come tagliata da una sferza.

    La fila indiana ondeggiò e tutti parvero per un attimo seduti su sgabelli invisibili. Poi con perfetto sincronismo passarono indietro il piede sinistro e attesero il secondo ordine. Maurizio aveva fatto muovere un passo avanti alla mula. Gli ingranaggi centrali e la ruota del pozzo avevano girato nel verso inconsueto aiutando il cavo d’acciaio a percorrere quei cinque centimetri che il pesantissimo ssart dal fondo del pozzo aveva ceduto allo sforzo di tante persone.

    - Aooooh! F-rza!

    La fila indiana ondeggiò ancora. Ora si trattava di gridare quell’ordine venti trenta cinquanta volte. Tutto diventava automatico, solo che la fila indiana non avesse ceduto. Perché ‘u ssart, a mano a mano che affiorava dall’acqua, pesava ogni minuto di più nella sua lenta salita verso la luce.

    Una folla di curiosi, oltre il confine dell’orto si era assiepata tra un fabbricato e l’altro di quelli recenti, proprio dalla parte ove operavano gli uomini e le donne in fila indiana. Assistevano muti a quello spettacolo che non era consueto e tuttavia i loro occhi si affissavano più che altro alla straordinaria figura di Mastro Coletto Mastronardi. E più di tutti lo fissava Don Antonio, il prete che abitava una di quelle case, preoccupato di questo individuo dalla lingua infernale e, ciononostante, benvoluto dal gregge.

    Mastronardi ora scandiva il suo ordine secco con ritmo costante. Era sufficiente che seguisse i movimenti dei piedi degli uomini e delle donne che tiravano la fune grondando sudore. Ed era proprio a guardare i piedi di quella gente che Coletto centuplicava la sua ira. In quella zona dell’orto che rimaneva meno esposta al sole, egli gettava le sementi degli ortaggi. A migliaia in una ressa febbrile le delicate piantine spuntavano dalla terra in attesa di diventare abbastanza resistenti per essere trapiantate prima di farsi distruggere da una pur fuggevole guardataccia del sole. Ma quando ‘u ssart si spezzava, almeno venti uomini dovevano muoversi in quella zona destinata alle sementi.

    Quaranta piedi, quaranta scarpe chiodate calpestavano migliaia di tenere piantine e provocavano uno sfacelo che solo Mastronardi poteva calcolare velocemente in cifre, cifre alte. Eppure quelle quaranta scarpe chiodate dovevano spostarsi, puntellarsi contro la terra quasi sempre umida in quel punto, perchè il rettile doveva essere tratto dal fondo del pozzo. E Coletto continuava a scandire quell’ordine secco: Aooooh! F-rza!, sentendosi impigliato in qualcosa di fatale. Se quaranta scarpe non avessero puntato contro il suolo per tirare ‘u ssart, quelle migliaia di piantine che ora venivano devastate e distrutte da venti uomini, non sarebbero sfuggite comunque al loro destino. Senza ‘u ssart l’acqua non sarebbe salita dal pozzo e le migliaia di sottili, diafane foglie verdi sarebbero state distrutte dal sole. Sempre e comunque e ovunque c’entrava il sole. E quindi quell’ordine doveva scandirlo e le sementi dovevano essere distrutte e ‘u ssart doveva tornare alla superficie del pozzo. Coletto alto come una sequoia in quell’orto in cui, salvo ai bordi, non aveva fatto crescere un albero, sembrava un gigante prigioniero in un deserto. Nessuno poteva evitare che ogni tanto ‘u ssart si spezzasse. Nessuno poteva evitare che quaranta scarpe chiodate distruggessero migliaia di piantine. Nessuno poteva evitare che il sole si divertisse con tutte queste cose di Coletto Mastronardi e con le cose di tutti i Coletti disseminati nella Puglia, sugli orti e nelle campagne riarse. Ma Coletto Mastronardi aveva questo di diverso: che lui intendeva sfidare questa stretta fatale. E ne approfittò quando volle dare qualche attimo di pausa allo sforzo che quei volenterosi stavano compiendo. Non che potessero riposare, perchè dovevano comunque mantenere teso il lungo cavo. Tuttavia serviva a qualcosa. Mest Coletto girò le pupille in direzione del sole e fissò l’astro. Anche se le folte sopracciglia proteggevano i suoi occhi, guardare il sole era quasi impossibile. Ma Coletto lo guardò lo stesso. Poi, con un crescendo impressionante intonò una serqua di tremende bestemmie. Le pagine dei calendari appesi alle vecchie case e in quelle recenti, nei dintorni, dovettero impallidire sussultando. Carmen, Nora e Lucia lo raccomandarono a Dio con voce più alta. Le donne frammiste agli uomini nella fila indiana reagirono in modo vario. Alcune si segnarono, altre dissero sottovoce Gesù, Giuseppe e Maria!; altre infine, sinceramente accorate, azzardarono un’esortazione:

    - Mest Coletto! non bestemmiate. Lasciate stare! Non bestemmiate! È peccato..

    Coletto distolse gli occhi dal sole e li indirizzò alle donne. Non le vedeva. Al posto delle donne e degli uomini c’era un grande disco nero, rosso, verde, azzurro. Era l’effetto del sole. Ma lui scagliò loro contro, come sassi, queste parole:

    - Ma se il Padreterno invece di richiamare in cielo dopo quaranta giorni Gesù Risorto e Maria Vergine, li avesse messi in un orto per qualche mese, certamente il Redentore e Maria Santissima gli avrebbero riferito cosa succede in un orto e lui si sarebbe fatto in quattro per mandare loro uno ssart che nessuna carogna al mondo anche volendo avrebbe potuto spezzare. Ma di noi il Padreterno se ne strafotte. Ed io gli dovrei dire grazie?

    Fu. un discorso lungo che crepitò come una mitragliatrice ma la sua logica fece presa sulla fila indiana che in fondo era lì tesa in uno sforzo spasmodico per colpa d’u ssart. Nessuno fiatò. Il disco nero si fece lentamente arancione e si dissolse scoprendo di nuovo la fila indiana agli occhi di Coletto.

    - Andiamo avanti, va! - gridò e ricominciò a scandire - Aooooh! f-rza!.

    Il serpente di ferro risaliva lentamente verso la bocca del pozzo. La fila indiana,

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