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La tana del polpo
La tana del polpo
La tana del polpo
E-book267 pagine3 ore

La tana del polpo

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Info su questo ebook

Il commissario di polizia Placido Tellurico è un uomo tormentato dai fantasmi del passato, da cui tenta di sfuggire facendosi trasferire nel tranquillo commissariato di Termini Imerese. Noto come "u mazzolu", il martello, ai tempi in cui lavorava alla mobile di Palermo, galleggia adesso in una routine impalpabile, svuotato di ogni slancio vitale. L'apparente tranquillità della cittadina viene però sconvolta dal ritrovamento di un corpo senza testa: per il commissario e la sua squadra è l'inizio di una lunga indagine in cui, per orientarsi, Placido Tellurico dovrà rispolverare tutto il proprio talento deduttivo. Un thriller che assume le sfumature del protagonista, desideroso di trovare la propria personale redenzione e un angolo di pace pur in mezzo alla tormenta di un caso complesso. Un protagonista che sa anche far sorridere nella sua imperfetta umanità, districandosi tra l'affetto per la figlia Frida, gli anziani amici ospiti di un istituto per non vedenti e gli efferati crimini con cui sarà costretto a confrontarsi.
LinguaItaliano
Data di uscita1 giu 2021
ISBN9788893433211
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    Anteprima del libro

    La tana del polpo - Giorgio Lupo

    cover_Lupo.jpg

    © Utterson s.r.l., Viterbo, 2020

    AUGH! Edizioni

    Collana: Frecce

    I edizione digitale: giugno 2021

    ISBN: 978-88-9343-321-1

    Progetto e illustrazione di copertina: Luca Verduchi

    Progetto grafico interni: Stefano Frateiacci

    Questa è un’opera di fantasia. Alcuni nomi, personaggi, istituzioni, luoghi ed episodi sono frutto dell’immaginazione e non sono da considerarsi reali. Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari, organizzazioni o persone, viventi o defunte, veri o immaginari è del tutto casuale.

    www.aughedizioni.it

    Al mio bellissimo, buono e grande papà.

    Ho firmato il contratto editoriale il 19 marzo,

    la seconda festa del papà senza di te.

    Come sempre sei stato tu

    a farmi un regalo e non il contrario.

    So che da lassù mi stai seguendo in prima fila.

    Ti amo.

    Prologo

    «Sono troppi».

    «E se la allargassimo?».

    «Sei proprio un idiota. Non c’è spazio per montarne un’altra».

    Stettero in silenzio per qualche minuto.

    «L’unica soluzione è smaltirli».

    1.

    Mercoledì

    Placido Tellurico tirò fuori le gambe dal letto. Trascinandosi verso il bagno, mise il solito cd e, mentre le note di Tin Pan Alley si diffondevano calde, prese la mira. Prima o poi avrebbe dovuto spostare il lettore da qualche altra parte. Quante case conosceva dove nel bagno ce ne fosse uno?

    Allargò le gambe e si mise in posizione; se faceva centro al primo colpo, di solito, era una giornata buona. Forse fu la concitazione della versione dal vivo, o il finto sparo della calibro quarantaquattro a inizio brano, ma lo schizzo, inesorabile e caldo, fastidioso come una cacca pestata con le scarpe buone, finì sulla sua pantofola viola.

    Imprecò, mentre si sfilava la maglietta e le mutande gettandole sul cumulo di roba sporca. La domestica sarebbe venuta solo la settimana successiva e ci voleva occhio per non fare crollare tutto. Si infilò sotto la doccia.

    Da quando, tre anni prima, Federica aveva deciso di non tornare più da un viaggio di lavoro, si era fatto tutto molto complicato. Ormai di lei gli era rimasta solo una vaporiera e la mail inviata da un internet point di Caracas, in cui informava lui e la loro figlia Frida di avere, finalmente, trovato la propria strada. Aveva allegato una sua foto, sorridente, vestita all’hawaiana, su una spiaggia venezuelana assieme al suo ex capo. Di Caltanissetta.

    Si preparò un caffè alla macchinetta e guardò fuori. Avrebbe visto il mare, se non fosse stato per una delle cinque scale di cui era dotato il palazzo.

    Non era stato sufficiente costruire lo scatolone in cui abitavano per deturpare la città, il genio che lo aveva tirato su gliene aveva messi altri quattro vicini. Com’è che si era pronunciato quel deficiente del sindaco di allora? Palazzo Denver sarà un fiore all’occhiello della comunità, un simbolo del nuovo rilancio di Termini.

    Vaffanculo, si disse, in quella che si preannunciava come una grande giornata di merda.

    Sistemò la pistola nella fondina, controllò che Frida non avesse dimenticato nulla per la gita e, insieme, presero l’ascensore.

    «Quand’è che sei di ritorno?» le urlò.

    «Non ti sento!».

    «Sempre con questi affari nelle orecchie».

    «Cosa?» rispose Frida, staccando gli auricolari.

    A causa dell’alto volume, Tellurico riuscì a riconoscere le note di Bella ciao, nella versione spagnola della Casa di carta. Da quando si era appassionata a quella serie televisiva quel brano era diventato la colonna sonora delle sue giornate.

    «Guarda che la canzone esiste da molto prima che si inventassero il modo di sfruttarla in una serie tv» le spiegò.

    Frida rispose a tono:

    «Papi, lo so benissimo. Ma La casa di carta l’hanno vista milioni di persone in tutto il mondo e la canzone adesso è l’inno di tutti quelli che sono oppressi da qualcosa».

    «E tu da cosa saresti oppressa?» le domandò divertito.

    «Per adesso da niente. Ma la canto per tutti quelli che lo sono».

    ‘Sta bambina è un po’ troppo avanti per l’età che ha, rifletté.

    Immaginò Frida alla testa di un gruppo di popolani incazzati, a rivendicare qualche diritto in un posto misconosciuto del globo, per una causa ancora più misconosciuta e dovette ammettere, con un sorriso, che la cosa gli apparve più che realistica.

    Forse non era la canzone più adatta per un’undicenne, ma dopotutto meglio quella che Violetta e Disney cantando.

    Appena usciti dall’ascensore, si ritrovarono nel lungo corridoio che univa il casermone all’ingresso comune, su cui si aprivano i corridoi delle altre scale.

    Prima di aver fatto qualche metro, vennero investiti dalla voce della signora Ferrandelli.

    «Commissario Tellurico, buongiorno! Sempre di corsa, vero?».

    Il fatto che facesse la portinaia non avrebbe dovuto di per sé autorizzarla a ficcare il naso negli affari altrui, invece dalla sua postazione semicircolare sembrava si sentisse quasi obbligata a sentenziare a destra e a manca.

    «Sì, sto andando in gita» rispose Frida, che nel frattempo si era tolta di nuovo gli auricolari.

    Quella, come un segugio che avesse scovato una preda, si sporse dalla sua postazione, poggiandosi sulla bassa protezione di vetro e facendone scricchiolare pericolosamente i supporti.

    «Brava! Anche io quando ero piccina avrei voluto viaggiare, ma erano altri tempi. A furia di correre dietro alle cose da fare mi sono ritrovata grigia e malmessa, come la carta da parati che c’era a casa di mia nonna. Beata te che hai un papà così attento. Un vero esempio».

    Ci risiamo, si disse con una punta di amarezza. La Ferrandelli aveva ripreso la solita litania di ogni mattina. E quanto era gentile, e quanto era buono, e quanto era bravo come papà e via discorrendo. Se fosse stata vera la metà delle qualità che le uscivano dalla bocca, sarebbe stato il papà dell’anno.

    «E dov’è che andate di bello?» chiese la Ferrandelli.

    «All’antiquarium di Himera» rispose Frida.

    «Bello. Dovrei avere qualche cosa qui, dov’è che l’ho messa? Eccola qua» esclamò dopo aver rovistato all’interno del suo bancone, tra riviste e cartacce impilate. «È un vecchio numero di Focus. C’è un bell’articolo sugli himeresi e sulla storia di Himera».

    Sempre informata su tutto. E adesso anche fornita di materiale turistico: non è un gabbiotto di portineria, ma un centro raccolta e smistamento informazioni, roba da servizi segreti.

    Che poi, se fosse stato per la Ferrandelli i segreti non sarebbero proprio esistiti. In un modo o nell’altro finiva con il sapere sempre tutto. Quando Federica lo aveva mollato, aveva smesso di chiedergli di lei già dal giorno dopo.

    Federica…

    «E comunque tra poco recupererò il tempo perduto» disse, sventolando oltre il gabbiotto un libriccino del Sole 24 Ore. «Ho qui la mia bibbia: c’è scritto tutto quello che devo fare per chiudere baracca e burattini e volarmene via di qui, leggera come una rondine viaggiatrice». Tutt’al più una gallina, e anche bella grossa. «Me ne andrò alle Canarie. Sa che lì, con poco, si campa benissimo? Mi hanno detto di un tizio che ha aperto una gelateria ed è diventato ricco; io invece non lavorerò. Assumerò un bel cameriere mulatto, comprerò una casetta in riva al mare e mi metterò lì a farmi servire e riverire».

    «Dovremmo andare» protestò Tellurico timidamente.

    Quando alla Ferrandelli partiva l’embolo della logorrea non c’era verso di farla zittire. Riprese imperterrita, incurante dell’interruzione:

    «Qui in Italia non valorizzano mica chi ha tanta esperienza come me; anche il fisco si è messo d’impegno per farti pagare fino all’ultimo euro: non ti fanno neanche portare in detrazione la lapide…».

    Esplose in una risata talmente fragorosa da far temere a Tellurico che stavolta il gabbiotto di vetro non avrebbe retto.

    «Già me lo immagino» continuò, sorvolando con la grazia che le era propria sullo sbuffo di impazienza che gli era sfuggito. «Io in pareo, su una bella spiaggia, a farmi baciare dal sole caldo dei tropici. Certo se ci avessi pensato trent’anni fa, i bei giovanotti avrebbero fatto la fila per servirmi. Sa che sono stata per ben cinque volte la regina del Carnevale Termitano? Somigliavo a Sophia Loren. Una volta si figuri che volevano farmi fare un servizio fotografico per non so quale marca di rossetti. Dicevano che il mio viso così perfetto avrebbe dato risalto a qualsiasi prodotto cosmetico. Mio padre piuttosto mi avrebbe chiuso in convento. Ormai è acqua passata. Anche se credo di difendermi ancora bene. Lei che ne dice?» gli domandò, sbattendo le lunghe ciglia e ammiccando con aria seduttiva.

    Adesso vomito, pensò Tellurico indietreggiando di un passo.

    «Mi scusi» sentì dire, dopo aver involontariamente calpestato i piedi di qualcuno dietro di lui. Si girò e una faccia paonazza e minuta lo guardava di sottecchi con imbarazzo.

    «Signorina Letizia, che piacere» tuonò la Ferrandelli.

    «Sì, buongiorno» rispose quella, con un’espressione da animale in trappola.

    «Con la mamma della signorina Letizia siamo grandi amiche, sa?» spiegò a Tellurico, uscendo dal gabbiotto e mettendosi in mezzo al corridoio. «A proposito, come sta?» chiese alla nuova arrivata. «Questa ragazza se non è santa, poco ci manca. Dovrebbe vedere con quale dedizione si prende cura della madre. Se non fosse stato per lei, la povera Anna si sarebbe lasciata andare già qualche anno fa».

    Tenendo per mano Frida, Tellurico si appiattì sulla parete del corridoio, quel tanto che bastava per scansare la Ferrandelli.

    «Dobbiamo andare» si scusò sua figlia, sorridendole.

    Quella, imperterrita continuò a sommergere Letizia di chiacchiere.

    «Sabato, a fine turno, passerò a salutare sua mamma» la sentì esclamare mentre loro si stavano dirigendo verso l’uscita. «È da tanto che non la vedo e mi piacerebbe stare un po’ di tempo insieme. Senza fretta. Magari ordiniamo una pizza. Che ne dice?».

    «Le farà davvero tanto piacere» rispose la malcapitata, con un tono di voce sinceramente entusiasta.

    Contenta lei, si disse Tellurico, mentre guadagnavano la libertà.

    2.

    Stesso giorno

    Dopo qualche minuto arrivarono di fronte al vialetto di ingresso del cortile della scuola. Lasciarono l’auto in doppia fila e con l’orologio che segnava le otto e dieci si diressero verso l’autobus.

    Un gruppo compatto di donne sorrideva e chiacchierava. Erano le mamme della classe di Frida. Non tutte, in verità. Ma quelle che tenevano ancora voglia e tempo di seguire i figli a ogni appuntamento scolastico. Come se fossero rimasti alle elementari. Desperates Housewives, le chiamava Frida.

    Il sottofondo del loro chiacchiericcio riusciva quasi a sopraffare il rumore dei bambini che vociavano. Un esperimento acustico degno di una puntata di Superquark.

    Qualcuna fece cenno verso di loro, mentre tutte, gli sembrò, lo fissavano con aria intenerita e un pensiero non espresso che doveva somigliare pressappoco a: Povero cucciolo, tutto solo a occuparsi della sua bambina.

    Frida gli strinse la mano e gli disse, sorridendo:

    «Sono tutte innamorate del mio papi. Sei il più bello di tutti».

    «Sai che piacere».

    «Finalmente, ben arrivati!» li apostrofò con un sorriso Marta Cinquegrani, la professoressa d’italiano di Frida. Anche quel giorno aveva quella cazzo di luce negli occhi.

    «Buongiorno» rispose Tellurico, con una voce che avrebbe preferito più sicura.

    «Cominciavo a temere che non arrivassi. Come saremmo potuti partire senza di te?» continuò lei, rivolgendosi a Frida e dandole un buffetto sulla guancia.

    Dovrei dirle qualcosa di simpatico, si disse, mentre rimase a fissarle la fossetta che le si creava sempre quando sorrideva.

    Il grigio e l’azzurro di quella giornata si erano mischiati al colore dei suoi occhi. Da qualche parte, in questa fottuta Terra, qualcuno aveva scelto di metterla al mondo e adesso lui era lì e non credeva che potesse esserci nient’altro di così bello.

    «Viene anche lei? C’è un gruppo di genitori che ci seguirà in auto» gli domandò, guardandolo con un’espressione divertita che fece fatica a decifrare.

    «Mi piacerebbe molto, ma ho del lavoro da fare» farfugliò.

    «Meno male che ci siete voi a proteggerci. È bello pensare che in questo mondo impazzito ci siano persone come lei che sono dalla parte dei buoni». Con la mano si sistemò un ciuffo ribelle dietro le piccole orecchie.

    Tellurico si trovò imbambolato a fissarle, sbalordito dalla loro perfezione.

    «Non è sempre così semplice. A volte ho la sensazione di essere salito sul treno sbagliato» si sorprese a risponderle.

    «Capita a tutti di non avere chiara la strada da seguire. A me piace credere che ogni giorno potrebbe essere quello giusto per far accadere qualcosa di memorabile» aggiunse lei, sorridendo.

    È tutto un puttanaio dove ognuno cerca di fregare il prossimo come gli capita, pensò. Le disse invece:

    «Vorrei avere un po’ del suo ottimismo».

    «Credo sia solo una questione di carattere» ribatté lei. «Lo so anch’io che le cose non sono sempre belle, come mi piace credere. Diciamo che cerco di raccontarmela meglio possibile». Guardò il piccolo orologio che portava al polso. «Si è fatto tardi. Dai Frida, che andiamo».

    «Divertitevi» disse lui.

    «Ciao, papi» lo salutò Frida, facendogli l’occhiolino.

    ‘Sta bambina è un po’ troppo avanti per l’età che ha, si disse per la seconda volta quella mattina, mentre si allargava il colletto della camicia.

    Marta prese per mano Frida e con la grazia di una ballerina salì sulla scaletta anteriore dell’autobus. I raggi del sole mattutino si riflessero sui suoi capelli, neri come cioccolato fondente.

    «Buon lavoro, allora!» esclamò lei girandosi, appena prima di sparire dentro.

    Tellurico guardò le sue dita lunghe e sottili muoversi con leggerezza. Chissà com’è l’odore della sua pelle, si disse rimanendo per qualche secondo ad assorbire il profumo che si era lasciata dietro.

    Le risatine delle mamme lo riportarono bruscamente alla realtà: l’autobus era già andato via e si accorse, solo in quel momento, di essere rimasto impalato a fantasticare in mezzo al cortile. Per darsi un contegno salutò goffamente qualcuna che gli sembrò di riconoscere.

    «Buongiorno, commissario» risposero in coro le casalinghe disperate.

    Inforcò i suoi Ray-Ban scuri e assumendo un’espressione da duro si diresse verso l’auto, senza rivolgere loro ulteriori attenzioni.

    3.

    Giovedì

    Appena arrivato in commissariato fu accolto dalla collega all’ingresso.

    «Buongiorno, commissario».

    «Buongiorno, Lucia, coma va la gravidanza?».

    «Procede bene, dottore».

    «In effetti, basta guardarla per avere voglia di rimanere incinto».

    Lucia Schinà scoppiò in un’allegra risata, facendo risaltare il bianco dei denti sulla pelle già abbronzata.

    «Dottore, sto completando il software di cui le avevo parlato». Ricordò che stava lavorando a una specie di Google per le forze di polizia. «Le ore non passano mai e così sto provando a rendermi utile».

    Tellurico si avvicinò per dare un’occhiata al monitor. Una serie infinita di numeri su una schermata blu.

    «Avrei più speranze di tradurre il cinese che capire quello che sta facendo».

    «In fondo non è così complicato» rispose Lucia, schernendosi.

    «Disse l’hacker reclutata in polizia».

    Lucia rise.

    «Quella ormai è storia vecchia. Adesso la cosa più importante è occuparmi del mio piccolo. Se avessi continuato al reparto frodi informatiche, Danieluccio sarebbe cresciuto tra le braccia di mia suocera. Povero piccolo…» concluse, scoppiando di nuovo in una risata argentina che rimbalzò sulle pareti, riempiendo di allegria la stanza. «In più, avevo nostalgia della Sicilia e così ho approfittato del pensionamento del collega Celli ed eccomi qui».

    «La verità è che sempre figlia di sbirra è. E le mancava il lavoro del poliziotto vero».

    «Figlia e nipote. Mio nonno era colonnello dei carabinieri. Non è che adesso sia molto operativa, ma la cosa più importante di tutte è il mio piccolino. Il resto verrà dopo» sorrise, accarezzandosi il pancione.

    «A proposito, quand’è che si metterà in congedo? Dovrò sostituirla con Cirivello».

    «Mi sa che sarà costretto a chiamare rinforzi. Quello, scorbutico per com’è, finirà per fare incavolare qualcuno».

    «E io chiamo i carabinieri e lo faccio portare via».

    «Magari» rispose Lucia, prorompendo in un’altra risata.

    Beata te, che sei riuscita a capire quello che è importante nella vita, si disse Tellurico varcando la porta blindata che conduceva agli uffici.

    Avrebbe voluto avere un po’ della chiarezza di Lucia. Lui, impantanato in un’aria torbida e polverosa, di chiaro non aveva nulla, e negli ultimi anni non ne aveva imbroccata neanche una, o quasi.

    In corridoio, di fronte al distributore di caffè, gli agenti Giacomo Cirivello ed Elvira Germanà stavano discutendo animatamente tra di loro.

    «Sei il solito maschilista becero».

    «Non è colpa mia se voi donne siete buone solo a combinare casini. Ci mancherebbe che faceste pure il lavoro operativo. Quello lasciatelo a noi uomini, che sappiamo il fatto nostro. Fidati!».

    «Illuminante» commentò con tono sarcastico Germanà. «Dovresti brevettarle queste teorie così moderne. Sembri uscito da un documentario degli anni Cinquanta».

    «Sfotti pure. Ha fatto bene Tellurico a lasciare tutto com’era. Il vicequestore Vicedomini la pensava allo stesso modo e come vedi le cose filano lisce che è un piacere. Fidati!».

    «Buongiorno» si intromise Tellurico.

    Sapeva a cosa faceva riferimento Cirivello. Il vicequestore, di cui Tellurico aveva preso il posto, aveva relegato le poche donne del commissariato a ruoli non operativi. Considerata l’attività delinquenziale di Termini, prossima allo zero, Tellurico non riteneva fosse prioritario metterci le mani. Ma, evidentemente, la cosa era stata equivocata.

    «Buongiorno, commissario» risposero quasi all’unisono i due.

    «Cirivè, solo per chiarire. Per quanto mi riguarda siete tutti uguali, che abbiate la gonna o no. Al tuo posto, mi preoccuperei più di lavorare che parlare di come si dovrebbe farlo. Le uniche attività che ti ho visto fare sono girare la paletta nel bicchiere del caffè e organizzare tornei di fantacalcio al telefono. Stai attento, che c’è sempre tempo per metterti ad archiviare verbali nello scantinato. Fidati!».

    Dalla stanza che usavano per raccogliere le denunce e redigere i verbali, fece capolino l’agente scelto Giuseppe Marfisi.

    «Marfì, che abbiamo?».

    «Dottore, c’è Giuseppe Baglioni. L’abbiamo preso questa mattina».

    «E io gli

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