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L'occhio della farfalla
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E-book218 pagine3 ore

L'occhio della farfalla

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Info su questo ebook

Seconda guerra mondiale, 1943. Nina, una ragazza che si affaccia alle soglie della maggiore età, è costretta a sfollare insieme ai genitori da Bologna al lago di Garda, nella Villa di famiglia. Ispirato in parte a una storia vera, il romanzo si svolge su due livelli: da una parte c’è la guerra con la sua ferocia, dall’altra parte l’antica Villa piena di vicende rimaste oscure nel tempo. Vicende di amori, di preti, di ritrovati entomologici, di esperimenti medici. In quest’ atmosfera sospesa, qual è il lago di Garda negli anni che vanno dal 1943 al 1945, gli anni della Repubblica Sociale, Nina insieme a chi è sfollato come lei nell’antica casa, comincia l’esplorazione dei misteri della villa e di chi l’ha abitata nei secoli portando alla luce la verità sulla sua famiglia.
LinguaItaliano
EditoreEthesia
Data di uscita21 mar 2022
ISBN9791221314311
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    Anteprima del libro

    L'occhio della farfalla - Costanza Savini

    1. 31 Dicembre 1942

    Quella notte di giovedì Bologna era coperta da un leggero strato di neve. Per quanto le strade fossero immerse nel buio e nel silenzio per il coprifuoco, della luce filtrava lo stesso dalle persiane abbassate. Nelle case la gente si era riunita per festeggiare la fine dell’anno nell’allegria un po’ forzata del tempo di guerra.

    La luna proiettava la sua luce di zucchero fuso sui tetti. Nina, guardandola dalla finestra del salotto, si immaginò di staccarne un pezzo d’argento, metterlo in bocca e masticarlo come un pane speciale fatto di luce. Alla fine, formulò il suo desiderio: che nel 1943 la guerra magicamente finisse.

    Quella sera in casa si beveva il Luxardo, un liquore a base di alcol e ciliegie proveniente da Zara, colonia italiana sulle coste dalmate, e si ascoltava la musica in onda su Radio Igea. L’apparecchio radio che si trovava in salotto era color azzurro Savoia, con le manopole color canna di fucile. Emetteva un suono pieno, caldo e armonioso.

    Nina si annoiava, così a un certo punto prese una pantofola di raso rosso della madre per fare il rito, uno dei tanti che si fanno ancora oggi in giro per l’Italia la notte di Capodanno per vedere se il nuovo sarà un anno fortunato o meno. Salì al piano di sopra dove si trovavano le camere da letto e da lassù, dando le spalle alla scala e tenendo gli occhi chiusi, gettò giù la pantofola. La raccolse, la gettò di nuovo e via ancora; la riprese in tutto per tre volte di seguito, ma ogni volta la pantofola cadde ribaltata con la parte di raso rosso all’ingiù e il tacchetto rivolto verso l’alto: senza dubbio, un brutto segno, pensò Nina.

    Alla fine dei programmi la radio mandò in onda le note di Lili Marleen : «Tutte le sere / sotto quel fanal / presso la caserma / ti stavo ad aspettar. / Anche stasera ti aspetterò / Che cosa mai sarà di me? / Ma poi sorrido e penso a te / a te Lili Marleen / a te Lili Marleen».

    Quella sera, Paolo, il padre di Nina, aveva un’emicrania martellante per via dei pensieri che gli si affollavano nella testa da giorni, e non faceva che accendersi una sigaretta dietro l’altra.

    La guerra durava da tre anni, le cose stavano mettendosi in modo diverso da quanto propagandato dal regime, e Paolo non faceva che chiedersi se non fosse arrivato il momento di trasferirsi a Costermano, il paese sul lago di Garda dove era nato e dove si trovava la casa di famiglia.

    Per questo da un po’ di tempo, la sera, srotolava sul tavolo della sala una cartina geografica, e su quella carta che occupava il posto della tovaglia, disegnava con la stilografica linee, croci, cerchi per segnare le tappe del viaggio da Bologna a Costermano.

    «Fatta poi la strada costiera e i paesi della riva, c’è l’interno: da Garda a Costermano» diceva curvo sulla mappa, come a voler sprofondare nell’azzurro dei fiumi e perdersi nel verde dei campi.

    Paolo era alto e di un magro quasi nervoso, la muscolatura del suo corpo era stata modellata dal lago, dal tempo trascorso da ragazzo a nuotare nelle baie e a remare tra i porti delle rive. C’era nel suo aspetto e nel suo modo d’essere qualcosa di estremo, di assoluto. Qualcosa che era insieme la sua vulnerabilità e anche la sua forza.

    Violante, invece, sua moglie e madre di Nina, lo ascoltava e un po’ fantasticava per conto suo. Vedeva il cancello della villa che si trovava proprio sulla terribile curva a gomito, all’ingresso del paese. Ne vedeva le punte arrugginite con in cima la doppia N dei Nicolis e il canneto all’inizio del giardino circondato dai muri, coi contadini che spruzzavano il verderame sui vigneti intorno. Vedeva l’ingresso principale con le due palme, i camerun , che raggiungevano l’altezza del primo piano; ci avevano impiegato almeno una ventina d’anni per arrivare fin lassù.

    «I pericoli sono tanti, sia a restare che a partire! – diceva Paolo sempre fumando come un turco – Se rimaniamo qui in città, prima o poi finiamo anche noi sotto qualche bomba; se ce ne andiamo, invece, c’è il viaggio da affrontare, ma una volta lassù saremo più al sicuro».

    Violante se ne stava in silenzio, entrambe le soluzioni la spaventavano a morte. Perciò, preferiva pensare alla stoffa amaranto per tappezzare il divano del salotto, o a come montare lo zucchero giallo sbattendolo con la polverina di tuorlo d’uovo per rendere spumosa la crema di zabaione. Insomma, sciocchezze di questo genere.

    Aveva quindici anni meno di Paolo e un’imperfezione curiosa per la sua età, una particolarità che prendeva in lei i tratti di un vezzo intrigante: una fitta trama di vene azzurrognole traspariva dalla pelle chiara e delicata delle sue braccia, e arrivava fino alle mani formando intrecci simili ad anelli verdeazzurro o bracciali di giada.

    I giorni, i mesi intanto passavano senza che Paolo prendesse una decisione. Andarsene avrebbe significato mollare ogni cosa: la casa, i mobili e soprattutto il suo lavoro nelle campagne dell’Emilia-Romagna, per il quale, anni prima, aveva lasciato Costermano con la famiglia. Non solo aveva partecipato alla bonifica delle paludi infestate di zanzare e afflitte dalla malaria, ma il governo lo aveva dispensato dal prestare il servizio militare e lo aveva incaricato di occuparsi esclusivamente della produttività agricola delle terre bonificate: perché la gente doveva mangiare. Dover lasciare tutto all’improvviso, quindi, era come aver lavorato per niente, senza considerare che due dei suoi tre fratelli si trovavano ancora al fronte e di loro non si sapeva quasi nulla.

    ***

    Nina invece si era abituata a vedere il cielo costellato di aerei e, anzi, quasi non le dispiacevano affatto. Le formazioni di bombardieri inglesi e americani, le cosiddette fortezze volanti, le sembravano stormi di uccelli giganteschi dalle ali d’argento.

    Di giorno, a Bologna, la vita era scandita dall’ululato improvviso delle sirene che avvisavano del pericolo di un bombardamento imminente. Quasi in modo automatico la gente correva verso quel mondo parallelo e sotterraneo fatto di cantine e nascondigli, in cui restava chiusa anche per ore, uscendone alla fine intossicata per la muffa e stordita per la paura. La cosa più strana dei rifugi, secondo Nina, era che quando ci si entrava, di punto in bianco cominciava una vita a sé, tutta diversa, di cui nessuno poteva dire la durata: mezze ore, ore intere o, quando le bombe bussavano alle porte di quelle città del sottosuolo, anche un’eternità. Insomma, nei rifugi il tempo si fermava.

    Di notte invece, per evitare gli attacchi aerei, le autorità avevano imposto il coprifuoco sin dall’ora del tramonto, con l’obbligo di oscuramento dei centri abitati. Così non appena arrivava la sera Bologna si nascondeva nel buio. Le strade, deserte, sprofondavano nelle tenebre, e le case e i palazzi diventavano invisibili. Per evitare che la luce delle abitazioni filtrasse all’esterno, si tappezzavano i vetri delle finestre con strisce di carta azzurra, o, come aveva fatto Nina, con le pagine dei suoi Topolino di quando era bambina. Inoltre si era data da fare a coprire con una specie di cuffia bucata i fanali della sua bicicletta e i fari dell’auto del padre. Lo aveva aiutato a tingere con la vernice Ducolux, dal riflesso bianco azzurro, i parafanghi, il radiatore e i paramenti della Fiat 1500, in modo che l’auto, con quella vernice luminescente, potesse circolare anche dopo il tramonto, rendendosi visibile ai pedoni e agli altri automezzi, ma invisibile dall’alto. Di notte perciò la città si mimetizzava, assumendo sembianze spettrali per nascondersi alla morte che sarebbe potuta piombare dall’alto al minimo richiamo, come una lampada elettrica lasciata accesa per un errore. Così ogni sera dopo cena, mentre Paolo era tutto preso a studiare la cartina geografica per il viaggio a Costermano e Violante era occupata a riempire di canfora puzzolente qualche vecchio maglione diventato prezioso, Nina spiava dalle persiane del salotto la strada deserta con in giro gli uomini della milizia di sorveglianza.

    Adesso, con la guerra, di notte sembra di vivere sotto le ceneri di un vulcano sempre acceso pensava tra sé. Quella di spiare dalle finestre la vita all’esterno era un’abitudine che aveva anche nella casa di Costermano. Spesso, di sera, quando scendeva il buio, le piaceva stare a guardare. I vetri della stanza da pranzo creavano un effetto magico, come vedere attraverso un sogno o una lente di ingrandimento speciale il bosco, il parco e l’intera campagna.

    2. Settembre 1943

    I mesi passavano e la guerra, ormai, era diventata come una malattia contagiosa. Per l’Italia e la Germania poi le cose si erano fatte più pesanti.

    Nina aveva sentito dire in casa che non solo la campagna nei Balcani e in Africa settentrionale era stata un fallimento, ma anche quella di Russia, dato che i soldati non erano stati equipaggiati per marciare sulla neve a meno quaranta gradi sotto zero. Combattere in quelle terre bianche e desolate per gli italiani era come avanzare senza una meta su dei campi lastricati di vetro. Eppure lo zio Eugenio, pensava Nina, nei mesi sul fronte russo, era riuscito lo stesso a far arrivare in Italia dei regali speciali. Per Paolo la spada dell’invincibile Michelì (chi fosse veramente questo Michelì non era per niente chiaro, e così alla fine si era deciso per un nobile russo), per zia Ottavia, sua sorella, un anello con un rubino rosso come la carne e il sangue, che la zia non si toglieva mai di dosso neanche per andare a dormire, tant’è che, come si diceva in casa, un ladro, per prenderglielo, avrebbe fatto prima a tagliarle il dito.

    Il Paese era in guerra ormai da tre anni, da quel 10 giugno del 1940, quando Mussolini ne annunciò l’entrata al fianco dei tedeschi e dei giapponesi, contro l’Inghilterra e la Francia.

    L’anno successivo Mussolini e Hitler dichiararono guerra anche agli Stati Uniti, e il conflitto si trasformò a tutti gli effetti in una guerra mondiale.

    A questo punto l’Italia dovette contare sulle proprie risorse, dato che la Gran Bretagna e le nazioni alleate avevano istituito un blocco economico nei confronti dei Paesi dell’Asse. E quindi fu necessario razionare le scarse materie prime e i prodotti alimentari nazionali.

    Quando la domestica di casa andava a fare la spesa, come tutti, utilizzava la carta annonaria, una tessera composta di bollini con cui si potevano acquistare solo alcuni generi alimentari nella quantità stabilita dal governo. Le file nei negozi duravano anche ore. Al posto delle uova comprava l’Ovodin, una polverina dal colore malaticcio che sostituiva il giallo dei tuorli d’uovo. Al posto del caffè prendeva quello che Nina chiamava il caffù, orzo macinato o cicoria. Il pane bianco non c’era più, sul mercato si trovava solo quello di mais che era difficile da digerire, oppure quello nero da masticare a lungo in modo che la crusca non si fermasse nella gola. Il latte scarseggiava. Soltanto con la ricetta del medico era possibile procurarsi della farina lattea Nestlé, oltre alla dose giornaliera di latte fresco che il governo consentiva con la tessera.

    Per quanto si trattasse solo di qualche anno prima, a Nina sembravano secoli quando nella casa di Costermano, a seconda della carne da cucinare, si accendeva un fuoco diverso. Per la nonna Sofia ogni carne «voleva la sua legna»: le beccacce, per esempio, infilzate allo spiedo, andavano su braci di vite, fatte ruotare sul fuoco con un marchingegno a manovella e un lungo piatto sotto, la leccarda, in cui si raccoglieva il grasso che gocciolava dentro, per poi farlo colare di nuovo sulle carni così da condirle bene. Per via della guerra, invece, di carne non se ne vedeva più, al punto che era difficile perfino ricordare il sapore di una bistecca.

    Mancava anche il combustibile, perciò la gente affamata e tormentata dal freddo, per riscaldarsi, abbatteva i tigli lungo i viali, gli enormi ippocastani dei Giardini Margherita e gli altri alberi dei giardini pubblici e privati di Bologna.

    Il 9 luglio del 1943 gli Alleati sbarcarono in Sicilia per risalire la penisola e liberare così il Paese; il 25 Mussolini fu rimosso dalla carica di capo del governo e arrestato su ordine del re Vittorio Emanuele III. Il giorno dopo Il Resto del Carlino intitolò la prima pagina «Il re prende il comando di tutte le Forze Armate». Da quel momento, fino all’autunno, si perse ogni traccia di lui. C’era chi lo vedeva in un posto, chi in un alto, anche se Mussolini continuava a non essere da nessuna parte. Violante lo aveva visto perfino in una suora che faceva l’elemosina fuori dalla chiesa e che gli assomigliava come una goccia d’acqua, per via del mento squadrato e del gran testone da romagnolo. «Ho incontrato suor Benita oggi… è il Duce vestito da suora!» diceva ridendo con le amiche.

    Ma per quanto ci fosse chi come Violante non voleva guardare in faccia la realtà delle cose, la situazione stava cambiando con una rapidità spaventosa.

    Una volta arrestato Mussolini, il maresciallo Badoglio prese il suo posto come capo del governo e l’8 settembre rese pubblico l’armistizio, cioè la resa firmata con gli angloamericani, gli stessi che fino al giorno prima erano stati i nemici degli italiani. Da quel momento, quindi, tradito l’alleato tedesco, l’Italia, in apparenza libera, precipitava in uno strano e sinistro clima di festa.

    In quei giorni tra luglio e settembre le piazze si riempirono di una folla eccitata, che aveva confuso la caduta di Mussolini e il tramonto del fascismo con la fine della guerra. La gente si liberava dei simboli del regime: i fasci littori, le aquile romane e i busti del Duce precipitavano giù dai palazzi pubblici e finivano a terra in pezzi.

    Eppure, nonostante l’allegria generale, Paolo era certo che si stava preparando qualcosa di pesante, e il viaggio a Costermano non poteva più aspettare.

    3. Inizio Ottobre 1943

    Nonostante l’aria di festa che si respirava nelle città, la guerra non era finita, anzi, come Paolo aveva in qualche modo intuito, in Italia ormai stava per scoppiare la guerra civile.

    Nel settembre di quell’anno, la radio diede la notizia che Mussolini era stato liberato dai tedeschi, e sulle ceneri dello Stato Fascista aveva fondato, nel Nord d’Italia, la Repubblica Sociale con sede a Salò, proprio sul lago di Garda. La nuova Repubblica era in totale contrasto con la monarchia, che dopo l’8 settembre era stata accusata di tradimento, tanto dai fascisti che dai tedeschi, per aver firmato l’armistizio con gli angloamericani.

    Mussolini annunciò la costituzione del nuovo stato dai microfoni di Radio Monaco in autunno. Annuncio che anche Nina ascoltò insieme ai suoi genitori.

    «Camicie nere, italiani e italiane, dopo un lungo silenzio ecco che arriva a voi la mia voce...» queste furono le prime parole del suo discorso alla radio.

    «Non ti pare che la sua voce sia più bassa, più debole... come spenta?» domandò Paolo a Violante.

    «Sì, hai ragione. Sai che non l’avevo riconosciuto? E pensare che era un uomo tutto forza e vigore, e che voce che aveva!»

    In effetti, dopo il colpo di stato di Badoglio, con la rimozione di Mussolini dalla carica di capo del governo e la sua prigionia sul Gran Sasso, non solo la voce e l’aspetto di Mussolini erano cambiati, ma anche la posizione dell’Italia.

    Non era facile rendersi conto però di come stessero veramente le cose. La radio ufficiale, quella della Repubblica Sociale, trasmetteva dei bollettini di guerra diversi dai notiziari di Radio Londra, la radio degli angloamericani su cui Paolo sintonizzava l’apparecchio di sera, a imposte ben chiuse per via dell’OVRA, la polizia segreta del regime, che se avesse scoperto la cosa sarebbero stati guai.

    Quasi ogni sera dopo cena, mentre Nina impastava in una tazzina da caffè dei petali di rosa con l’olio, per ricavarne del lucidalabbra da mettersi ai festini a cui andava, e Violante leggeva l’Illustrazione Italiana con le novità della moda di guerra, Paolo tra fruscii e interferenze d’ogni tipo sintonizzava l’apparecchio su Radio Londra.

    Sulle prime si sentivano i colpi di una marcia militare che ricordava vagamente la Quinta di Beethoven, poi seguiva il «Buonasera» del colonnello Stevens che arrivava da lontano, con voce calda e amica. Da quel momento nella penombra, come un sussurro continuo, si diffondevano per il salotto i messaggi in codice del colonnello: «Le pecore sono bianche», «L’orologio va», «Il gallo canta», messaggi speciali diretti ai partigiani sulle montagne.

    Così, raccogliendo le diverse notizie delle due stazioni radio, Paolo era riuscito a farsi più o meno un’idea della situazione generale.

    Era chiaro che l’Italia era spezzata in due: repubblichini e tedeschi da una parte, inglesi e americani dall’altra. La Wehrmacht con a capo Kesserling era discesa dal Nord per invadere il Paese, accusato, dopo l’armistizio dell’8 settembre, di tradimento nei confronti della Germania. Nelle regioni dell’Italia meridionale, invece, erano sbarcati gli Alleati che risalivano lentamente la penisola. Intanto il re e Badoglio, che dopo l’armistizio temevano le rappresaglie dei tedeschi, erano scappati a Brindisi, dove Vittorio Emanuele III aveva

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