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Il secondo giorno - Kiss for my angel
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E-book361 pagine4 ore

Il secondo giorno - Kiss for my angel

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Info su questo ebook

La giovane Gabriele vive a Roma, insieme ai suoi genitori, i coniugi Morris; Richard, originario dell'Oregon, poi trasferitosi a Manhattan e la moglie Elisabetta, "Liz". Sta per cominciare un nuovo anno scolastico e la ragazza, insieme alla sua migliore amica, Audrey, torna sui banchi della prestigiosa American Overseas School of Rome. Sembrerebbe una vita tranquilla, quella di Gabriele, e lo è fino al giorno in cui una sua parente, l'unica rimasta in America, "Zia Pupeet", muore, lasciandole in eredità un segreto incredibile. Inizia così un percorso pericoloso, diviso tra la Roma dei Papi e gli intrighi nelle stanze segrete del Vaticano, la sfavillante isola di Manhattan, e il Salento, terra di origine della madre di Gabriele. È così che la protagonista, oltre a conoscere il proprio segreto, scoprirà la forza che si cela nel coraggio e nei sentimenti degli amici che la circondano.
LinguaItaliano
Data di uscita2 apr 2015
ISBN9788899315078
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    Anteprima del libro

    Il secondo giorno - Kiss for my angel - Elisabetta Liguori

    Table of Contents

    IL SECONDO GIORNO - KISS FOR MY ANGEL

    L'autrice

    IL SECONDO GIORNO - KISS FOR MY ANGEL

    Prologo

    1. CIÒ CHE RESTA DELL’ESTATE

    2. ALLE PORTE DEL NUOVO ANNO

    3. A SCUOLA

    4. DOVE SI NASCONDE IL PARADISO?

    5. LA NOTTE DEI COLTELLI

    6. IN PARTENZA

    7. SALUTI E BACI

    8. POCA PACE TRA I CIPRESSI

    9. I BAMBINI NEL FUOCO

    10. LA STRANA COPPIA

    11. A CIASCUNO IL SUO PITTORE

    12. IL PRIMO DISEGNO

    13. COME RICONOSCERE UN ALLIEVO PROMETTENTE

    14. LA LETTERA SEGRETA

    15. PER FORTUNA, UN BAULE

    16. CHI HA TIRATO FUORI IL RAGNO DAL BUCO?

    17. LA FOLGORAZIONE

    18. ANCORA INSIEME

    19. LA VERITÀ È ELETTRICA

    20. CAPTARE IL SEGNALE

    21. PAPÀ TORNA A CASA

    22. INTEMPERANZE

    23. DIVAGAZIONI ANGELICHE

    24. L’ULTIMA LETTERA

    25. ACCENDERE GLI ANIMI

    26. COI PIEDI NEL FANGO

    27. TROPPA ACQUA

    28. RICORDA L’ACQUA, RICORDA LA PAURA, RICORDA L’AMORE

    29. PRIMA DI TORNARE A SUD

    30. FIDARSI DEGLI AMICI

    31. GELOSIA

    32. L’APOCALISSE

    33. DI NUOVO IN STAZIONE

    34. LA DELUSIONE DEI MAESTRI

    35. ALUNNE PROMETTENTI

    36. ALTRI INDIZI

    37. PATTO TRA SORELLE

    38. SIA BENEDETTO GUTENBERG

    39. UFOLOGIA

    40. PRENDERE APPUNTI

    41. LETTURE ANGELICHE

    42. IL NINFEO DEI SATIRI

    43. STRATEGIA FINALE

    44. LA DIDATTICA DEI DELUSI

    45. TRA I SOLDATI

    46. LA MIGLIORE TESINA È QUELLA CHE ANCORA NON È STATA SCRITTA

    47. LA COMPAGINE

    48. POMERIGGIO IN BIBLIOTECA

    49. L’AMORE DI PIETRO

    50. LE DOMANDE DI ANSELMO

    51. ANGELO CONTRO ANGELO

    52. SENTIRSI SIMILI

    53. SE SI POTESSE SPIEGARE IL MONDO

    54. CON OGNI MEZZO

    55. LA GUERRA SOPRA IL FIUME

    56. IL SILENZIO DEI CANI

    57. ALL’OMBRA DELLE ALI

    Ringraziamenti

    Musicaos Editore

    Elisabetta Liguori

    Il secondo giorno. Kiss for my angel

    Progetto grafico copertina - Adriana Adamo - ADDASTUDIO.IT

    Foto dell’autrice - Courtesy Photo: Rino Biancho

    © Musicaos Editore, 2015 - Tutti i diritti riservati

    ISBN 978-88-99315-07-8

    Nessuna parte di quest’opera può essere riprodotta senza il consenso dell’editore. Ogni riferimento a fatti, cose, luoghi, persone, è da ritenersi puramente casuale.

    Musicaos Editore - Via Arciprete Roberto Napoli, 82 - Neviano (Le) - tel. 0836-618232 - info@musicaos.it - www.musicaos.it - I edizione: Marzo 2015

    ELISABETTA LIGUORI

    IL SECONDO GIORNO - KISS FOR MY ANGEL

    L'autrice

    Elisabetta Liguori è nata a Lecce nel 1968, dove vive e lavora, presso il tribunale per i minori. È laureata in giurisprudenza. Ha collaborato con la rivista Nuovi Argomenti, e per numerose altre riviste on line, quali Musicaos, Vertigine, Bibliosofia, Booksbrothers.

    Collabora con il Nuovo Quotidiano di Puglia, alla pagina della cultura, con una particolare attenzione per la letteratura al femminile. Il credito dell’imbianchino, edito da Argo di Lecce, è il suo romanzo d’esordio, finalista al Premio Berto 2005 e al Premio Carver 2005. Il secondo romanzo è del 2007, Il correttore, edito da peQuod di Ancona. Del gennaio 2010 è il terzo romanzo, scritto a 4 mani con Rossano Astremo, Tutto questo silenzio (Besa Editrice). La felicità del testimone è il titolo del suo romanzo uscito nel 2012 per Manni editori.

    Alcuni suoi racconti e letture critiche sono apparsi sulle riviste Tabula Rasa (Besa Editrice); Vertigine (Pensa Editore); Il Segnale (I Dispari, Milano); e in antologie tra le quali: Mordi & fuggi edito da Manni Editori, Laboriosi Oroscopi edito da Ediesse, M’Ama per il Poligrafico di Padova, Il dizionario affettivo italiano per Fandango editore, È finita la controra Manni editori, Sangu, racconti noir di Puglia Manni editori 2011; Nessuna più. Quaranta scrittori contro il femminicidio (Elliot, 2013), nell’ambito della quale ha trovato spazio la sua attenzione e l’interesse per i personaggi femminili. Ha preso parte a progetti culturali internazionali, curando la stesura dei testi musicali e teatrali. Da aprile 2013 è in libreria una sua favola per bambini sul tema delle adozioni, dal titolo Kora, una storia a colori (Lupo Editore) con illustrazioni di Carlos Arrojo.


    A chi ancora non sa


    IL SECONDO GIORNO - KISS FOR MY ANGEL

    Quando il bambino era bambino,

    se ne andava a braccia appese,

    voleva che il ruscello fosse un fiume,

    il fiume un torrente,

    e questa pozza, il mare.

    Quando il bambino era bambino,

    non sapeva di essere un bambino,

    per lui tutto aveva un’anima

    e tutte le anime erano un tutt’uno.

    Quando il bambino era bambino,

    su niente aveva un’opinione,

    non aveva abitudini,

    sedeva spesso a gambe incrociate,

    e di colpo sgusciava via,

    aveva una vortice tra i capelli

    e non faceva facce da fotografo.

    (Peter Handke)

    Dicono alcuni che amore è un bambino

    e alcuni che è un uccello,

    alcuni che manda avanti il mondo

    e alcuni che è un’assurdità,

    e quando ho domandato al mio vicino,

    che aveva l’aria di sapere

    sua moglie si è seccata e ha detto che

    non era il caso, no.

    (Wystan Hugh Auden)

    Prologo

    TENERE LA ROTTA

    [Sopra l’Atlantico, verso Roma

    Quindici anni prima del giusto tempo.]

    Stanno volando da tre ore. I coniugi sono stanchi ma felici.

    - Sarai contento.

    Richard si volta a guardare la moglie e un ciuffo giallo di capelli gli rimbalza sulla fronte.

    - Contento di cosa, Liz?

    - Ora che saremo a Roma e porterò in giro Gabriele, con un nome così nessuno penserà che sia una femmina.

    - E tu vestila di rosa!

    La neonata tra le braccia della donna vagisce ad occhi chiusi.

    - Lo vedi? Sbuffa anche lei.

    - Povero me. Ha il tuo stesso carattere: non farà che criticarmi tutta la vita.

    Una hostess dai capelli corvini scivola silenziosa sulle sue decollettes a tacco basso lungo il corridoio centrale.

    - Tutto bene, signori?

    Il foulard a righe è annodato mollemente intorno al suo collo da cicogna.

    - Arriveremo in orario?

    Richard si sporge in avanti per guardarla negli occhi.

    - Sono certa di sì. - risponde la donna - Il decollo da Newark è avvenuto con un ritardo minimo. Ce la faremo. Presto saremo fuori dalla turbolenza. - aggiunge stringendo meglio il nodo al foulard.

    - Turbolenza?!? Quale turbolenza?

    - Nulla di grave.

    - Nulla?

    - Assolutamente nulla.

    In effetti la hostess ha tolto la giacca blu per muoversi più comodamente in maniche di camicia. Non è un buon segno. I finestrini sono rigati di pioggia e vibrano leggermente.

    I coniugi si guardano, poi guardano il fagotto nelle braccia della madre. D’improvviso i piccoli led notturni, posti in cima al sedile di ciascun passeggero, si spengono. La donna con il foulard, colta nel mezzo del corridoio, guarda in alto. Le dita le tremano. È sorpresa. Dopo qualche attimo scompare anche la scia luminosa lungo il pavimento. Le tendine che separano la cabina di pilotaggio dal resto della carlinga ondeggiano come la gonna di una ballerina di flamenco. Le cappelliere borbottano. Una donna, magra e pallida, in seconda fila caccia un urlo.

    Chi dormiva si sveglia di botto.

    Nel buio si perde quota. Si perde fiato. Si perde speranza.

    In tanti stanno invocando il pilota. Parole senza direzione. Lo supplicano di fare qualcosa, come fosse Dio. Richard prende la mano destra di Liz e se la strizza sul petto, l’altra la infila tra i bottoni della tutina rosa di Gabriele, proprio mentre la piccola spalanca la bocca. I suoi vagiti sibilano nell’aria. È l’unico neonato presente: un suono irresistibile. Il piccolo corpicino si contorce freddissimo. Alcuni si voltano a guardarla. Le piccole braccia rosa remigano vorticosamente. La tutina in acrilico produce scariche di elettricità. Lancia bagliori di luce bianca. L’aereo sta precipitando? Sta accadendo per davvero? Il pilota gracchia nell’altoparlante. Sta suggerendo ai passeggeri di non perdere la calma.

    1. CIÒ CHE RESTA DELL’ESTATE

    [Porto Cesareo]

    Il vento ha gonfiato la vela, strappandomi di mano la cima. È stato un attimo. Questa volta poteva essere davvero un disastro, chi l’avrebbe sentito poi, mio padre.

    Per fortuna è andata bene.

    Dovrei esserci abituata ormai, invece ogni anno ci ricasco con tutte le scarpe, che cretina! Amo l’acqua, sì, ma con la tramontana è un’altra storia. Deve essere per questa ragione che continuo a fingere di non conoscerla. Quando ero piccola, nei giorni di burrasca, mi rintanavo in casa, chiudevo le finestre, sprangavo le porte, spegnevo anche le luci. Sceglievo un angolo qualunque per chiudere gli occhi e aspettare che passasse. Un tormento continuo, considerato che a sud il vento è la regola. La pioggia invece non mi spaventa: sarei capace di passeggiarci per ore sotto, come fossi fatta di plastica. Peccato che qui piova così di rado! Dentro la pioggia navigherei da Dio, eppure, porca miseria, mai una volta che mi riesca davvero.

    Diamine, almeno una, dico io! Una nella vita. Una grande traversata. Arrivare in fondo al traguardo. Uno qualunque.

    Tipo arrivare in Calabria.

    Io, come i primi colonizzatori greci.

    Sarebbe una gran figata. Portare a termine il percorso, nonostante il vento, la pioggia e tutte le furie.

    Ovviamente non in questo ultimo pomeriggio. Non più per quest’anno. Non senza che mio padre finisca per allertare la guardia costiera. Pazienza. Mi tocca metterci una pietra sopra. Tra poco lasceremo Porto Cesareo, torneremo in città e la Calabria resterà dov’è.

    Gabriele, Gabriele.

    Una vocina lontana.

    Mi ha vista. Eccola. È Teresa, la figlia di Antonio, il guardiano del porto.

    Fa ampi cenni dal molo. Vuole che ormeggi in fretta.

    Deve essersi preoccupata non vedendomi ritornare.

    Un vecchio lupo di mare, quella bimbetta. Ha fatto più esperienze marinare lei, in otto anni di vita, che io in quindici. E non mi dà tregua. Mi sta sempre alle calcagna.

    - Ce l’hai fatta?

    - Ci sono andata vicino.

    Le dico dopo averla raggiunta.

    - Bugiarda.

    Ride.

    - Sì, invece, ti dico. Ci sono andata vicinissima, ma poi ho lasciato perdere.

    - E perché?

    - Ho pensato che l’hanno prossimo lo facciamo insieme.

    Incrocia le mani sul petto, sospira e scuote la testa.

    - Fidati! Ci faremo dare una vela nuova, però, che questa schifo.

    Suo padre è seduto proprio davanti a noi, sul molo, coi piedi a mollo. Il risvolto dei pantaloni tirati su e le mani dentro una rete piccola.

    Gli chiedo di tirare in secca la mia Afrodite. Se ne prenderà cura lui durante l’inverno. Lo fa da anni ormai. Sorride con il mento: gli piace il suo mestiere.

    Rivedrò lui e sua figlia Teresa a giugno. È la logica delle stagioni. Il villaggio si è quasi del tutto svuotato. Non c’è più molta gente in vacanza. L’estate tira le cuoia in silenzio e anche le stradine di sabbia stanno per andare in letargo. Noi, come ogni anno, siamo tra gli ultimi a lasciarle. Mia madre farebbe carte false per restare qualche giorno ancora, ma non si può. Lei adora questo luogo, le ricorda le sue origini, ma quando c’è da partire, si parte.

    Spingo con forza il portoncino di casa.

    I cardini, gonfiati dalla salsedine, cigolano come gattini.

    - Ehi! Sono tornata!

    La porta della stanza da letto dei miei genitori è chiusa: la siesta è sacra a sud. Finalmente. Una voce lontana e assonnata. Mia madre deve aver sentito i miei passi nel piccolo disimpegno. In frigo ci son rimasti un paio di pesci fritti e una fetta d’anguria. Grida. Prendo due piatti e salgo in camera mia. Divoro il cibo. Accendo il computer e senza rendermene conto sono già sul sito della American Overseas School of Rome. La mia scuola. Non so dire se mi sia mancata. Sono al secondo anno, scuola privata, diversa tra i diversi. Forse un po’. La mia vita è fuori misura forse, ma è pur sempre la mia. Anche in quel posto ormai ogni cosa mi appartiene; stramba eppure familiare. È stato mio padre a sceglierla. Voleva che mantenessi il contatto con un pezzo d’America. Mio padre è Richard Morris dei vecchi Morris dell’Oregon, trasferitisi a Manhattan negli anni cinquanta. Lui ha scelto la mia scuola e prima ancora il mio assurdo nome. Ha scelto pure quello di mia madre, in verità, che da Elisabetta, quale era stata fino al momento in cui aveva conosciuto suo marito, era diventata per tutti sempre e soltanto Liz. Lo stesso infaticabile Richard ha scelto anche la via Cassia per il nostro appartamento, imposti a noi i ritmi romani e inevitabilmente selezionato, nel quartiere e fuori, quelli che sarebbero stati i nostri amici. Mamma ed io non abbiamo mai saputo dirgli di no.

    È un tipo determinato, il buon Richard.

    Del resto in origine c’era stato uno specie di scambio tra loro.

    Mia madre era riuscita a tornare in Roma con il suo bel marito americano, conosciuto in una vacanza studio alquanto avventurosa, e, in cambio, s’era dovuta portare dietro un pezzo d’America.

    Prendere o lasciare.

    Quel pezzo d’America sono io. Con il tempo sono diventata la rappresentazione vivente della nostalgia di mio padre. Ok, uno scambio equo, ma io? Cosa ho avuto in cambio, io? Un quartiere periferico, una stanza col televisore a schermo piatto, una piccola libreria, ingombra di letteratura internazionale, tanti vocabolari, la passione per il mare acuita dalla sua lontananza. Non sono stati regali; né chissà quali conquiste; non premi o punizioni; più semplicemente la mia vita.

    Tutto sommato, non è da buttar via.

    Mi ci sono abituata.

    Anche mia madre si è abituata: insegnante di Italiano in una scuola secondaria alla Castelluccia, sembra serena. Roma è diventata la sua città e ormai ci sta dentro come un pesce nell’acquario. Al contrario per Richard non è stato facile ambientarsi. Lavora da anni presso la farmacia Vaticana. Ha turni massacranti. Ancora sale e scende vorticosamente dagli autobus, come fossero le prime passeggiate di prova. Si sente sempre un po’ a disagio, secondo me. Non ha mai voluto prendere la patente di guida e continua a perdersi tra vicoli e travertino, sbraitando contro il destino. Il nostro tinello è sempre pieno delle cartine stradali che lui ciancica e mette da parte insoddisfatto. Secondo me quello che sta peggio alla fine è proprio lui. Cerca qualcosa, ma vai a capire cosa. M’ha tirata su con il dubbio che ci sia molto altro da scoprire, ma che avventurarsi sia troppo pericoloso. Mia madre non se li fa mica tutti questi problemi. Ha origini pugliesi e ne va fiera. Il sud è lontano, ma non si fa dimenticare. È una certezza la sua piccola casa vicino alla marina di Porto Cesareo, lasciata in eredità dai nonni materni, (omaggiati adeguatamente dagli ovali in bianco e nero che sono ancora in bella mostra in alto sulla nostra cucina economica). Se ne prende cura riverniciando gli esterni quasi ogni anno ad aprile. Solo quando è arrabbiata, tira fuori il suo dialetto più sanguigno, altrimenti tiene il suo tesoro segreto.

    Io non so parlare come lei. Non parlo neppure il romanesco. Non sono come loro. Non credo di somigliare né a mia madre né a mio padre; né all’Italia né all’America. Io sto nel mezzo.

    Comunque sia, noi tre si sta al mare ogni estate tutti insieme, come fanno i tonni, per riprendere fiato e colore, ciascuno a suo modo. Poi in autunno si torna a casa.

    Sta per cominciare il mio terzo anno. Ora si fa sul serio. Il terzo è un anno importante. Lo dicono tutti.

    Li sento parlottare.

    I miei genitori, ancora chiusi nella loro stanza, parlano di treni. Di bagagli, orari.

    Domani in stazione, che strazio!

    I treni mi fanno sentire fuori dalla storia.

    Nessuno prende più i treni, nessuno tranne noi Morris, i Morris degli antichi Morris dell’Oregon. Manco fossimo profughi, che palle! Mi si rivolta lo stomaco solo a pensarci. Ogni volta è una fatica biblica tornare sulla Cassia, tra valanghe di valigie, vecchie ciabatte e biglietti da obliterare. Un incubo che mio padre continua a imporci come una purga. Ci sono tanti modi di muoversi per il mondo, dice il vecchio Richard, l’auto non è che una possibilità. Peccato che a me questa possibilità di cui tutto il pianeta gode non sia mai stata data. Che per i miei quindici anni, mi sia stato regalato un motorino è un miracolo che devo soltanto a mia madre. Infatti mio padre me lo rinfaccia di continuo. Lascia andare tua figlia. Il pianeta non ne morirà e tu nemmeno, gli dice lei ogni mattina prima che io vada a scuola.

    Così domani mi aspettano sette ore di martirio, più i possibili ritardi.

    Meglio fare un ultimo giro qui intorno per rilassarsi un po’. Spengo il pc ed esco, lasciando i Morris al loro arcaico riposino.

    Cammino lentamente, mi sembra quasi che faccia più freddo. In piazza: mosche, vento e puzza di pesce.

    Vorrei salutare Maurizio.

    Son certa di trovarlo al bar.

    Suo padre, Vittorio Pace, oste figlio d’oste, schiavo devoto dei vigneti dell’agro storico di Leverano, ci lavora da generazioni. Il suo bar è una specie di mausoleo, piantato dritto al centro dell’abitato, e lui è un burbero panzone. È là che mi dirigo. Maurizio ha più o meno la mia età, ma si sente più vecchio. Solitamente sta seduto dietro la tenda di listarelle sonanti a guardare la strada a strisce, oppure gioca a biliardino. È proprio lì che lo trovo, entrando.

    - Quando parti?

    Mi dice muovendo solo il mento.

    - Domani.

    - Hai preso la barca oggi, ma non mi hai detto nulla.

    È seduto su una sedia di paglia con le gambe larghe. Non mi guarda neppure.

    - E tu che ne sai?

    - Teresa. Al porto.

    - Avevi detto che volevi cominciare i compiti di scuola. Per questo sono scesa da sola. Non sono andata lontano comunque: era mare grosso.

    - Carogna!

    - Carogna tu!

    - Tanto mi bocciano uguale. Sono già tre volte. Ho battuto il record.

    - Ti scrivo, lo prometto! Così mi dici come sta andando.

    - È meglio se mi telefoni. Ho comprato un cellulare nuovo.

    Forse Maurizio è un po’ innamorato di me.

    Probabilmente gli sembra romantica l’idea di un’amica mezza straniera. Io non sono innamorata, ma gli ho sempre voluto un gran bene, perché, quando aveva solo otto anni, aveva insegnato a nuotare a mio padre, l’aveva fatto così bene che ora lui è convinto di essere un asso e ha smesso di preoccuparsi di eritemi e colpi di sole.

    Maurizio sembra saggio, anche se non ha voglia di studiare. Del resto l’aria riarsa e spoglia del Salento rende precoci ma pigri, si sa.

    Beviamo una coca insieme senza parlare, poi usciamo all’aria aperta.

    Sul molo il cielo è quasi verde.

    Rimaniamo in strada a lungo, annusando l’aria.

    Le urla dei gabbiani fanno paura: sembra stiano per precipitarci addosso. Questo settembre, benché silenzioso, sembra invischiato da strani presagi. Vai a capire perché. Maurizio mi prende la mano e stringe forte. Credo voglia dirmi che resterà ad aspettarmi qui, anche per questo inverno. Non so cosa dire. Alla fine gli dico ciao e vado via, anche se avrei voglia di restare. Mentre mi allontano, ripenso alle Ferrovie dello Stato e mi viene da piangere.

    2. ALLE PORTE DEL NUOVO ANNO

    [Roma]

    Settembre dà sempre il suo bel da fare.

    Tutti tornano in città: tutti, non solo i Morris dei vecchi Morris dell’Oregon, e il telefono riprende a squillare. Nella mia stanza sul materasso senza lenzuola, con le persiane ancora giù, la prima cosa che faccio è comporre il numero di Audrey.

    - Gabriele, Dio santo! Son venti giorni. Sei la solita pazza eremita. E non raccontarmi cazzate. Tipo che il cellulare non prende o chissà cosa. Non hai risposto nemmeno alle email. Ma ti si blocca il cervello quando sei in quel posto da schifo?

    Ecco, Roma è anche Audrey.

    Trenta secondi e mi torna alla mente con agghiacciante consapevolezza perché a luglio ero così felice di prendermi una pausa.

    - Non dici niente, eh? Tanto lo so che ti sono mancata!

    - Se lo dici tu.

    Sente il dovere di aggiornarmi su tutto quello che è successo nella città dei Cesari mentre ero via. Deve essere stata una sofferenza atroce per lei non potersi sfogare. Mi anticipa che Tony Sanders è libero e presto sarà suo. M’informa che hanno aperto uno Skatestore in città e poi riattacca senza lasciarmi il tempo di rispondere.

    - Mamma! Faccio un salto in centro con Audrey.

    - Quando torni?

    - Per pranzo, tranquilla.

    - Passa da scuola, così ritiri i programmi.

    - Per favore! Qualche giorno ancora e mi tocca.

    - Appunto: è inutile perdere tempo.

    Audrey ha detto che sarebbe venuta a prendermi immediatamente.

    Lei non vorrà passare da scuola, son certissima.

    Scendo in strada. Il quartiere è tutto un mescolarsi di cancelletti di ferro e villette a schiera. Viviamo in un polmone verde. Uno dei pochi. Il basolato è ancora inzuppato dei bollori d’agosto, le aiuole sorridono, ma, per ogni macchina che passa, il calore dell’asfalto aumenta. M’infilo gli auricolari, sperando che Audrey non s’incanti per ore davanti allo specchio

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