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Le notti d'Iris
Le notti d'Iris
Le notti d'Iris
E-book288 pagine4 ore

Le notti d'Iris

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Info su questo ebook

Le notti d'Iris" è il primo episodio di un opus, incentrato sulla vita movimentata e talvolta drammatica di un bambino solitario e selvatico, clandestino nella quotidianità di un villaggio costiero. È ambientato in un periodo che va dalla primavera all'autunno del 1978. Rimasto orfano, Iris intraprende un'esistenza selvatica, rinunciando in modo spontaneo a domandare aiuto agli abitanti del villaggio, ch'egli sente come nemici. Dotato di un intuito animale, Iris percepisce la falsità degli adulti, dietro alla maschera di perbenismo ch'essi indossano ogni giorno. Egli sopravvive nascosto nella casa familiare, uscendo soltanto di notte, per cercare resti di cibo. Animato da quell'essenza ferina e innocente che lo rende unico, Iris è combattuto fra il richiamo della libertà e il bisogno di affetto. Ciò lo fa innamorare di una voce, giunta d'improvviso dal giardino della casa accanto. Egli prova così il suo primo amore e vive in modo traumatico la sua sessualità precoce. La sua naturale ingenuità e la sua purezza, che traspaiono dal suo sguardo, in contrasto con la crudezza dei suoi atti, lo rendono un personaggio accattivante.

LinguaItaliano
Data di uscita27 mar 2019
ISBN9788831612333
Le notti d'Iris

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    Le notti d'Iris - Max Careddu

    La soffitta.

    Nella soffitta l’aria era immobile.

    Dai piccoli lucernai filtravano due raggi di luce bigia, che s’incrociavano nel mezzo della stanza, senza pertanto riuscire a rischiararla pienamente.

    Persino il pulviscolo, sospeso in quel lucore stinto, pareva fisso nel tempo, come una silente via lattea.

    Sotto il tetto spiovente, fra le massicce travi di legno, la penombra s’impastava con la calura del primo pomeriggio; negli angoli più infimi e nascosti, macchie di buio si appiattavano come mostri in agguato, intenti a spiare vecchi burattini abbandonati, che, tuttavia, rimanevano stoici ed ignari, con le loro espressioni sorprese e grottesche.

    Anche quei personaggi coloriti, accasciati qua e là, sembravano essere vinti dalla canicola che toglieva ogni energia e velleità, imponeva il silenzio fino alle stradine deserte del villaggio.

    Eppure, sebbene la folta famigliola dei pupazzi apparisse spossata dalla canicola, le facce giulive sembravano ammirative dell’ardore dell’estate.

    Del resto, i coloriti e muti abitanti della soffitta avevano tutto il tempo per contemplare l’estate, poiché il calore sembrava dilatare il tempo, fino ad infondere la sensazione che questo si fosse fermato.

    Tuttavia, da lontano giungeva il suono del mare, a rammentare lo scandire del tempo: in un immenso crescendo, le onde salivano fino al culmine della loro forza, per poi estinguersi e risorgere un attimo dopo. 

    Sotto uno di quei raggi di luce che dai lucernai tagliavano la penombra, un pagliaccetto dal viso tondo e infantile stava, da anni, adagiato su una sedia a dondolo. Sembrava ammirare le nuvole, con quella sua espressione che un tempo era stata malinconica; stagione dopo stagione, le meraviglie viste attraverso quelle finestrelle gli avevano fatto perdere gli occhi, abbagliati, sbiaditi dal sole d’estate.

    Ciononostante rimaneva lì, ancóra rapito dallo spettacolo cangiante del cielo, come se il fatto di essere ormai cieco rendesse il sogno più affascinante della realtà.

    Tutt’intorno a lui giacevano vecchi bauli ed oggetti di altre epoche, ricoperti dalla polvere del tempo, in paziente attesa di ritrovare la loro utilità.

    In un angolo, un manichino vestito di un abito da sposa aspettava un improbabile Principe Azzurro.

    Quell’abito era ormai ingiallito, così come il ricordo di quell’ unica giornata di festa da esso vissuta, polveroso come le speranze della sposa che l’aveva esibito, con fierezza, davanti alla chiesa, sotto agli sguardi lieti ed invidiosi dell’intero villaggio.

    Ma il Principe Azzurro ancóra non era in vista e il manichino, in quel momento, stava guardando una figuretta seduta sul piancito, accanto al pagliaccetto cieco, confusa fra le forme inanimate tutt’intorno.

    Attraverso le nubi s’insinuò un raggio di sole, che illuminò una chioma di riccioli neri.

    Come se fosse quella luce a renderle la vita, la figuretta alzò lentamente il capo.

    Il sole illuminò un musetto da bambina, due occhi tristi, scuri come la notte, che pure brillavano di vita; una musica surreale s’insinuò nella penombra, insieme ad una voce dolcissima: Danza Iris…danza, cuore mio.

    A quell’invito la figuretta si alzò e cominciò a danzare:

    sul piancito, ombre misteriose prendevano vita, creature fantastiche si muovevano graziosamente, rievocate da un sogno perduto nel tempo.

    In un baccanale di fate voluttuose ed elfi androgini, Iris danzava intorno al fuoco dei Guerrieri Piumati e, sotto gli sguardi ardenti dei loro pony pezzati, mimava l’uccisione del lupo, accedendo così al rango di uomo e meritando il premio della lussuria.

    Le sensuali Ancelle del Meriggio Torrido, in punta di fragole rosse, invitavano al sabba dell’ardore; le lascive Sirene dei Boschi, dalle insenature procaci, esortavano alla brama.

    Il piccolo selvaggio dai riccioli neri cadde in ginocchio in un fremito convulso, lasciando piovere sulla polvere una viscosa goccia di luna, prima espressione involontaria di una virilità non cercata e non voluta.

    Poi si lasciò andare all’abbraccio delle fanciulle d’etere e cominciò l’ascesa vorticosa, fino all’Olimpo dell’Oblio.

    Il sole si nascose dietro una nube e la musica si spense nell’ansito della marea, mutandosi nella voce sublime della ragazzina della casa accanto. 

    I nuovi vicini.

    L’auto s’infilò con decisione nel sentiero, facendo scricchiolare la ghiaia.

    Un uomo elegante e sicuro di sé, con un gesto pretenzioso, aprì lo sportello e rimase alcuni istanti, sorridendo soddisfatto, a contemplare quella che sarebbe stata la sua nuova dimora, quindi girò intorno alla vettura, con passo spavaldo, per aprire la portiera del passeggero.

    Come l’usciere d’un Grand Hotel, porse la mano ad una signora elegante, aiutandola a scendere dal veicolo lussuoso, poi, come ricordandosene all’ultimo momento, aprì anche una delle porte posteriori, per fare scendere una ragazzina.

    Questa si affaccendò per sbarcare un seggiolino in cui una bimba sgambettava, alquanto irrequieta.

    Dalla finestra di una casetta, sull’altro lato della strada, il signor Giovanni osservava la scena con la curiosità di un portinaio.

    - Vieni a vedere, Maria. I nuovi vicini sono arrivati. E non immagini chi è tornata. - 

    Una donnona, con i capelli grigi avvolti intorno ai bigodini e con indosso un abito a fiori, di quelli comprati al mercatino del villaggio, arrivò sciabattando.

    - La piccola Sara ?! E che ci fa di nuovo qui, con quella gente ?! E ben…hanno l’aria di essere dei gran signori ! - commentò, asciugandosi le mani nel grembiale.

    - Vado a dargli il benvenuto, tanto per fare conoscenza. - disse il signor Giovanni, nascondendo, dietro a quel proposito di squisita accoglienza, la sua indiscreta curiosità.

    L’uomo elegante tornò indietro per richiudere il cancello e si trovò di fronte un omino di una certa età, con i radi capelli ormai quasi bianchi.

    - Buongiorno. - lo sentì dire - Abito nella casa di fronte, vi ho visto arrivare e ho pensato di venire a porgervi il benvenuto. -

    Con un sorriso professionale, l’uomo elegante porse, dall’alto, la mano al signor Giovanni.

    - Piacere: Giorgio, avvocato. - 

    - Il piacere è mio. Mi chiamo Giovanni. - rispose l’omino, un tantino irritato dalla precisazione circa lo statuto sociale del suo interlocutore e, soprattutto, piccato per il disdegno ostentato dalla signora, che aveva voltato le spalle, per poi dirigersi verso l’ingresso, seguita dalla ragazzina.

    - Se avete bisogno di qualche cosa, non esitate a chiedere, sono un po’ il tuttofare del quartiere. - aggiunse l’omino, nonostante si sentisse offeso, di fatto, proponendo i propri servigi tanto per rendersi interessante agli occhi dell’avvocato, più che per una sincera intenzione.

    - Grazie molte, lo terrò presente. - rispose il nuovo vicino, che adesso stava guardando, con aria pensierosa, la casa poco lontano dalla sua, visibilmente abbandonata.

    - Quella casa...è abitata ? - domandò con un velo d’inquietudine nella voce.

    - Non ci abita più nessuno da quattro anni. È chiusa, da quando il mio amico Bruno è mancato. Eravamo vecchi amici, dai tempi della scuola. Eravamo camerati nelle squadre d’azione. - aggiunse, in tono fiero. - È morto per uno stupido incidente: cadendo dalla scala, mentre potava gli alberi del giardino. Suo fratello, che vive in Germania, è venuto per chiudere la casa e da allora non si è più visto. Il mistero di tutta la faccenda è che il nipotino non lo si è più visto anche lui. Viveva con il nonno, perché era diventato orfano: i suoi genitori sono morti in un incidente d’auto. Un brutto incidente. -

    Il signor Giovanni non mancava mai di aggiungere quella precisazione:

    un brutto incidente…come se un incidente mortale ne avesse bisogno.

    - Nessuno sa dove sia andato a finire quel bambino, scomparso proprio il giorno dell’incidente accaduto al nonno. Qualcuno dice che sia morto e che il suo fantasma abiti ancóra in quella casa. -

    - Ma via, non crederete ancóra alle storie di fantasmi ! -

    - Chi lo sa ? Comunque sia, corrono le voci che qualcuno abbia sentito dei rumori strani provenire da quella casa. Dei ragazzi dicono addirittura di avere visto delle ombre muoversi dietro alle finestre… -

    - Suvvia ! Le case abbandonate danno sempre l’impressione di essere abitate dai fantasmi. E poi, gli edifici, soprattutto quelli con il tetto all’antica, producono sempre dei rumori, a causa della dilatazione e contrazione dei materiali. Inoltre, i cambiamenti di luce, i movimenti delle nuvole, possono dare l’impressione di ombre che si muovono. Per non parlare della fantasia dei ragazzini... -

    Eppure, mentre pronunciava quelle parole, continuava a fissare la casa, con quell’espressione preoccupata e, per un attimo, gli parve di vedere qualcosa muoversi dietro le imposte chiuse.

    - …che si muovono… - ripeté, in un mormorio, come se parlasse fra sé e sé.

    - Vi sentite bene, signor avvocato ? - domandò il signor Giovanni.

    - Perfettamente ! - rispose quell’altro, tornando improvvisamente alla realtà e nascondendo il proprio imbarazzo.

    - Bene, allora arrivedervi, avvocato. -

    - Arrivederla… - rispose il signor Giorgio, sempre con lo sguardo rivolto verso la casa abbandonata.

    L’ora delle volpi.

    Notte fonda. Il villaggio dormiva, infine.

    Era l’ora delle volpi che uscivano per cercare qualcosa da mangiare, perfino nei bidoni dei rifiuti. Come i ragazzini abbandonati.

    Un ombra uscì da uno dei due lucernai che si aprivano sul tetto della casa dei fantasmi.

    Scivolò giù, fino ai rami di un grande olmo, si calò aggrappandosi ad una corda e scomparve fra le erbacce alte del giardino.

    I giardini sono una benedizione: ci si può spostare da un luogo all’altro, a volte persino di albero in albero, oppure nascondersi dietro ogni siepe o cespuglio.

    Nessuno aveva dovuto spiegarlo al piccolo Iris che, con l’istinto di un animale, si era adattato a quei mondi selvaggi in miniatura: muoversi di soppiatto fra la vegetazione gli era venuto in modo assolutamente naturale, così come camminare sui tetti.

    C’erano, in quella cittadina, dei complessi di villette gemelle, costruite di recente, collegate le une alle altre da scorci di tegolati, terrazze e balconi.

    Iris aveva scoperto che poteva perlustrare una buona parte del villaggio senza dovere mai scendere dai tetti o esporsi in strada; con il tempo aveva sviluppato una certa forza e agilità nell’arrampicarsi su alberi, ringhiere e grondaie, come una specie di bimbo della giungla.

    Si muoveva a suo agio in quello che era il suo ambiente: un mondo appena accanto, o solo un po’ più in alto, rispetto a quello degli abitanti del villaggio, eppure così lontano e diverso.

    La fase più delicata della sua caccia notturna l’affrontava quando doveva scendere per frugare nelle pattumiere: in quel momento doveva abbandonare il suo mondo per entrare in quello degli altri.

    I bidoni dei rifiuti sembravano essere costruiti apposta per fare rumore quando si rimestava dentro, ma, nonostante ciò, usando tutte le precauzioni, non si era mai fatto prendere in fallo.

    Perlomeno, fino a quel momento…

    Ad ogni modo, Iris contava sul fatto che se gli abitanti del villaggio fossero stati svegliati da un rumore di bidone, avrebbero sicuramente dato la colpa alle volpi. 

    C’era una sola cosa di cui Iris aveva paura, durante le sue scorribande notturne: gli uomini-lupi.

    Una frase, pronunciata da suo nonno, l’aveva segnato per sempre, più di tanti altri propositi che quell’uomo temibile gli aveva lanciato ogni giorno, come: Piantala di fare la femminuccia, oppure: Sei un fannullone come tuo padre

    Un giorno, il vecchio aveva abbaiato quella frase:

    Io, alla tua età, ero già un Figlio della Lupa, ed è tutto dire !

    Malgrado la sua ingenuità, Iris aveva avuto l’impressione che quel tutto dire, in realtà, volesse dire assolutamente nulla.

    Per contro, nel suo candore di bambino, si era immaginato il nonno in mezzo ai lupi, coperto di peli bianchi e grigi, così come l’aveva sempre conosciuto, poiché per il piccolo Iris era impensabile che una creatura così burbera avesse mai potuto essere un bambino.

    Del resto, quella pelliccia folta e canuta che spuntava dal collo della camicia e che risaliva fino al muso arcigno dell’uomo, non era forse una prova della sua appartenenza a quella specie ?

    Il suo carattere scontroso, quel suo modo di latrare gli ordini e le invettive, non erano un’eredità della sua vita passata con le belve ?

    Una visione grottesca e bestiale, benché frutto della fantasia, perseguitava Iris: quella di suo nonno, a quattro zampe, ululando bestialmente alla luna.

    Prima di vivere con lui, Iris aveva udito parlare, di sfuggita, degli uomini-lupi, intravisto l’immagine di una di quelle creature, carpita di nascosto da un vecchio film in bianco e nero.

    Era accaduto la prima volta che si era alzato di nascosto dal suo lettino, trasgredendo alla regola dell’ Ora-della-nanna.

    Ma dopo avere visto, sullo schermo televisivo, la sequenza dell’uomo che si trasformava in lupo, aveva deciso che quella sarebbe stata la sua ultima trasgressione alla regola.

    Del resto, quella era anche stata l’ultima volta che aveva rivolto gli occhi al televisore: anche se spenta ed inanimata, quella era la scatola che conteneva il mostro peloso. 

    Quando i suoi genitori erano morti, Iris aveva appena quattro anni.

    Era stato affidato al nonno e quella che prima era stata una figura incostante, semplice comparsa, da un giorno all’altro era divenuta la sua unica realtà.

    Quell’uomo gli era subitamente parso burbero, stizzoso ed autoritario, avvezzo a mostrare quel suo carattere parlando con un vocìone tonante e militaresco, che lui aveva ben presto cominciato a temere.

    Per di più, dal giorno in cui Iris aveva scoperto che suo nonno faceva parte della specie degli uomini-lupi, ne era rimasto addirittura terrorizzato, così che aveva cominciato a nascondersi in un posto che lui soltanto conosceva: durante le sue perlustrazioni aveva scoperto, in fondo all’autorimessa, un piccolo ripostiglio, ingombro di cianfrusaglie ed attrezzi da giardino.

    Con la meticolosità e la pazienza di un bimbo, che tocchi e sposti quello che non deve toccare e spostare, aveva vuotato il bugigattolo da ogni minimo oggetto.

    In un eccesso di raffinatezza aveva anche spazzato il pavimento, con l’intenzione di fare di quel piccolo locale la sua propria dimora segreta, la sua alcova.

    Poi, con gli occhi attenti alle minuzie, che solo un bimbo può possedere, aveva notato una fessura, appena percettibile nella penombra, all’estremità di uno dei pannelli di legno che rivestivano la parete di fondo del ripostiglio.

    Dopo avere introdotto un cacciavite nella fessura, aveva tirato con tutte le sue forze e, con sua grande sorpresa, il pannello si era messo a scorrere.

    C’era voluta tutta la curiosità e la fortuna di un bimbo, per scoprire il passaggio segreto, di cui neanche il nonno era a conoscenza. 

    Un odore stantio l’aveva stordito, insieme alla visione di un buco nero e misterioso, comparso all’improvviso davanti ai suoi occhi.

    Inizialmente aveva provato un timore ancestrale per quel luogo recondito e quindi sconosciuto, ma era anche stato eccitato dal senso di sorpresa, dal gusto della novità, fino a concepire l’orgoglio di essere lo scopritore di un mondo occulto.

    La paura dei pericoli che si potessero celare nel buio aveva mancato di farlo rinunciare all’esplorazione, ma la curiosità era stata troppo forte: era andato a rubare una torcia a pile, risoluto ad avventurarsi nella scoperta di quel mondo nascosto.

    Si era sentito come quegli esploratori, protagonisti di un racconto che suo padre gli leggeva sovente, in cui gli avventurieri scendevano nelle viscere della terra.

    Con lo stesso animo coraggioso, aveva anche lui cominciato a scendere, scoprendo che il pannello scorrevole si apriva su una scaletta, conducente ad un locale dissimulato sotto la casa.

    Era rimasto un po’ deluso nello scoprire che il suo viaggio al centro della terra finisse in una stanza, dove c’erano pochi rudimentali mobili, costruiti sul posto.

    L’ambiente era alquanto ampio, ma il soffitto molto basso: Iris aveva valutato che suo padre, il quale gli aveva detto di essere alto un metro e settantacinque, con i suoi capelli ne avrebbe sfiorato la superficie, che ormai cominciava a sfaldarsi, rosicchiata dal tempo e da quel poco di aria salmastra che s’insinuava attraverso la fessura del pannello di legno.

    Iris non poteva saperlo, ma in quel locale, durante la guerra, gli antichi proprietari della casa avevano nascosto una famiglia di rifugiati.

    Il bimbo poteva sentirne ancóra, dopo trentadue anni dalla fine di quella guerra, l’odore della paura dei bombardamenti, dell’ansia di essere scoperti.

    Quell’aspro sentore si mescolava con la paura che l’uomo-lupo gli incuteva e proprio quest’ultima era stata la più forte: Iris aveva deciso di fare di quel sotterraneo il suo nascondiglio segreto.

    Aveva passato una domenica intera nascosto là sotto, fino a quando si era deciso ad uscire, preso dalla sindrome di clausura, nonché dalla fame e dalla sete.

    Il nonno (l’uomo-lupo) l’aveva sgridato forte e l’aveva rinchiuso nella sua stanza.

    Quando, due giorni dopo, l’aveva lasciato uscire, Iris era subitamente andato a nascondersi nel suo rifugio, per uscirne solo a notte fonda e andare a cercare qualcosa da mangiare.

    Ma il lupo l’aveva preso per fame, chiudendo a chiave la cucina.

    Era stato allora che il piccolo aveva cominciato a frugare nelle pattumiere dei vicini, per poi estendere il suo territorio di caccia a tutto il villaggio.

    Per giorni e giorni era stato nascosto.

    Una volta aveva temuto di essere sul punto di farsi scoprire: il lupo frugava dappertutto, Iris l’aveva sentito tramestare nel ripostiglio, proprio dietro al pannello scorrevole.

    Era quasi morto di paura, quando aveva sentito ringhiare e brontolare, appena dietro quel centimetro di spessore del legno, ma la bestia non l’aveva mai trovato.

    D’altronde, il lupo non aveva mai denunciato la scomparsa del nipotino.

    Poi, un giorno, l’aveva udito sbraitare nella rimessa:

    - Meglio così, che si sia tolto dai piedi una volta per tutte, quel piccolo bastardo, degno figlio di quel buono a nulla e rinnegato di suo padre ! -

    Quelle parole l’avevano ferito a morte ed era stato allora che aveva deciso di liberarsi del mostro.

    Un giorno, l’aveva udito prelevare dalla rimessa la lunga scala a pioli.

    Sapeva già che cosa volesse dire quella manovra: il lupo sarebbe salito sulla scala per torturare quei poveri alberi, amputandone i rami con la sua orribile sega.

    Iris era uscito in silenzio dal rifugio.

    L’ultima cosa che il mostro aveva visto, fra le foglie dell’albero che stava potando, un attimo prima che la scala basculasse nel vuoto, oltre la siepe e più giù, fin sulla strada, era stato il viso sporco di un piccolo selvaggio, con due occhi neri, seri e scintillanti che lo guardavano.

    Il villaggio addormentato.

    Rinchiuso nella soffitta, a volte Iris dubitava della morte di suo padre e di sua madre: abituato a fare finta che essi fossero semplicemente in viaggio, finiva per crederlo davvero.

    Un giorno ebbe un’illuminazione: si ricordò che per qualche tempo, prima che scomparissero, questi lo avevano portato in uno strano giardino.

    Quando gli dicevano: Andiamo a trovare la nonna, sapeva già che sarebbero andati in un posto bellissimo ed inquietante allo stesso tempo.

    Camminavano lungo un viale, all’ombra di alberi altissimi, stretti ed appuntiti, che non aveva mai visto altrove.

    Si oltrepassava un grande cancello che si apriva in una cinta di alte mura, di colore giallo scuro.

    Qui ci si trovava in un altro mondo: una specie di villaggio-giardino, dove le vie erano strette e sgombre d’automobili, tanto che si poteva passeggiare ed attraversare senza dover fare attenzione; il suolo non era duro, grigio e screpolato, come quello che aveva l’abitudine di vedere sulle strade normali, bensì ricoperto di minuscole pietre bianche, buffamente scricchiolanti sotto i passi.

    Le vie non erano delimitate da case: al loro posto giacevano degli strani letti di pietra, sormontati da piccoli muri, sui quali si vedevano piccole fotografie di persone sconosciute.

    Invece di statue bronzee di eroi, guerrieri e generali, in quel giardino abitavano tristi ed inquietanti personaggi, pietrificati dal tempo e vestiti di drappeggi; alcuni di essi erano alati e mostravano la bellezza del loro volto, altri rimanevano prostrati e con il viso tetramente nascosto da un sudario.

    (Iris intuiva la tragicità di quelle figure, che sembravano languire sconsolate, angosciate, rassegnate, traendone un forte turbamento che l’obbligava a distogliere lo sguardo.

    Eppure, un giorno avrebbe anche lui scoperto la tristezza lasciata dalla morte, che l’avrebbe intimamente legato a quelle statue.

    Di più: malgrado il senso di repulsione che quelle creature pietrificate gli procuravano, rispetto ad esse sentiva una certa familiarità, come se il bimbo intuisse precocemente il destino che avrebbe fatto di quello strano giardino il suo mondo, il suo quotidiano.

    Solamente più avanti negli anni, Iris avrebbe capìto di essere come quelle creature alate, scevre di maschiezza, rivelanti piuttosto una certa femminilità, esprimenti una sorta di essenza divina che lui stesso, un giorno, avrebbe visto allo specchio e sentito nella propria pelle.)

    Lungo il muro di cinta s’allineavano piccole case in pietra, che ad Iris ricordavano la casetta in legno del suo giardino, tanto che avrebbe anche voluto giocarci, se queste non avessero avuto un aspetto che incuteva timore e che egli non sapeva definire: c’erano, su quella pietra un po’ corrosa e muscosa, i segni del tempo andato, le testimonianze di un mondo

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