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Il cadavere del lago
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E-book276 pagine3 ore

Il cadavere del lago

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Le indagini del Commissario Ventura

Mario Ventura, commissario sessantenne dai metodi duri, musicista mancato e con una certa dipendenza dall’alcol, è alle prese con un caso difficile: sulle rive del lago di Albano, in un giorno d’inverno freddo e piovoso, viene ritrovato il cadavere di un giovane seminarista irlandese, Eamon McCormac. Il corpo è seminudo e con evidenti segni di soffocamento. Si tratta di omicidio. Le indagini portano gli inquirenti a interessarsi al Seminario Apostolico d’Irlanda, a Castel Gandolfo, un’istituzione che accoglie futuri ecclesiastici di nazionalità irlandese. Non ci vuole molto per scoprire che la condotta di McCormac era tutt’altro che irreprensibile. Il seminarista frequentava infatti un giro di prostituzione. I sospetti cadono subito su un giovane che lavorava proprio nella zona in cui è stato rinvenuto il cadavere e una serie di indizi sembrano confermare la sua colpevolezza. Ma Ventura non intende chiudere il caso prima di essere venuto a capo del mistero che avvolge la vicenda. Perché la verità è molto più lontana di quanto potrebbe sembrare…

Un cadavere ritrovato vicino alla riva di un lago.
Un seminario in cui si muovono personaggi ambigui.
Una verità scomoda da riportare a galla. 

Hanno scritto del suo precedente romanzo:
«Un thriller duro, a tinte forti.»
Thrillermagazine

«È un libro che emoziona dall’inizio alla fine. Da leggere almeno una volta nella vita.»
Danilo Pennone
è nato a Roma, dove vive e insegna. Ha esordito nella narrativa con il romanzo Confessioni di una mente criminale, pubblicato dalla Newton Compton, da cui è stato tratto l’omonimo spettacolo teatrale, per la regia di Marcello Cotugno, rappresentato al Todi Arte Festival 2009. Ha lavorato come assistente alla cattedra di Storia del cinema presso l’Università “La Sapienza” di Roma. Il cadavere del lago è il suo nuovo romanzo.
LinguaItaliano
Data di uscita23 ott 2018
ISBN9788822727084
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    Il cadavere del lago - Danilo Pennone

    1

    La statua della vergine troneggiava in un angolo vicino all’altare. Ventura si fece il segno della croce, quando don Pablo Guzmán incensò la bara. Un cuscino di fiori bianchi aveva raccolto l’acqua benedetta schizzata dall’aspersorio. Fuori, una pioggia gelida stava inondando la città da giorni.

    Sembrava un estraneo là dentro, quasi che tutto quel dolore non gli appartenesse. Chissà cosa avrebbe detto sua madre?, pensò, fissando il feretro. La chiesa era fredda, i suoi marmi la rendevano polare non meno di quell’ultimo saluto.

    Riuscì a desiderare solo un bicchiere di grappa e il suo sigaro.

    «Tesoro…», farfugliò, quando la sollevarono.

    I presenti si misero in piedi. C’era il questore Bianteri, il sostituto procuratore Cruciani, il procuratore della Repubblica Moreschi, il professor Catapano, l’ispettore Di Gennaro, tutti gli agenti del commissariato di Marino e, naturalmente, il suo amico don Pablo Guzmán, lì per officiare la cerimonia.

    Uscita dalla chiesa, la cassa fu sistemata nell’autofunebre. Ventura s’avvolse la sciarpa attorno al collo, concedendosi alle condoglianze. Piantato al riparo sotto l’ombrello. E lo stesso i pezzi grossi. Quelli in divisa, invece, sfilarono coperti da un’incerata.

    Un gruppetto di curiosi, intanto, s’era fermato nella piazza davanti San Barnaba. Qualcuno osservava dalle finestre. I bottegai avevano interrotto i loro negozi per guardare e commentare con i passanti, neppure il temporale li aveva dissuasi.

    «Chi era?»

    «La figlia. Venticinque anni».

    «Ma com’è stato?»

    «S’è lasciata morire».

    «Quella non aveva mica tutte le rotelle a posto».

    «Sì, l’avevano fatta rinchiudere».

    «Perché, non lo sapevate? Stava sui giornali. Un’assassina».

    «Certo che lo sapevamo, lo sapevano tutti».

    «L’hanno giudicata mezza… sì, insomma, non ci stava proprio con la testa».

    «S’è fatta pure il manicomio criminale».

    «Sst… zitti, passa il carro».

    Ventura ringhiò dentro di sé, guardando con odio quell’accolita di ficcanasi. L’acqua veniva giù a vento. Qualche ombrello si capovolse. Decisero di raggiungere il camposanto in macchina. Il tergicristallo dell’auto di Ventura frignava dolorante. Erano le dieci e mezzo del mattino, ma sembrava già notte. Un cielo cupo avvolgeva la cittadina e, più in basso, Roma, anche lei ad affogare sotto un manto di pioggia.

    Arrivati al cimitero, in via Capo d’Acqua, ci fu, naturalmente, chi non si lasciò sfuggire la battuta: «E dove la potevano portare con una giornata così».

    «Almeno lei sta riparata».

    «Un po’ di rispetto!», li ammonì Di Gennaro.

    Le auto imboccarono la discesa che portava alle tombe. Si fermarono davanti a una di quelle all’aperto la cui lastra era stata spostata. Un altro nome spiccava su quel marmo: Anchise Ventura: 1928-2008. Là sotto da cinque anni. Anchise avrebbe voluto tornarsene a morire in Sicilia e, invece, aveva dovuto accontentarsi di crepare in un paesino da dove non si vedeva il mare. Anche Mario Ventura amava il mare. E il mare dell’Africa, dove s’affacciava quella striscia di Sicilia in cui era nato, fluttuava di ricordi, non sempre piacevoli. Guardò la lapide. Avrebbe dovuto farla risistemare; lumino e vaso cadevano a pezzi.

    Una squadra di sei uomini prese il feretro e lo calò nella fossa. Ventura, fradicio, diede i documenti al necroforo comunale, il quale li ripose subito in tasca per non farli inzuppare del tutto. Il diluvio, che stava imperversando, aveva trasformato in un pantano il terreno tutt’attorno.

    Ora la giovane riposava in pace con il nonno. Il commissario tolse qualche fiore dalle corone posate lì a fianco e ne fece un mazzetto che gettò dentro la buca. Un gesto e gli addetti risistemarono il guscio di quella sepoltura.

    Rimase solo. Lui, la pioggia e quella tomba. Nessuno era riuscito a dirgli una frase di vero conforto, perché nessuno avrebbe potuto consolarlo davanti a una maledizione. Qualche vago pensiero, poi se ne andò.

    Giunto a casa, trovò Crimbo accucciato a guaire dietro l’uscio. Pareva sapesse tutto.

    «Vieni giovanotto, che hai bisogno di mangiare», gli disse. «E io di bere qualcosa».

    C’erano bottiglie di birra ovunque e bucce di noccioline.

    «Vuoi sapere, giovanotto, qual è stato il bacio più dolce che ho avuto?», chiese allo spinone, mentre si versava da bere. Portò alla bocca il bicchiere con il distillato e, bagnandosi le labbra, «Questo», sussurrò. «E mi mette davvero tristezza pensare che non dovrei farlo, quando sono tormentato dalla sete. Senti a me, giovanotto, trasforma tutte le tue agonie in qualcosa di bello, ché non c’è nessuna cura preventiva alla morte».

    I suoi occhi si fermarono sulla foto di Antonia, la moglie. Sapeva bene da chi aveva ricevuto i baci più dolci, un tempo. Sollevò il bicchiere, brindando alla sua memoria.

    «Adesso sei in buona compagnia, lassù», le disse.

    Tolse scarpe e camicia, mise su una felpa e si sedette. S’accorse che i pantaloni erano impregnati di fango sotto l’orlo, così tirò via anche quelli, restando in mutande. Mentre si versava un altro bicchiere, vide profilarsi, dalla finestra del bagno di fronte, la linea sottile e scura di un corpo. La chiostrina era talmente stretta che quella stanza sembrava di averla in casa. Oltre il vetro smerigliato, una figura femminile, nuda, dava l’impressione che si stesse specchiando. Era la sua vicina. Una moldava venuta ad abitare lì da meno di un mese.

    Rimase ad ammirare quei contorni. Anche solo in quel modo, tutto era molto chiaro. Non fece un grosso sforzo a immaginare il resto.

    Qualche secondo, in un gesto veloce, la luce dietro quel vetro si spense e l’immagine scomparve.

    Gli era capitato altre volte d’imbattersi in scene simili, su cui si soffermava volentieri.

    Con il bicchiere di grappa in mano, si trasferì in quella che era stata la stanza del padre. Aveva buttato via ogni cosa: letto, televisore, armadio. Una rinfrescata alle pareti ed era diventata la sua camera della musica. Ci aveva fatto sistemare un Bösendorfer di fine Ottocento, comprato usato per poco più di tremila euro.

    Aveva sempre desiderato possedere un pianoforte a coda. E tra i suoi desideri c’era stato anche quello di studiare composizione. Tutto andato in fumo: il diploma in pianoforte, quello in composizione e il sogno della musica. Per un pezzo, il piano non aveva avuto più voglia nemmeno di guardarlo. E ora aspettava solo di essere accarezzato dalle sue dita corte. Un musicista diventato poliziotto. Lui solo sapeva cosa si portava dentro.

    Intorno a mezzogiorno, il cellulare di Ventura trillò. Malvolentieri, rispose. L’accento irpino dell’ispettore Antonio Di Gennaro, accento più che di bocca di naso – naso adunco e sporgente tra due guance grosse e caramellose – annunciava l’arrivo di un nuovo incarico. L’ispettore mostrava sempre grande zelo quando si trattava d’informare il commissario delle circostanze peggiori, magari drammatizzando le cose. Era una persona con venticinque anni di carriera sulle spalle, una grande stima per il commissario e attenta a tutti gli incartamenti; ma consapevole, anche, che non era con i pezzi di carta che si risolvevano i casi.

    «Dottore, mi dispiace doverla scocciare in un momento così», s’arrischiò desolato. «Però, volevo metterla al corrente che hanno rinvenuto un cadavere sul versante occidentale della spiaggetta del lago Albano».

    «Con questa modifica sulle competenze territoriali stiamo togliendo castagne dal fuoco a tutti i comandi e i commissariati della zona», disse Ventura, contrariato.

    Non si trattava d’insofferenza nei confronti del lavoro. Erano le vicende personali a urtarlo.

    «Ha ragione, dottore. Comunque, quello che l’ha scoperto ha chiamato la centrale, dicendo d’aver visto qualcosa di spaventoso. Ci sto andando ora».

    «Spaventoso… Arrivo».

    Ripose l’apparecchietto. Non poteva che plaudire allo zelo di quella specie di suo attendente. In più di qualche occasione, aveva apprezzato perfino le sue iniziative, preso com’era dai tanti problemi burocratici e organizzativi.

    Si vestì svogliatamente. I pantaloni sgualciti, la giacca rattrappita, le scarpe slabbrate: davanti allo specchio vide un uomo con un paio di occhi piccoli e tristi incorniciati dal metallo dei suoi occhiali.

    Prese dal taschino il pettine e lo passò fra i capelli e sulla barba. Infilò il cappotto e, mentre stava per uscire, s’accorse che era rimasto un dito di acquavite nel fondo del bicchiere. Lo sollevò. Una rimestata veloce, e spedì giù tutto d’un fiato.

    «Ci vediamo più tardi, giovanotto», fece al cane.

    Si fermò con la sua Volvo sul ciglio della strada che immetteva nel bosco attorno al lago, trovando già lì il furgone della polizia mortuaria e cinque auto. Il posto era transennato e la scena affollata.

    Scavallò il nastro protettivo che gli agenti avevano sistemato attorno a tutta l’area e scese sull’arenile. Di Gennaro lo vide e gli andò subito incontro.

    «Stava mezzo sepolto sotto la sabbia, così, in mutande come lo vede», esordì.

    «Com’è morto?»

    «Strozzato. Dall’aspetto, non pare italiano, forse più uno dell’Est».

    «Forse».

    «Tiene segni di rossetto addosso. Qui, per esempio, vede?».

    Ventura s’accostò. I pochi indicatori di prove attorno alla vittima testimoniavano la scarsità degli oggetti utili per l’indagine.

    «Cherchez la femme, che dice, dottore?»

    «Chissà».

    Ventura tirò fuori il suo taccuino e prese appunti.

    «Chi l’ha trovato?»

    «Un pensionato, mentre portava a spasso il cane».

    «Qui di spaventoso c’è solo il freddo».

    Di Gennaro sorrise.

    «Un omicidio senza sangue. Pulito. Degno di chi sa come complicarci le indagini. Sappiamo almeno da quant’è che è morto?»

    «Più di due giorni», s’intromise il medico legale, mentre puliva il termometro con una garza. «Il corpo è già nella fase di afflosciamento».

    «Niente tracce di lotta o indumenti strappati», aggiunse Di Gennaro. «I pantaloni stavano in mezzo a quelle fratte».

    Il commissario diresse lo sguardo verso la macchia, poi si piegò di nuovo sulle gambe. Avvicinatosi al cadavere, lo esaminò più attentamente.

    «Deve essere stata una donna poderosa per riuscire a strozzare uno con un collo così».

    Di Gennaro si fletté anche lui. Guardò quei lividi, riuscendo solo a sibilare: «E già…».

    Ventura sollevò prima una mano della vittima, poi l’altra, osservando da vicino se ci fossero tracce nelle unghie.

    «Sembrano pulite e, soprattutto, molto curate», si limitò a dire, continuando ad appuntare tutto. «Copritele con i sacchetti», ordinò, indicando le mani della vittima.

    L’ispettore annuì.

    «Orme?»

    «Come vede, tutt’attorno è un grande impasto di fango».

    «Cercate meglio. La pioggia non può aver cancellato ogni cosa».

    «Abbiamo raccolto alcuni mozziconi di sigaretta, ma potrebbero stare lì da settimane».

    «Lo diranno le analisi. Avete notato segni di trascinamento?»

    «Sembrerebbe di sì, su quel tratto di vegetazione».

    «Scattate, allora, pure su quella parte di terreno e quella depressione», suggerì ai fotografi della Scientifica. «Oltre al vecchio col cane, ci sono altri testimoni?», chiese a Di Gennaro.

    «Al momento, nessun altro».

    In quell’istante, si fece avanti Tazio Morville, un cronista di nera con il dono di arrivare sempre per primo sui luoghi dove s’era consumato un crimine. Lo chiamavano il lupo. Dai suoi articoli traeva spesso spunto per piccole storie gialle che pubblicava, puntualmente.

    La sua attività principale era osservare con attenzione le cose, e mai solo dall’esterno. Estroverso per indole, Morville rientrava fra quelle persone cui non sfuggiva nessun dettaglio.

    «Avete già un’idea?», si rivolse dritto a Ventura.

    «Non manchi mai, tu».

    «Se mi dai qualche particolare, monto un pezzo fantastico, parlerei di te. C’è di mezzo la tua carriera».

    «Senti Morville, li conosco i tuoi pezzi fantastici, pieni d’autocompiacimento. Hanno fatto sembrare questa zona una terra di nessuno».

    «Che dici…?»

    «Dico che non ci serve quel tipo di pubblicità. In quanto alla mia carriera, m’avete massacrato abbastanza, no?»

    «Ma no… lo sai che io non ci ho speculato sulla tua vicenda».

    «Morville, tu devi stare attento. Sempre a cercar trame per quei tuoi quattro romanzetti gialli che non legge nessuno. E adesso vattene, per piacere. Più tardi ci sarà una conferenza, saprai tutto lì».

    Morville fece un cenno con la testa, continuando a scrivere, assorto, sotto un cielo di un grigio madreperla che annunciava altra pioggia. Stavolta l’incursione non era stata fruttuosa. Quella reticenza da funzionario di polizia, però, non avrebbe ostacolato certo la fantasia dell’attento cronista.

    Se non ci fosse stato il rumore del traffico sulla via che circondava il lago, i pendii concentrici sopra lo specchio d’acqua sarebbero potuti apparire come i fianchi di una donna, alle prese con il suo canto. Invece, coperta dal passaggio continuo delle auto, Ventura udì un’altra cantilena femminile ripetere più volte la stessa domanda: «Avete già un’idea?».

    Il commissario vide dietro di sé una ragazza attraente con lo sguardo terso e solare. Indossava dei jeans e un giaccone imbottito. Le guardò i capelli, che portava lunghi sulle spalle, di un colore scuro, come l’acqua del lago. Il commissario non gradiva chi intralciava il suo lavoro, soprattutto sulla scena di un crimine. Un osso duro, i cui metodi gli erano valsi l’appellativo di sceriffo, ma lo sceriffo Ventura con certi sorrisi e certi sguardi si trasformava in un uomo di grandi slanci. Le concesse qualche breve risposta.

    «Commissario, può rilasciare qualche dichiarazione anche a noi? Siamo del tg regionale…», si fecero sotto gli altri.

    «Di Gennaro, hai telefonato in procura?»

    «Sì. Abbiamo il nulla osta».

    «E, allora, fa’ un bel sorriso, c’è la televisione».

    «Potete parlare con me, venite. Sono l’ispettore Antonio Di Gennaro. Scrivetelo bene il cognome».

    «Rimuovete il cadavere», ordinò Ventura.

    «Sissignore», procedettero gli agenti della mortuaria.

    «Scarantino, senti la questura, vedi se è arrivata qualche denuncia di scomparsa».

    «Subito, dottore», rispose il viceispettore.

    Dopo tre quarti d’ora, la scena s’era svuotata. Erano rimasti solo due poliziotti a vigilare. Continuava a piovere. Ventura si trattenne ancora. Camminando sulla riva, un po’ più distante dal punto in cui era stato rinvenuto il corpo, proprio sul lato della boscaglia, dove pareva che qualcuno avesse fatto passare sopra un sacco o un cadavere, il commissario distinse qualcosa. Si riaccucciò. Mosse con le dita la sabbia scura e bagnata del lago. Increspò le sopracciglia, quando vide l’oggetto che ne venne fuori: un rosario. Lo osservò attentamente. Lo tirò su con un fazzoletto e lo mise in tasca. La cosa doveva essere sfuggita a chi aveva setacciato quella parte del lago, e di ciò non si sorprese più di tanto, ma non sfuggì a lui.

    Estrasse il cellulare e, con i polpastrelli ancora insabbiati, chiamò Di Gennaro.

    «Sei arrivato?»

    «Sì, dottore».

    «Novità?»

    «Niente. Lei ha scoperto qualcosa?»

    «Forse un indizio. Poi ti dico. Ci sono messaggi per me?»

    «No, dottore, a parte quello scassapalle di Morville che s’è piantato qui davanti. Dice che aspetta notizie».

    «Tu lascialo aspettare. Ci vediamo tra un po’».

    Si voltò in direzione del bosco, dove i due agenti stavano ricoprendo con teli di plastica il punto in cui era stato trovato il cadavere. Risalì verso la macchina e s’avviò in commissariato.

    Giunto nel suo ufficio, si sedette dinanzi alla scrivania sulla quale era steso un mucchio di carte sparpagliate. Fra i denti un sigaro spento che iniziò a masticare. In mano il telefonino. Compose un numero.

    «Grazie per la bella cerimonia e per le tue parole, monsignore».

    Il timbro distinto e straniero di don Pablo Guzmán rispose dall’altro capo: «Lascia stare. Dove sei?»

    «In ufficio».

    «Ti sei rimesso subito al lavoro?»

    «M’aiuta a non pensare».

    «Ti va di parlare?»

    «Non ora. Ho bisogno di un tuo parere».

    «Su cosa?»

    «Un rosario».

    «Cos’ha questo rosario?»

    «Non ne ho mai visto uno così. Ha i grani a forma di trifoglio, e appesa una croce celtica. Mi sai dire qualcosa?»

    «Lo usano in Irlanda. Soprattutto i sacerdoti».

    Trattenne il toscanello fra i canini appuntiti. Poi, si tolse il sigaro dalla bocca e lo posò nel portacenere.

    «Preti?», sussultò Ventura.

    «Sì».

    «In Irlanda…», mormorò.

    «È una corona particolare, non vedo chi altri avrebbe interesse a usarla se non un irlandese. Perché me lo chiedi?»

    «L’ho trovata vicino a un cadavere».

    «Pensi che sia…».

    «Chi può dirlo», lo interruppe. «Passerò, monsignore. Uno di questi giorni. E parleremo».

    «Aspetta…».

    Spense l’apparecchio, gettandolo in mezzo al caos che regnava lì davanti.

    Prese dalla tasca l’involto, sballottandolo come una palla da tennis. Alzò la cornetta del telefono, sistemato sopra il tavolo, e premette un pulsante.

    «Di Gennaro, vieni nel mio ufficio… Ora».

    Posò tutto, liberandosi le mani. Il fagottino, cadendo sui fogli, disegnò un serpentello incamiciato. Ventura lo scoprì con due dita e, stropicciandosi la mandibola coperta di barba, rimase a fissarlo.

    Tre colpi secchi e legnosi annunciarono Di Gennaro.

    «Entra», ruggì Ventura.

    «Mi dica, dottore».

    «Siediti».

    L’ispettore si mise comodo.

    «Guarda qua. Che ne pensi?».

    Rimase qualche istante con lo sguardo sulla scrivania. Avrebbe preferito sedersi per un caffè, o un cappuccino con le ciambelle, invece di imbarcarsi in quella specie di terzo grado cui ormai era avvezzo, con Ventura. I suoi occhi di un azzurro slavato ruotarono, ricalcando tutto il perimetro di quel tavolo. L’ispettore accarezzò la propria testa calva e con tono smorzato rispose: «C’è parecchio disordine».

    «Dove guardi? Qui devi guardare. Cos’è questo, secondo te?».

    Di Gennaro si protese in avanti.

    «Un rosario?»

    «Guardalo bene. Che ti fa pensare?».

    Il sottoposto si fece più avanti per osservarlo meglio: «Oggi è martedì… Ai misteri dolorosi!».

    «Che minchia dici?»

    «Non lo so, dottore».

    «Stai zitto, allora. All’Irlanda. Guarda. Il trifoglio… La croce celtica… È un rosario che usano i preti in Irlanda».

    «Ah!».

    «Avrà fatto in tempo a passarsi l’olio santo?», chiese con irriverenza Ventura.

    «Dopo tutta quella pioggia che ha preso, gliene sarà rimasto poco addosso», provò ad assecondarlo Di Gennaro. «A parte qualche traccia, l’acqua ha lavato indizi e impronte… E pure quelle poche, ora spariranno del tutto», soggiunse, dopo che un tuono ebbe squarciato il cielo, facendo esplodere un temporale sulla cittadina.

    «Assassino fortunato. Sicuramente, il corpo è stato trascinato su quell’arenile. Almeno per un tratto, stando al solco che abbiamo trovato fra i cespugli».

    «Chissà se quando l’hanno portato giù, era ancora vivo», disse Di Gennaro.

    «Sentiremo che dice l’autopsia. Ascolta, Di Gennaro, ho in mente di andare in un posto dove forse possono darmi delle informazioni. Tornerò per la chiacchierata con i giornalisti, più tardi. Intanto, se qualcuno di loro ti pressa, tu non sbilanciarti troppo».

    «Stia tranquillo».

    «Prova a controllare se sono arrivate in questura denunce di scomparsa di preti».

    «Lo faccio immediatamente».

    «Bravo».

    E l’ispettore se ne tornò, spedito, nella sua stanza. Ventura s’alzò in piedi. Diede un’ultima occhiata alla scrivania, recuperò il telefonino, riprese il sigaro, che riportò fra i denti, e uscì. Mentre attraversava

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