Con la parola oltre la parola. Vivere e morire nella prospettiva del Tutto
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Con la parola oltre la parola. Vivere e morire nella prospettiva del Tutto - Michele Cavejari
INTRODUZIONE
Tu sei la Via
Caro lettore, se me lo concedi ci daremo del tu. Vorrei fare di queste pagine uno spazio attraversato dalla relazione complice fra due esploratori, due vite in cammino. Nessun generico e retorico noi
; bensì io e te
. Viandanti lungo le vie della domanda, orientati (e al pari spaesati) dal quesito che ci ha condotti sulla strada. L’enigma che portiamo in grembo dalla nascita.
Il mistero della sfinge.
Probabilmente, l’avrai pensato anche tu, condizione e destino dell’uomo è l’erranza. Da millenni, viaggiamo alla ricerca di noi stessi. Ogni società, lo ha fatto. Io e te, lo facciamo.
Alla ricerca di senso nel tempo, oltre il tempo.
Siamo itineranti. Da sempre impegnati a battere un sentiero incolmabile. Consapevoli di essere di passaggio
. Sospesi fra due momenti di cui ignoriamo tutto o quasi. Nel mezzo, la polvere che si alza e ricade col vento, occultando le tracce di chi ci precede. Eppure, in questo nostro scalzo andare, nemmeno un passo viene perduto. Poiché il cammino, insegna il poeta spagnolo Antonio Machado, è il camminatore.
Viandante, sono le tue impronte
il cammino, e niente più,
viandante, non c’è cammino,
il cammino si fa andando.
Andando si fa il cammino,
e nel volger lo sguardo
ecco il sentiero che mai
si tornerà a fare.
Viandante, non c’è cammino,
soltanto scie sul mare1.
Quel che più pare allontanarci, in verità più ci avvicina.
Il viaggio è circolare.
Riprendendo Rabindranath Tagore, il punto di partenza e di arrivo siamo noi:
Sono le vie più remote
che portano più vicino a te stesso.
Il viandante deve bussare a molte porte straniere
per arrivare alla sua,
e bisogna viaggiare per tutti i mondi esteriori
per giungere infine al sacrario più segreto
all’interno del cuore 2.
Mi auguro che tu, lettore, possa trovare molte porte a cui bussare. Vie remote, in apparenza straniere. Che tu possa camminare non per trovare rifugi e approdi, ma per recarti in visita alla voce sopita nel sacrario più segreto.
Quello umano è però anche un cammino fatto di vocali e consonanti; il linguaggio. E percorrere una parola onesta, trasparente e ispirante, si rivela necessario vieppiù quando le crisi sono all’orizzonte.
Oggi più che mai, la comunità globale ha il compito di rispondere alla chiamata di un pianeta sofferente. Res-ponderare, cioè meditare. Prendere dimora negli interrogativi fondamentali, e solo poi agire.
Invero, stiamo forse perdendo la Terra perché abbiamo smarrito la vocazione itinerante, l’arte di porre domande abissali. Ci si limita a risiedere nelle risposte tecno-scientifiche, a puntellare i precari punti di riferimento e i loro presupposti. Pare non sia rimasto sufficiente tempo per volgersi all’enigma sul senso dell’esistenza. Il ritmo frenetico che scandisce la giornata nasconde la sfinge dietro la maschera delle rassicuranti abitudini, ossia di quel che si fa perché è così che tutti fanno
.
Il nonsense traspare molto efficacemente dall’emblematica immagine che Tiziano Terzani depone fra le pagine del suo «Un altro giro di giostra»:
a un semaforo, aspettando il verde, mi colpì la scena al mezzanino dell’edificio che avevo dinanzi: decine di uomini e donne nel riquadro di grandi finestre correvano, correvano, restando però lì dov’erano, sudati e paonazzi, rivolti verso la strada. Non era la prima volta che vedevo una palestra, ma l’immagine di tutti quei giovani che, finito l’orario d’ufficio, erano corsi a smaltire frustrazioni e grasso mi pareva riassumere tutto il senso di quella civiltà: correre per correre, andare per non arrivare da nessuna parte3.
Il silenzio della vita alla richiesta di significato ovviamente spaventa e atterrisce; è normale che sia così. Nondimeno, gettare sistematicamente tutte le domande di senso nell’angolo della stanza, non aiuta. Anzi, lo sanno bene i bambini: quando scende la notte, è proprio la coltre di vestiti nel cantuccio a farsi un mostro divoratore. Sciogliendo la metafora: l’educazione occidentale, esageratamente impostata sullo sviluppo dell’intelletto logico (a discapito della mente intuitiva, associativa e creativa), nonché gli svariati condizionamenti sociali fanno sapere
che possiamo limitarci a porre problemi; e si sa, i problemi – contrariamente agli enigmi – contemplano una risposta. Una risposta, spesso e volentieri, pronta per essere messa nel carrello e consumata. Senonché, evidenzia la psicologa-psicoterapeuta Ines Testoni:
ognuno si trova [poi] a dover fronteggiare il momento più doloroso della vita confidando solo sulle proprie forze e credenze, senza averle mai messe in questione: proprio per questo esse risultano traballanti e facili prede di malcelate paure4.
Ragionevolmente, possiamo recuperare il contatto con noi stessi (e con il mondo) all’unica condizione di recuperare le domande accantonate. E, circolarmente, possiamo fare pace con la nostra caducità, le nostre crisi e i nostri dolori (la notte della vita) solo affrontando la coltre nell’angolo della stanza.
È tuttavia necessario, in primis, prendere in esame il linguaggio che detta i nostri passi. Dobbiamo renderci conto che le mappe non sono il territorio, e che ogni mappa – in quanto modellizzazione di una realtà inconoscibile nella sua nudità – resta vincolata ai dati di cui dispone il cartografo.
Nessuno può scorgere il mondo nella sua essenza, ovvero al di fuori del linguaggio, poiché non c’è nessun luogo da cui metterci a spiegare oltre il linguaggio.
Non per questo, divenire consapevoli dei limiti del pensiero logico-razionale mette a tacere. Al contrario, schiude un varco sul dominio intuitivo abitato dalla parola orfica, poetica, artistica. E la sfinge, avremo modo di appurare, non è mai totalmente impermeabile alle metafore, agli aforismi filosofici, agli ossimori, ai paradossi e ai componimenti artistici in generale.
Con la parola orfica è possibile percorrere il tragitto verso l’ineffabile, percepire ciò che nessuna spiegazione sa restituire. Sicché, mostrato ma non detto, indicato ma non descritto, apparirà il domicilio del senso.
Il gioco della parola, lettore, fungerà da scala. Ce ne avvarremo. Dopodiché, giunti al piano superiore, alla soglia del dicibile, compiremo il salto, portandoci oltre il gioco, verso quel che nessuno sa dire ma ognuno può meditare, coltivare e tradurre in messaggio vivente.
C’è una scala. E la saliremo insieme, attraverso brevi meditazioni. Ipotetici pioli
. La seconda parte del viaggio, tuttavia, ciascuno deve compierla in solitaria, abbandonando la scala. Con l’intuizione.
Sia chiaro, i concetti rimangono indispensabili per chiarire il contesto, sgombrare il campo dai fraintendimenti, rispolverare le domande-guida e padroneggiare l’arte di sostenere il volto della sfinge; ma studiare le coordinate non è l’esperienza del viaggio.
A un certo punto bisogna chiudere gli appunti e mettersi in marcia; compiersi lungo la rotta.
Consentimi un primo gioco orfico:
Dopo anni di faticose letture spirituali e milioni di libri accumulati, un erudito cercatore spirituale si accingeva a contemplare fieramente la mole del proprio sapere. La distesa di testi occupava l’intero studio. V’erano pareti risalite e discese dall’alfabeto dei guru, una libreria completa sulla metafisica d’Oriente e Occidente. V’erano le più dense pagine dei più abili commentatori delle Sacre Scritture, tutte bene in mostra. Sulla scrivania e sulle sedie; persino sui tappeti, in pile d’altezza differente. L’intellettuale amava definirsi un esperto marinaio nell’oceano tempestoso della conoscenza. Un viaggiatore finalmente arrivato al porto sicuro, convinto di aver gettato l’àncora al fondo della questione. Convinto di aver navigato ormai in lungo e in largo il vasto enigma della sfinge col suo agile bastimento logico.
Un giorno, però, l’erudito fu costretto ad ammettere che l’acqua della verità non gli aveva mai bagnato i piedi, neppure per un istante. E la lezione gli venne impartita non da un marinaio di livello superiore al suo, o nella verbosità a lui cara; bensì da un autentico maestro zen.
Mentre il pensatore si accingeva a considerare la parte di mare custodita al sicuro nella propria tazza mentale, ovvero mentre carezzava i bei ragionamenti che, come un vascello, a lungo lo avevano protetto dalla burrasca, ecco che il maestro entrava nella stanza.
Con passo felpato, la guida varcava la soglia. Miagolava un saluto all’assorto pensatore. Attendeva per un momento ai suoi piedi. Poi, impietosita dalla clausura letteraria a cui l’uomo si era consegnato, la guida sceglieva di concedere la chiave per uscire dalla prigione. Chissà se, quella volta, l’intellettuale avrebbe colto il messaggio!
Il nobile maestro zen impiegava la coda come timone. Prendeva la mira. Balzava sulla tavola. Nel disappunto dell’allievo, rovesciava all’istante due fra i più grossi bacini di spiritualità. Con destrezza, scalava poi l’onda del sapere. Sfuggito alle grinfie del padrone, si sdraiava con solida consapevolezza nell’abbraccio della carta e dell’inchiostro. Dalle pagine aperte della filosofia, infine, si ritirava ronfando nella beatitudine.
Al contrario, più in basso, ai piedi della sua montagna di parole, il padrone finalmente si risvegliava! Dall’alto del giaciglio di fortuna, a occhi chiusi, il maestro suggeriva: getta nell’oceano l’acqua della tazza e tuffati pure tu…
La logica tiene in ostaggio la mente. Pensa di tenere a guinzaglio la verità, mentre non ha che ombre da fissare con la sua possente meridiana.
Caro lettore, non cercare fuori il sentiero che hai già dentro. Risali l’onda delle parole e poi renditi disponibile all’intuizione. Prova a trattenere sulla lingua i contenuti che i grandi conoscitori della sfinge ci hanno lasciato in eredità. Se scopri frasi o parole capaci di produrre un’intima vibrazione, una risonanza interiore, soffermati un momento. Restaci assieme. Poi, vai oltre.
Giungi al sacrario segreto di cui parla Tagore. Riconosci la tua originalità irripetibile, l’acqua con cui nutrire l’oceano, il tuo dono, il tuo senso.
A quel punto realizzerai che nessun passo può andare perduto. Nemmeno uno. Neppure quelli di coloro che ti hanno preceduto, che ti hanno condotto sulla via, lasciandoti in eredità una scia. La scia sul mare della poesia di Machado: sino estelas en la mar…
Tutto vive e rivive in te.
L’enigma della sfinge ti chiama. Ti chiede di essere il sentiero, ciò che dà significato.
E allora, se puoi permetterti di diventare il viaggio immobile, se puoi assumerti la responsabilità della domanda che porti in grembo, ti assicuro che comprenderai pure il silenzio del mondo e la necessità della fine. L’assenza di coloro a cui vuoi bene. La scia che un domani tu stesso sarai: sino estelas en la mar…
Non dico che non vi saranno più sofferenza e paura. E nemmeno che queste vadano combattute. Dico, invece, che potrai avvicinarti a comprenderle.
Scrive, invero, il portoghese Fernando Pessoa:
La morte è la curva della strada,
morire è solo non essere visto.
Se ascolto, sento i tuoi passi
esistere come io esisto.
La terra è fatta di cielo.
Non ha nido la menzogna.
Mai nessuno s’è smarrito.
Tutto è verità e passaggio5.
PARTE I
Abitare la parola e presidiare il silenzio
Il dire che mette a tacere
e la parola che mette in contatto
Dire la verità non basta. Bisogna sapere come dirla6.
Fondamentale è imparare a comunicare bene.
Un precetto abbastanza trito, specie nell’epoca dell’informazione e dell’interconnessione virtuale; ma non andrebbe mai dato per scontato. È utile anzi evidenziarne lo spessore sin da principio, poiché – in assenza di un sincero presidio etico – la parola è capace di metterci a tacere, congedarci dalla realtà e allontanarci dalle persone che amiamo, specie quando si tratta di formulare l’enigma della sfinge.
V’è un’illustrazione minimalista dell’artista Eiko Ojala7 capace di restituire particolarmente bene l’idea di una comunicazione che non sa mettere in contatto. Vorrei portarla alla tua attenzione.
Nell’opera, osserviamo due figure umane unite e al contempo separate da un balloon in stile fumetto. La classica nuvoletta, l’artificio grafico in cui di norma troviamo riportate le parole dei personaggi, è però talmente grande che gli stessi interlocutori vengono spinti ai margini della scena. Di più: la sproporzionata nuvoletta, mancando della porzione superiore, concorre a creare il senso di erosione di spazio utile, di svuotamento. Il balloon, sostanzialmente, è un avvallamento, una voragine, un negativo inscritto all’interno di uno sfondo a cui tocca farsi estremo approdo per i piccoli protagonisti: due figure mute, l’una davanti all’altra, ciascuna isolata sul rispettivo ciglio del burrone spalancato da un dire che mette a tacere.
Non finisce qui. La genialità di Ojala prevede un balloon senza parole e, dettaglio non marginale, una pipetta – l’apice che mima la congiunzione dell’espressione sonora al parlante – giacente nel punto più basso del cratere, in una terra di nessuno.
L’immagine di Ojala diviene metafora perfetta dell’ambivalenza comunicativa nella società contemporanea. Emblema di una comunicazione spesso e volentieri ostacolata dal medium che dovrebbe favorirla.
Nel polisemico minimalismo di Ojala è possibile scorgere, a mio parere, persino l’esemplificazione di un’umanità che, piovuta a cospetto della domanda originaria (ovvero la domanda di senso a cui una crisi, una perdita o un evento traumatico hanno improvvisamente dato salienza), si ritrova incapace di dire, significare, costruire con la parola il ponte capace di trascendere il dolore senza negarne la verità. Attenzione, non mi riferisco alla mancanza di volontà o all’incapacità di pronunciare consolazioni (sono anzi proprio le frasi di circostanza ad alimentare il silenzio e a sottrarre autentici spazi d’incontro), quanto all’incapacità di gettare una corda fatta di parole vere, meditate, con la quale attraversare funambolicamente il vuoto e avvicinarsi al senso.
Ora, davanti all’immagine di Ojala mi sono chiesto: nell’età dei vortici d’informazione globalizzata e massificata, vi sono ancora spazi autenticamente abitabili dalla parola?
Certamente, mi sono risposto, molti territori resistono all’erosione. Ma poi mi sono domandato anche: l’informazione, messa nelle condizioni di prevalere sulla comunicazione, non ci ridurrà forse al silenzio? In altri termini: l’accumulo di dati e del dire che ha sovente la forma della risposta già fornita, non finirà con l’ostacolare la parola meditata che invece è sempre formulata nei termini del domandare?
In breve: quali parole vive restano al nostro fianco lungo i sentieri dell’esistenza, della ricerca di senso? Di quali spazi portatori di verità, di buona comunicazione, disponiamo dinnanzi al vivere e al morire?
La rappresentazione minimalista di Ojala si presta straordinariamente bene a porci questi interrogativi vitali. Mai come oggi, stagione dei big data, disponiamo di serbatoi illimitati di sapere a cui attingere, di parole già pensate, pronte a essere impiegate. E però, risuona il