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Il vortice dei dannati
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E-book148 pagine1 ora

Il vortice dei dannati

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Info su questo ebook

Pietro Bracaletti è un marinaio esperto, baciato dalle ninfe del mare. Non c’è peschereccio su cui si imbarchi che non rientri in porto carico di pescato.
Una simile fama genera invidia e attira l’attenzione dell’ombra.
Costretto all’esilio dalla sua amata San Benedetto del Tronto, Pietro vaga per tutta l’Italia, deciso a lasciarsi alle spalle i fantasmi del suo oscuro passato. Ma le anime erranti in cerca di vendetta non gli danno tregua: soltanto un Tagliatore, in fondo, può aver ragione della potenza dello Scijò.
 
LinguaItaliano
Data di uscita15 mag 2021
ISBN9788831910378
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    Anteprima del libro

    Il vortice dei dannati - Franco Giacoia

    padre.

    Prologo

    San Benedetto del Tronto, dicembre 2019

    Giovanni Balestra si presentò al Circolo dei Sambenedettesi alle diciassette in punto, come ogni settimana. Da buon abitudinario, non avrebbe mai preso in considerazione un giorno diverso per l’appuntamento culturale, così, se gli capitava di avere un impegno il mercoledì, preferiva posticipare direttamente al successivo, anziché definire un giorno diverso.

    L’incontro con il professore, accreditato come la più autorevole fonte di storia locale, era un momento molto atteso da quanti avevano a cuore la preservazione delle tradizioni e del dialetto sambenedettese; difatti il suo ingresso venne accolto da applausi e ampi sorrisi, ai quali rispose con garbati cenni del capo.

    Salutò con una strizzatina di occhi il fedele gruppetto di pescatori in pensione, vecchietti dalla pelle rinsecchita che pareva appiccicata al teschio con un velo di colla, dal fisico dimesso come i pescherecci su cui avevano navigato un tempo, ma dallo spirito robusto come il legno stagionato. Settantenni, qualcuno forse in età ancor più avanzata, senza troppa fretta di rincasare, che traevano diletto dalle sue storie, poiché li aiutavano a rivangare nel passato, a ricordare con nostalgia quand’erano giovani e forti uomini di mare. Rughe marcate raccontavano della durezza e delle privazioni a cui erano andati incontro per sfamare i propri congiunti, delle interminabili settimane trascorse in mare, lontani dagli affetti familiari, a sfidare il freddo e gli elementi per tirare avanti.

    Tutti e sei lo fissavano con occhi colmi di aspettativa, ansiosi di sentirlo tener comizio, che era in pratica il motivo per il quale non saltavano mai una sessione.

    Di ciascuno, o quasi, il professore conosceva a menadito tanto il nome quanto l’appellativo, ognuno appropriatissimo: Serafino Ghiottone, Mario Truffaldino, Rinaldo detto Rosicachiodi per la nota taccagneria, Romolo Sparaballe e Federico Credulone. Del sesto non era certo, ma gli sembrava si chiamasse Andrea. O forse Nicola?

    «Che ce raccunt massera, Giova’?» fece una voce crepitante come lo scoppiettio di una scarica di miccette.

    Il professore rivolse a Serafino un sorriso sornione. «Che vi racconto stasera?» ripeté.

    Con studiata lentezza si tolse cappello e impermeabile, aprì la ventiquattrore in pelle e ne tirò fuori un libriccino dalla copertina nera, privo di titolo, che poggiò sulla cattedra. Lo accarezzò quasi con riverenza, quindi inforcò gli occhiali e sfogliò alcune pagine, lisciandole col dorso della mano.

    «Stasera vi narrerò una storia dura come la scorza di ciascuno di voi, vecchi lupi di mare. La storia di un uomo e del suo orribile peccato che scatenò la vendetta dell’Adriatico». L’enfatico preambolo suscitò un fremito di fervida aspettativa, il pubblico si fece più attento. «La leggenda dello Scijò» concluse dopo una pausa a effetto.

    I sorrisi sdentati sparirono dalle facce degli ex pescatori, come orme sul bagnasciuga spazzate via dall’alta marea. Tutti e sei lo fissarono lividi in volto, incapaci persino di fiatare. Mario e Rinaldo arrivarono addirittura a segnarsi con gesti scaramantici.

    Quell’ultima parola sembrava aver aspirato tutto l’entusiasmo che appena un istante prima permeava l’intera sala.

    «Che c’è adesso?» domandò Giovanni.

    Fu Mario a rispondere: «Noi non lo diciamo mai quel nome».

    «Porta scarogna» confermò Federico, il cui pallore cadaverico ricordava una statua di cera.

    «Fatelo parlare, Santiddio» li rimbrottò un tale dal fondo sala.

    Il reclamo servì solo a inasprire gli animi dei vecchi marinai.

    «Tu sei giovane, non ti puoi ricorda’» scattò Rinaldo voltandosi a inchiodargli occhi feroci addosso. «Noi però c’abbiamo la memoria bona, per fortuna».

    «Lascia perdere. Basta che gli guardi le mani per capire che non è mai stato a mare. Che ne po’ sape’?» rincarò Mario.

    Il tale che era intervenuto abbassò lo sguardo e tacque, ma non la distinta signora che gli sedeva accanto. «Siamo venuti a sentire il professor Balestra, non delle suocere come voi» commentò in tono acido.

    Fu mandata direttamente a quel paese dall’inequivocabile gesto di Mario.

    «Non lo bisogna infastidire, il mare» ammonì Romolo.

    «Nessuno se ne può rendere conto, se in mare non c’è stato mai».

    «Esattamente che c’è da sapere?» fece Giovanni, spazientito dagli inopportuni interventi di Serafino e compagni.

    Il vecchio marinaio puntò un dito in alto, scuotendolo a mo’ di avvertimento. «Non si può parla’ di certe cose manco per scherzo. Come ha detto Federico, porta male».

    Giovanni aveva messo in conto la reazione che l’argomento avrebbe suscitato tra la gente di mare, depositaria di un’atavica saggezza a cui faceva da contraltare una feroce superstizione; seppellì un’espressione divertita sotto una coltre di professionale compostezza.

    «Lu Scijò». Quando pronunciò di nuovo quel nome, i marinai fecero gli scongiuri. «Simboleggia la furia imprevedibile del mare Adriatico. Una potenza superiore che sopprime la debolezza umana, dimostrando l’inutilità dei suoi mezzi di fronte alla forza soverchiante della natura. L’ancestrale timore dell’uomo s’incarna nella mistificazione di un comune fenomeno atmosferico, ed ecco che una normalissima tromba marina si trasforma in una visione infernale che attinge a storie di un mare antico, popolato da creature mostruose».

    «Professo’, tu dici sempre di conoscere la storia e la cultura di San Benedetto e poi non credi a ‘ste cose?»

    Giovanni reagì con un sorriso accondiscendente. «Scusami, Serafino, ma da accademico mi attengo a fatti documentati, non a credenze marinare che, per quanto intriganti da un mero punto di vista folcloristico, non hanno alcun valore storico. È come per la Barca di Caronte, credenza secondo la quale il due di novembre nessuna imbarcazione esce in mare né rete viene gettata per paura di ripescare ossa e teschi di naufraghi».

    «Il marinaio è un tutt’uno col mare, pure dopo la morte» recitò solenne Federico.

    Il restante pubblico prese a rumoreggiare, infastidito dalle reiterate interruzioni.

    «Allora possiamo anche dichiarare concluso l’incontro di questa settimana» disse Giovanni con un sospiro rassegnato. Ripose il libro nella cartella. «L’avevo scelta perché mi sembrava una storia ricca di spunti di dibattito, perciò non avevo preparato altri argomenti. Pazienza, vorrà dire che sarà per la prossima volta».

    Si levò un mormorio di delusione. Giovanni finse di riordinare le proprie cose per prendere tempo e valutare così le reazioni dei vecchi pescatori: Serafino continuava a grattarsi la pelata guardandosi attorno, visibilmente combattuto; Mario, con la testa piegata sul petto, dava tutta l’idea di trovarsi spaccato a metà tra la tentazione di ascoltare la storia e il timore di infrangere un tabù; Rinaldo e Federico muovevano appena le labbra, come raccolti in preghiera; l’altro, del cui nome non era mai sicuro, faceva di tutto per sottrarsi agli sguardi per paura di dover esprimere opinioni a riguardo.

    Preso il coraggio in mano, Romolo parlò infine a nome di tutti: «Dai, professo’, racconta».

    Giovanni li guardò uno per uno, in attesa che esprimessero a turno il proprio assenso. Poiché nessuno ebbe da obiettare, tirò di nuovo fuori il libriccino e si schiarì la voce, dopo di che iniziò a leggere.

    Capitolo 1

    San Benedetto del Tronto, ottobre 1937

    Le paranze fendevano le onde dell’Adriatico simili a gabbiani. I pescatori prepararono la rete per l’ultima calata prima del rientro in porto; dopo due settimane di pesca intensa, la prospettiva di tornare dalle proprie famiglie infuse vigore nelle membra stanche. Con il morale a mille s’incitavano a vicenda nel tirare le cime, le schiene curve, incuranti dell’infrangersi delle onde sullo scafo che li sferzava di schizzi schiumosi.

    Anche l’umore di parò Zeffirì era ottimo, ma per altri motivi. La sua mente era già proiettata sui guadagni che la battuta di pesca avrebbe fatto piovere nelle sue tasche, senza contare la concreta possibilità di aggiudicarsi lu Rolle per la seconda volta consecutiva, quell’anno: il privilegio di issare lo stendardo nel punto più alto dell’albero per la barca che aveva pescato più delle altre, un’onorificenza contesa dall’intera flotta peschereccia sambenedettese.

    «Dai, scansafatiche» esclamò Pietro.

    «Sei tu che tieni le palle mosce, coglione» replicò Giuseppe.

    I due ingaggiarono una sfida d’imprecazioni così sboccate da far arrossire Belzebù in persona. Quando ci si mettevano, i marinai sambenedettesi erano autentici maestri del turpiloquio, superati in fantasia solo da canapini e funai.

    «Fatela finita e tirate!» li apostrofò una voce arrochita dalla salsedine e dal consumo di tabacco. L’intervento di Zeffirì pose fine alla questione, anche se Pietro ciancicò qualcosa che il capo-pesca non udì, ma che suscitò lo sghignazzo dei paranzari più vicini.

    Giuseppe, immusonito, scoccò un’occhiata incendiaria al rivale, il quale ne sostenne il cipiglio senza mostrar cedimento alcuno.

    I due non perdevano occasione di sfottersi tra l’ilarità generale, anche se a volte finivano col degenerare di brutto, e allora i compagni erano costretti a intervenire, onde evitare la zuffa. Nessuno conosceva le ragioni di una rivalità così accesa, anche se girava voce che ci fosse di mezzo una donna. Diceva bene il vecchio adagio marinaresco: Mare, fuoco e femmina, tre male cose.

    Calata in mare la tartana, sul ponte si ristabilì una situazione di relativa calma. Ci sarebbero volute quattro ore prima della salpata, ma questo non significava starsene con le mani in mano. La vita di bordo era dura e a nessuno era consentito battere la fiacca: c’era sempre da rammendare una rete, cucire i distintivi delle paranze sulle coffe, trasbordare il pescato sulla battana che faceva la spola dal largo alla costa o pulire il ponte.

    Pietro era l’unico a cui era concesso il lusso di far eccezione. Finito di calare le reti, si ritirò quatto quatto sottocoperta, dove si stese sul pagliericcio a fumare la pipa. Nessuno avrebbe avuto da ridire, neppure lu parò: a quarant’anni suonati, di cui ventinove trascorsi in mare, Pietro Bracaletti era considerato un’autorità nell’ambiente. Si mormorava addirittura che fosse stato baciato dalle ninfe del mare, tant’era fortunato: non c’era peschereccio su cui si era imbarcato che non fosse rientrato in porto stracarico di pescato. La sua fama, meritata o meno che fosse, poteva anche aver infastidito qualcuno, ma nessuno s’era mai azzardato a farglielo notare, cagnarotto com’era.

    Smarrito nei propri orizzonti, non si accorse subito del mozzo che era rimasto a fissarlo imbambolato, con una coffa

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