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Scuole per bambini dai tre ai sei anni alla ricerca di un metodo: Riflessioni ed esperienze
Scuole per bambini dai tre ai sei anni alla ricerca di un metodo: Riflessioni ed esperienze
Scuole per bambini dai tre ai sei anni alla ricerca di un metodo: Riflessioni ed esperienze
E-book454 pagine6 ore

Scuole per bambini dai tre ai sei anni alla ricerca di un metodo: Riflessioni ed esperienze

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Info su questo ebook

Una Direttrice didattica, due scuole dell’infanzia e un formatore si incontrano, si capiscono e aprono una storia di innovazione pedagogica e didattica durata dalla metà degli anni ’90 fino al 2010. Sullo sfondo delle vicende di una maggiore emersione della scuola materna poi dell’infanzia come scuola rilevante per i bambini che la frequentano, si dipana oltre un decennio di aggiornamento e formazione, di cambiamenti delle pratiche educative, di produzione di documenti, di convegni, cercando di mettere a fuoco un metodo di lavoro con i bambini a partire dalle suggestioni della “scuola attiva”. Il volume rende conto di questo lungo percorso dando voce a chi lo ha vissuto con diversi ruoli e punti di vista volendo contribuire a mantenere viva l’attenzione su questa scuola ma anche consegnando contributi si spera utili a chi ci lavora.
LinguaItaliano
Data di uscita3 giu 2021
ISBN9788832761979
Scuole per bambini dai tre ai sei anni alla ricerca di un metodo: Riflessioni ed esperienze

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    Anteprima del libro

    Scuole per bambini dai tre ai sei anni alla ricerca di un metodo - Francesco Caggio

    Bibliografia

    Prefazione

    Da quali percorsi professionali originano e sono esito i progetti educativi condotti e narrati dalle docenti di scuola d’infanzia alla ricerca di un rispettoso ascolto evolutivo dei bambini di cui hanno avuto la responsabilità formativa (capitoli 7, 8, 9, 10, 11, 12)?

    Sono esito di anni di lavoro intorno alla professionalità docente (capitolo 5), anni accompagnati da mirati e costanti percorsi di aggiornamento e formazione. È per questo che il volume dà conto del contesto di lavoro in cui le docenti sono cresciute professionalmente e delle linee di metodo che esse hanno cercato di mettere a fuoco declinandole nel fare concreto con i bambini: tutto questo sollecitate e indirizzate per anni da un Capo d’Istituto che ha avuto come obiettivo definito e chiaro la prefigurazione di una scuola dell’infanzia che avesse una sua specifica fisionomia pedagogica.

    Il lavoro prende avvio verso la fine degli anni ‘90 nel fervore che avevano suscitato gli Orientamenti Ministeriali per la scuola materna del 1991 e termina nel 2010. Certo circa dieci anni fa: ma le scuole non sono chiamate ogni volta a chiedersi quali bambini si trovano di fronte per calibrare il proprio intervento? Non sono chiamate a darsi linee pedagogiche e metodologiche condivise e coerenti sia con le indicazioni normative che con i contributi teorici più utili a dare un significato leggibile al proprio operato? Non sono chiamate a darsi strumenti per operare con consapevolezza e infine per verificare e valutare il proprio operato? Se dare un significato riflettuto, codificato al proprio fare scuola è questione persistente negli anni, allora i contributi che introducono le esperienze presentate (capitoli 1, 2, 3, 4, 6) sono ancora utili per tenere aperto un dibattito che da decenni mette a tema proprio la costruzione di scuole con un loro, specifico metodo che dia leggibilità al fare educazione di gruppi di docenti che se indirizzati, coordinati e formati. fanno di una scuola, una riconoscibile Scuola con sue evidenti marche identitarie. Senza trascurare che fare memoria del lavoro delle scuole sostiene certamente la loro qualità e probabilmente quella delle altre: forse è un aiuto a tenersi vigili e in evoluzione.

    Il curatore

    Prima parte

    Riflessioni

    1 - Costruire qualità nella scuola: lineamenti di organizzazione scolastica

    di Gerarda Veneroso

    ¹

    Scuola e Organizzazione

    Che la scuola sia un’organizzazione è innegabile, che lo sappia e si comporti come tale, non lo è altrettanto.

    Purtroppo, ancora oggi, nonostante l’abbondante letteratura sull’argomento, l’immaginario collettivo continua ad associare l’idea di organizzazione da un lato alla ricerca di un controllo pressoché assoluto della complessità ottenuto attraverso regole formali così condizionanti da essere fonte di sofferenza per le persone; dall’altro - di fronte alla evidente inadeguatezza di un simile approccio rispetto alla gestione effettiva dei processi complessi - l’organizzazione viene liquidata sbrigativamente come burocrazia le cui regole fanno soffrire inutilmente le persone.

    Me ne sono resa conto appena entrata in servizio come Capo d’Istituto di un Circolo Didattico, che comprendeva cinque plessi di Scuola Primaria e due di Scuola dell’Infanzia, via Briantea e via Zezio, oltre che numerose scuole private e paritarie che facevano capo al Circolo.

    L’analisi delle scuole che dovevo dirigere ha mostrato subito che nella mente degli insegnanti il concetto di organizzazione non era pertinente con il ruolo docente. L’organizzazione era qualcosa che riguardava modelli orari, costituzione delle sezioni e comunque era una situazione data: le docenti arrivavano, trovano la scuola così organizzata e dentro tale contenitore si accomodavano meglio che potevano, con turni, compresenze, pomeriggi, mattine…; una faccenda da sbrigare all’inizio dell’anno con la segreteria, con la capogruppo e poi non ci si pensava più per il resto dell’anno. Difficilmente venivano modificate le coppie delle docenti e, se in una sezione la titolare era assente per lungo tempo (assegnazione provvisoria in altra sede, distacco, incarichi altri, …), quel buco veniva coperto in eterno da personale temporaneo. La cristallizzazione delle coppie creava quasi inevitabilmente sezioni che funzionavano bene e altre meno.

    Un eventuale cambio nell’organizzazione delle sezioni riguardava tutt’al più i bisogni e le richieste dei genitori: tempo corto, tempo lungo, sabato sì, sabato no…, insomma cose da segreteria e Capo d’Istituto. In verità, nel plesso di via Zezio, alcune docenti più avvertite e disponibili al cambiamento, avevano modificato l’organizzazione di tre sezioni su sei, lavorando con gruppi di bambini omogenei per età, ma senza alcuna formalizzazione, nel senso che ufficialmente risultavano come sezioni eterogenee e questo creava confusione negli elenchi dei bambini e con genitori e colleghi nuovi e scoraggiava le altre sezioni a prendere in considerazione nuove possibilità.²

    Come è possibile - continuavo a chiedermi - che gli operatori scolastici non riconoscano l’utilità dell’organizzazione? La sentano estranea e la considerino con diffidenza?

    Certamente offriva resistenza l’immagine preconcetta di organizzazione su descritta, ponendosi come ostacolo cognitivo che impediva l’acquisizione del concetto di organizzazione secondo una diversa accezione e soprattutto impediva di vederne l’utilità in termini di funzionalità per il proprio ruolo.

    In quegli anni il professor Piero Romei, docente di Organizzazione e Sistemi complessi all’Università di Bologna, col quale ebbi la fortuna di lavorare poi per molti anni, proponeva un approccio che offriva una visione dell’organizzazione come costruzione di una trama intenzionale utile a creare legami per collegare elementi di diversa natura che si trovano nella realtà complessa, secondo un disegno consapevole, deliberato, riconoscibile. Organizzazione quindi come tentativo umano di effettuare interventi intenzionali dando senso e significato alle azioni, finalizzandole al raggiungimento di un risultato e sottraendole il più possibile al caso. Una visione dunque molto interessante.

    «Non si può mai sapere che cosa si deve volere perché si vive una vita soltanto e non si può né confrontarla con le proprie vite precedenti, né correggerla nelle vite future».

    Queste le parole che Kundera³ mette in bocca al suo tormentato Tomáš: «Non esiste alcun modo di stabilire quale decisione sia la migliore, perché non esiste alcun termine di paragone. L’uomo vive ogni cosa subito senza preparazioni, come un attore che entra in scena senza aver mai provato. Ma che valore può avere la vita se la prima prova è già la vita stessa?»

    Nella scuola non è così. La scuola esiste proprio per attrezzare gli studenti e farli entrare in scena, avendo provato. La scuola è il regno dell’intenzionalità, delle azioni programmate, finalizzate al raggiungimento di uno scopo. E lo scopo della scuola è l’apprendimento. Un buon apprendimento.

    Dunque, due punti cardine da tenere sotto controllo: l’organizzazione e la didattica.

    Credo che la svolta e l’inizio del cambiamento all’interno delle scuole da me dirette, sia avvenuta a partire da due momenti topici: quando proposi a Piero Romei - e lui accettò - di venire a Como per spiegare ai collegi riuniti non solo questo nuovo concetto di organizzazione, ma per mettere alla prova le sue teorie usando le scuole del Circolo come fucine per la sperimentazione; e quando proposi al pedagogista Francesco Caggio degli interventi nelle scuole del Circolo per una collaborazione duratura finalizzata al miglioramento della qualità della didattica, e lui accettò.

    All’inizio fu necessario cercare di comprendere le ragioni complesse che sostenevano la resistenza al cambiamento, ma soprattutto l’estensione e le conseguenze dei vizi concettuali di fondo per arrivare a delimitare poi un possibile campo d’intervento. Vediamone alcuni.

    L’insegnante e l’immagine di sé,

    ovvero l’identità professionale

    Da sempre la scuola è considerata regno dell’affettività, dei carismi personali, della creatività dell’atto educativo. Tutta la letteratura al riguardo pone l’accento sull’importanza (innegabile) del fatto che l’apprendimento, soprattutto nella scuola dell’Infanzia e Primaria, non avviene se non in un clima relazionale adatto e se non è sostenuto da capacità dell’insegnante, riferibili però in massima parte più alla sfera personale che non a quella professionale. E la stessa rappresentazione sociale rimanda a un’immagine di insegnante eccellente come colui capace di affascinare, di motivare gli allievi, ma con caratteristiche più legate all’estro, alla inventiva personale che a competenze acquisibili con un percorso formativo specifico. Quando si parla di un bravo insegnante se ne mettono in evidenza le doti di pazienza, di ascolto, la sensibilità, … doti che, nel sentire comune, non hanno nulla a che vedere con le capacità organizzative, intese come applicazione di metodi, procedure e controlli, messe in contrapposizione con la libertà d’azione e quindi svalorizzate. Professionista, non burocrate!

    Ma la libertà d’azione senza regole, procedure e controlli, genera caos.

    Vediamo qualche esempio.

    L’anno scolastico ha delle tappe fisse. Una delle più rilevanti è l’inizio che è importante per tutti i gradi di scuola, ma per la scuola di base e tanto più per quella d’infanzia lo è in maniera forte, nel senso che è denso di significati, di aspettative e conseguentemente, nella maggior parte dei casi, di ansie.

    I docenti ne sono consapevoli e quasi ogni scuola negli anni si è andata attrezzando per rendere questo momento, almeno nelle intenzioni, meno critico per i bambini e per i genitori. Il rischio è che le varie iniziative, pensate magari anni prima sull’onda di spinte del momento, vengano poi ripetute negli anni come un rituale, un adempimento formale di cui si è un po’ perso il significato. Se si aggiungono i problemi dovuti alle logiche di graduatorie, di assegnazioni provvisorie da una provincia all’altra, con conseguente carenza di docenti nei primi giorni di scuola, si comprende come l’inizio del percorso scolastico sia un punto davvero critico. Che non vuol dire che gli insegnanti non si impegnino, anzi il più delle volte sopperiscono con capacità e inventiva personali a disfunzioni del sistema. Ma non sempre. E allora, poiché il primo impatto di alunni e genitori con l’istituzione è un momento troppo importante perché la scuola non ne controlli la riuscita, è interesse dell’Istituzione Scolastica organizzare, curare, tenere sotto controllo questo momento che viene ritenuto importante e quindi nodo critico da affrontare facendosene carico collettivamente.

    Fu necessario mettere in evidenza i problemi che la gestione di alcuni momenti dell’anno (inizio, termine, vacanze, feste) e della giornata (entrate, intervallo, merenda, uscite) poneva in termini di interferenza con la qualità della didattica e discuterne tutti insieme al fine di trovare soluzioni confacenti ai bisogni di alunni genitori, docenti e non ultimo, personale ausiliario. Si studiarono cioè delle azioni organizzative. Senza accorgersene le docenti sperimentarono i benefici e i guadagni di una buona organizzazione.

    Bambini che piangevano attaccati alle gambe dei genitori, nonni che fotografavano il nipotino e badavano a scostare gli altri per riprenderlo in tutto il suo fulgore, genitori impazienti di lasciare il figlio e andare al lavoro, genitori o nonni che non volevano mai lasciare il pargolo, come accadde con una nonna, la quale una volta che i bambini erano entrati nella scuola, individuata l’aula del nipotino che dava su un cortile interno, vi si intrufolò e poiché le finestre erano alte, faceva dei gran salti per riuscire a vedere qualcosa al di là dei vetri. Le maestre vedevano una testa apparire dietro un vetro, poi scomparire, poi ancora, col rischio per la signora di rompersi l’osso del collo; queste scene si ripetevano ogni anno; una sorta di scotto da pagare per l’inizio della scuola.

    Questa la situazione iniziale. La situazione modificata la si può dedurre dalle procedure individuate, sperimentate e codificate nell’opuscolo intitolato Progetto Accoglienza (che integralmente si riporta al termine del capitolo⁴); progetto ovviamente sempre migliorabile e perfezionabile, ma che è servito a mettere in condizione, soprattutto le docenti in ingresso nel Circolo, di operare da subito in un contesto formalizzato, sapendo cosa fare, con accanto le docenti non nuove, che dall’inizio dell’anno venivano attivate (e incentivate) come tutors.

    Una avvertenza importante: gli opuscoli da soli non servono a molto; occorrono azioni a supporto. Nel caso specifico, appositi incontri in cui il Capo d’Istituto spiega ai nuovi e ricorda ai vecchi, il senso di ciascuna procedura individuata, dando legittimità e importanza ad ogni passaggio lì descritto, e soprattutto chiedendo un riscontro alla fine del periodo iniziale, in modo da rivitalizzare continuamente le procedure applicate.

    La consegna che la scuola deve affidare a sé stessa è: risignificare ogni nuovo anno scolastico le prassi in uso, esplicitandone il senso e le ragioni: il perché dobbiamo farlo. E - soprattutto - di tale consegna deve essere attento curatore il Capo d’Istituto.

    L’insegnante e la collegialità (lavoro di squadra)

    Gli insegnanti privilegiano l’aspetto individualistico della propria professione. I colleghi in genere vengono percepiti più come concorrenti (riconoscere che gli altri sono bravi, implicitamente vuol dire che io lo sono meno), che come risorsa. Vuoi perché difficilmente il lavoro degli insegnanti viene reso disponibile in maniera ufficiale e sistematica per i colleghi, (e se accade o avviene in maniera informale - passaggi e scambi in corridoio di materiale didattico - oppure perché viene valorizzato e pubblicizzato il lavoro "dei soliti che si credono i primi della classe"), vuoi anche e soprattutto perché ogni docente è convinto che la propria classe sia un unicum al quale non possono essere applicate soluzioni, regole, procedure che sono state pensate per altri contesti. Questo atteggiamento di fondo, unito al fatto che si è dato tanto più apprezzamento agli incontri collegiali quanto più prevaleva l’aspetto informale, amichevole (ritenendo di sopperire a difficoltà, conflitti, scontri tra posizioni diverse rispetto allo svolgimento del compito, con interventi di tipo relazionale) ha svuotato di significato e di efficacia le riunioni collegiali che sono percepite, nella maggioranza dei casi, e hanno finito col diventare, puri adempimenti formali.

    Questo punto è stato molto delicato da affrontare, in quanto erano radicate nei vari plessi le figure storiche di colleghe brave, quelle che parlano a nome delle altre, che fanno verbali, sintesi, che vanno agli incontri di formazione e poi relazionano. Il vissuto delle colleghe nei loro confronti era ambivalente: da un lato si sentivano sollevate da incombenze che ritenevano burocratiche, faticose, a volte noiose (pertanto ci si sottraeva volentieri con un ci pensa la Bea) ma dall’altro c’era una tacita, rassegnata svalorizzazione individuale che non invogliava a prendere iniziative o a mettersi in gioco. Ricordo un incontro di plesso di pura sofferenza, agli inizi della collaborazione con F. Caggio, durante il quale, assente la collega che interveniva solitamente a nome di tutti, ci fu un lunghissimo imbarazzante silenzio, che l’esperto reggeva benissimo, anzi intenzionale da parte sua, ma che tutte le docenti vissero davvero male sentendosi esposte, incapaci di affrontare la situazione. Devo ammettere che un certo sconcerto lo provai anche io perché, dopo un tempo interminabile, quando stavo per intervenire per tentare di sbloccare la situazione, un’occhiata di F. Caggio mi zittì. Quella seduta segnò il primo passo verso la formazione. A distanza di anni le docenti se ne ricordavano ancora come un momento di sofferenza, ma anche come il momento in cui aveva avuto inizio l’esserci davvero in prima persona.

    Dunque, vissuto di sé svalorizzante, oppure al contrario, percezione di sé come docente molto bravo. Situazione diffusa in un altro plesso di scuola dell’Infanzia del Circolo, che inizialmente creò non poche resistenze (come a dire: siamo già bravissimi, a cosa ci serve un formatore?).

    La strategia usata per attivare le risorse di tutti i docenti, quelli che si sentivano bravi e quelli che pensavano di non esserlo, fu di spostare l’attenzione e quindi il campo di azione dai colleghi al compito, per poi tornare ai colleghi; facendo sperimentare sul campo come si può diventare un bravo docente attraverso percorsi formativi specifici che permettevano di acquisire competenze professionali spendibili subito in sezione, ma nel contempo capitalizzabili; nel senso che non finivano con l’esperienza condotta con la supervisione dell’esperto, ma diventavano metodo di lavoro per l’insegnante. E soprattutto - fatto davvero nuovo nel panorama scolastico non solo comasco - diventavano metodo della scuola.

    La presenza costante nel tempo dello stesso pedagogista ovviamente è stata fondamentale. Inizialmente con incontri di plesso dove venivano chiarite le linee di metodo generali che ogni sezione avrebbe dovuto seguire. Si lasciava poi un tempo alle docenti di ciascuna sezione per osservare i bambini e i loro portati e per iniziare a dare corpo a piccoli progetti scaturiti da tali osservazioni. Seguivano poi incontri periodici del pedagogista in ciascuna sezione per discutere in situazione come dare senso e spessore a ciò che si andava delineando. In questa fase la profonda competenza professionale e relazionale del pedagogista Francesco Caggio è stata determinante. Le docenti venivano rassicurate, gratificate e rinforzate sul compito da svolgere. Avevano un tempo dedicato ed esclusivo per chiarire ogni dubbio e capire come procedere e ogni incontro terminava con una data per rivedersi. I risultati ottenuti cominciarono a essere davvero notevoli, immediatamente percepibili da chiunque entrasse in sezione: genitori, bidelli, colleghe e primi fra tutti i bambini che non vedevano l’ora di tornare nella loro classe e continuare ciò che avevano lasciato il giorno prima. Questo creava un circolo virtuoso con effetti sulla percezione di sé delle docenti e sulla qualità della didattica. Il risultato più eclatante si ebbe quando docenti che non avevano mai preso la parola in pubblico si resero disponibili a spiegare il loro lavoro alle altre colleghe ricevendo plauso e considerazione.

    Aver assicurato una buona qualità della didattica in tutte le sezioni però non garantisce ancora la qualità della scuola. Occorre un passaggio ulteriore e cioè mettere in campo delle azioni per far sì che essa duri nel tempo ovvero che si possa garantirla non solo quell’anno a quei bambini, ma che sia una caratteristica della scuola su cui si possa contare sempre.

    Trasferimenti, assegnazioni di nuovi docenti nel plesso, magari con anni di esperienze alle spalle, che quindi mal sopportano di sentirsi dire da colleghe a volte più giovani o addirittura non di ruolo cosa e come fare, mettono a repentaglio la continuazione delle buone pratiche. Quali le azioni organizzative da mettere in campo per preservare il know-how acquisito?

    Nell’esperienza di cui stiamo dando conto, curare questo passaggio è stato molto importante, in quanto le scuole del Circolo avevano un turnover di docenti rilevante. Si decise pertanto di investire molto sui nuovi docenti immettendoli in una sorta di rete di supporto sin dal loro primo ingresso nella scuola. Appena messo piede in segreteria, venivano ricevuti dal Capo d’Istituto, accolti, interrogati rispetto alle esperienze pregresse, ascoltati con grande attenzione e interesse e poi invitati a un incontro di presentazione della scuola da parte del Dirigente e delle colleghe di plesso durante il quale venivano esplicitate le prassi educative in atto nella scuola e veniva messo a loro disposizione il materiale utile a comprendere il senso delle cose che la scuola avrebbe richiesto loro. Da segnalare come punto di crescita nella professionalità delle docenti, la disponibilità (supportata da qualche incentivo economico) a formare i colleghi in ingresso nel Circolo, sia attraverso incontri specifici (mini-corsi), sia come supporto nel corso dell’anno (tutor).

    Tale procedura, discussa e approvata come Piano di Integrazione docenti in ingresso (che di seguito si riporta) unitamente a tutte le iniziative messe a punto per migliorare aspetti importanti e strategici per la qualità dell’insegnamento (laboratori, progetti, collaborazioni con esperti) e per la gestione dei rapporti all’interno e all’esterno dell’Istituzione Scolastica, come il contratto di modulo (tra docenti della stessa classe) o le procedure di conduzione degli incontri scuola-famiglia diventava parte integrante del Piano dell’O. F. della scuola. Offerta Formativa dunque ricca non solo di dichiarazioni di intenti (cosa faremo), ma anche di dichiarazioni di impegni di cui la scuola si faceva carico, con l’esplicitazione delle procedure usate (in che modo lo faremo).

    DIREZIONE DIDATTICA

    2° Circolo Didattico di Como

    Piano integrazione docenti in ingresso nel Circolo

    Le scelte che la scuola ha fatto rispetto ai nuovi docenti sono indicate sin dal 1996 nella Carta dei Servizi. Sin da allora la scuola si era posta nell'ottica di investire risorse e attivare strategie per l'inserimento dei docenti in ingresso nel Circolo.

    Oggi e sempre, inserire i nuovi docenti è di fondamentale importanza per un Circolo che ha costruito una sua identità e che ha faticosamente selezionato curricoli, percorsi e metodologie che, sebbene continuamente sottoposti a verifiche e controlli, non possono essere disattesi o ignorati.

    L'obiettivo che la scuola si è dato - e che persegue con costanza e tenacia - di garantire ad ogni alunno un'offerta formativa dignitosa, sottraendola il più possibile o almeno per una certa parte al caso, necessita di regole e procedure di Circolo, di curricoli e di metodologie consolidate, che abbiano la forza e la capacità di influenzare i comportamenti dei singoli e che possano essere tenute in qualche maniera sotto controllo.

    Pertanto, la scuola riconosce ai docenti in ingresso il diritto di essere informati e di essere messi in condizione di apprendere le prassi e le metodologie in uso nel Circolo.

    Pone ad essi, nel contempo, il dovere di chiedere, di fare domande, di sforzarsi a comprendere il senso delle scelte effettuate e di metterle in atto con voglia e desiderio di provare.

    Per aiutare i docenti nuovi del Circolo a svolgere al meglio le loro funzioni secondo le regole e i criteri della scuola, sono previste le seguenti iniziative.

    Colloquio di presentazione con il Dirigente Scolastico per la rilevazione dei requisiti e delle caratteristiche personali.

    Presentazione della scuola da parte del Dirigente e assegnazione alla classe/sezione o al ruolo/compito per insegnanti di sostegno, lingua, su progetto, ecc.

    Messa a disposizione del materiale conservato agli atti del Circolo (programmazioni, progetti, regolamenti, diagnosi, ecc. ).

    Affidamento dell'insegnante nuovo a un collega tutor con il compito di esplicitare, su richiesta, il senso e le motivazioni di procedure, regolamenti, prassi...

    Mini-corso di formazione per le discipline assegnate, finalizzato a illustrare il metodo e l'uso del materiale (unità didattiche e programmazioni) a disposizione nel Circolo.

    Inserimento nei programmi di formazione in servizio del Circolo

    Annotazione delle osservazioni e commenti dei nuovi docenti da utilizzare come feedback per la valutazione delle prassi organizzative.

    Il Dirigente Scolastico

    L’insegnante e la documentazione

    L’attenzione a documentare e a formalizzare le azioni organizzative che negli anni si applicavano ai vari segmenti della vita della scuola (dall’ingresso, alle uscite, ai permessi, ai colloqui, alla compilazione dei registri e ad ogni altra azione la cui riuscita aveva effetti sul miglioramento della qualità dello stare a scuola di tutti), ha modificato negli anni l’atteggiamento dei docenti verso la documentazione.

    Ancora all’inizio degli anni ‘90, qualsiasi documentazione (programmazione annuale, verifica periodica o finale) era considerata un adempimento burocratico inutile e fastidioso tant’è che venivano ricopiate pari, pari quelle dell’anno precedente o si passavano da un collega, che aveva già avuto quella classe, all’altro, infilate nel registro con la sicurezza che nessuno le avrebbe mai lette. Ricordo lo stupore dei docenti della (allora) scuola elementare, quando, durante le vacanze di Natale, esaminai i registri di tutte le classi e al rientro, in un collegio docenti, misi all’O. d. g. la voce programmazione annuale mostrando quante volte e in quante classi veniva usata la stessa programmazione redatta da una collega brava molti anni prima; alcuni non si erano presi la briga neanche di cambiare la data, e in un caso, neanche la firma finale. Questo non vuol dire che il lavoro di tali docenti non fosse dignitoso, ma semplicemente che - come per l’organizzazione, se non peggio - alla documentazione non veniva attribuito alcun valore.

    Una buona documentazione deve essere utile a chi la redige e a chi la leggerà in seguito. Documentare in maniera efficace? Si apprende. Ricordo ancora le parole del prof. Bruno D’Amore, docente di Didattica della Matematica all’Università di Bologna, che ha lavorato con le docenti del Circolo per molti anni, il quale diceva che, per fare una buona programmazione di matematica, si doveva togliere, togliere, togliere tutto ciò che si poteva fino a che togliendo ancora qualcosa non c’era più neanche la matematica. Come a dire, non serve documentare tutto, ma l’essenziale sì.

    La documentazione a tutti i livelli fa risparmiare tempo, capitalizza le esperienze e le rende disponibili nel tempo e inoltre contribuisce a definire e a rendere leggibile l’identità della scuola.

    Una spinta notevole a documentare le decisioni e le esperienze venne anche dalla partecipazione alle sperimentazioni ministeriali in atto in quegli anni.

    Dai corsi di aggiornamento

    alla formazione in servizio

    Gli anni ‘90 avevano sollevato un interessante (sebbene ancora molto confuso) dibattito sulle e nelle Scuole dell’Infanzia. L’emanazione, da parte del Ministero, dei Nuovi Orientamenti per la Scuola dell’Infanzia (1991) e la sperimentazione A. S. C. A. N. I. O. (Attività Sperimentale Coordinata Avvio Orientamenti) del 1994, seguita da A. L. I. C. E (Autonomia: un Laboratorio per l’Innovazione dei Contesti Educativi) del 1999, avevano prodotto nelle scuole del Circolo che avevano aderito alle sperimentazioni un certo interesse verso nuovi modelli organizzativi e soprattutto la consapevolezza dei loro bisogni formativi relativamente al fare scuola.

    La decisione di partecipare ad A. L. I. C. E da parte del plesso di via Briantea (oltre via Zezio che aveva già partecipato ad A. S. C. A. N. I. O) segna una tappa importante nel processo di innovazione delle scuole di Infanzia del Circolo, in quanto le docenti di via Briantea entrano finalmente a pieno titolo nel percorso di ricerca in atto nell’istituzione scolastica. Negli ultimi cinque anni, infatti, la scuola elementare stava realizzando un importante progetto di innovazione metodologico-didattica relativa alle discipline e agli stili di programmazione e la scuola dell’infanzia era stata coinvolta in più occasioni.

    Nella scheda per la richiesta di adesione al progetto A. L. I. C. E., infatti, alla domanda: "La scuola ha partecipato negli ultimi cinque anni a ricerche, esperienze innovative, progetti di formazione?", le due scuole possono dichiarare:

    la partecipazione dal 1997 a una ricerca condotta con il Prof. Elio Damiano dell’Università di Parma sulla didattica per concetti applicata ai bambini della scuola dell’infanzia;

    la partecipazione al progetto di costruzione della struttura direzionale (figure di sistema, ruoli e coordinamento) in atto nel Circolo, diretto dal prof. Piero Romei dell’Università di Bologna;

    la partecipazione alla realizzazione di un percorso di proto-matematica nella scuola dell’infanzia, condotta con il prof. Bruno D’Amore dell’Università di Bologna.

    E inoltre la partecipazione a percorsi di formazione in atto nel Circolo su:

    Ruolo docente e continuità nella scuola dell’obbligo tenuto dal prof. P. Romei.

    Stili di programmazione a confronto.

    Riflessioni sull’organizzazione e la didattica tenuto dal dott. F. Caggio.

    Nuove tecnologie e uso del computer corso base finanziato dalla scuola e svolto presso agenzia esterna.

    Come si vede erano anni di grande fermento e di ricerca di strade possibili, anche se non ancora secondo un disegno strutturato, chiaro e condiviso. Il passaggio successivo avvenne, come si è detto precedentemente, con l’ingresso del pedagogista Francesco Caggio nel Circolo, in qualità di esperto e consulente non occasionale.

    Nell’anno scolastico 2002/2003 le maestre avevano chiesto indicazioni operative al pedagogista e Caggio ci invitò a visitare alcune scuole dell’Infanzia di Milano delle quali era stato coordinatore. Ciò che avemmo modo di osservare ci colpì molto: un modello di scuola che ci sembrò avanti anni luce. Le riflessioni delle docenti in seguito all’incontro furono messe a fuoco e sintetizzate in punti che divennero tracce per successivi percorsi formativi:

    I bambini e il loro abitare lo spazio. Come si comportano i bambini se lo spazio è strutturato e come si comportano se è destrutturato.

    Le condotte esplorative, lo sviluppo della curiosità e le condotte di raccolta dei bambini nei confronti del materiale.

    Quale regia educativa favorisce maggiormente lo sviluppo dell’autonomia nel bambino.

    Come si formano e si articolano i gruppi fra bambini.

    Sezioni omogenee ed eterogenee: quali punti di forza e quali criticità.

    Una scuola laboratorio e i bambini come individui.

    L’anno successivo, 2003/2004, si lavorò dunque, soprattutto in via Briantea, per sviluppare nelle docenti una sensibilità all’ascolto dell’infanzia, attraverso una riflessione sui bambini, sui gruppi, su come funzionano. Il percorso I gruppi dei bambini e il loro funzionamento ebbe come temi:

    come formare un gruppo. (non il gruppo a tutti i costi, né il gruppo troppo presto, prima che ci sia una individualità già strutturata).

    Come comporre un gruppo in ragione delle attività.

    Come collocare bambini affettivamente fragili all’interno del gruppo.

    Gestione di un gruppo eterogeneo (come aggregare bambini di provenienza diversa).

    Come agevolare l’ingresso di bambini nuovi in un gruppo già consolidato.

    Dalla raccolta dei dati all’interpretazione e alle prime ipotesi emerse il bisogno di approfondire le diverse tipologie di leader, dal bambino equilibrato, al bambino caratterizzato, al contro-leader, ai bambini isolati, non visti, e cosa questo vuol dire a tre, quattro o cinque anni.

    Ma senza dimenticare il coinvolgimento dei genitori e il bisogno di instaurare con loro una comunicazione efficace; si approdò alla redazione di un opuscolo che chiarisse le modalità di dialogo, e la definizione di procedure di accoglienza e di svolgimento degli incontri.

    E sempre nello stesso anno si giunse alla messa a punto di linee guida per l’inserimento dei bambini di due anni e mezzo.

    L’anno scolastico 2005/2006 è all’insegna della ricerca di uno stile condiviso di lavoro. Ci si rese conto che ciò che più premeva, soprattutto nel plesso di via Zezio, era il bisogno di riuscire a creare un team maggiormente operativo nelle singole sezioni. In sostanza si avvertiva la necessità di dare maggiore identità e coesione al gruppo delle insegnanti per giungere a un sentire comune e a un comune modo di intendere la sezione.

    Si decise di partire dalla strutturazione dello spazio.

    Si lavorò molto per organizzare nelle sezioni degli angoli che fossero tra loro continui, complementari, coerenti, organici, armonici e leggibili, vivi ed articolati, che si arricchissero strada facendo; capaci di attivare i bambini; angoli in cui riprendere/ rielaborare quanto vissuto, favorendo esperienza, conoscenza; favorendo aggregazioni differenti: piccolo-medio gruppo, momento di sedimentazione del singolo, della coppia, …

    Sempre con uno sguardo per e su ciascun bambino.

    Contemporaneamente fu avviato un lavoro di analisi individuale con le docenti, secondo l’iter:

    rispondere per iscritto alla domanda: quale è il bambino che tendete a dimenticare?

    Colloquio ad personam con l’esperto.

    Se e quali lampadine si sono accese, ovvero: cosa ho imparato dopo questo esercizio?

    Dopo lo studio delle Indicazioni Nazionali, le docenti affrontarono il discorso del profilo del bambino in uscita dalla Scuola dell’Infanzia, ponendosi il quesito: "Come penso possa e debba uscire dalla Scuola d’Infanzia un bambino fra i cinque/sei anni, partendo dai veri bambini che ho e ho avuto?"

    Si diede l’avvio quindi a uno studio concluso con la costruzione di uno strumento di osservazione per i tre, quattro e cinque anni che aveva lo scopo di monitorare lo sviluppo delle competenze del bambino nel tempo. Emerse la necessità di documentare in modo più sistematico.

    Il 2006/2007 è l’anno in cui viene posto l’accento sulla documentazione. La prima domanda fu: Quali documenti, per chi e perché?!. Furono presi in considerazione due livelli di documentazione:

    istituzionale,

    individuale.

    I due livelli non hanno confini netti, nel senso che tutto ciò che serve all’istituzione serve/deve servire anche alle singole persone e viceversa. Si tratta semmai di centrature, connessioni, passaggi dal generale al particolare.

    Documentazione individuale

    La Scuola dell’Infanzia è una scuola poco parlata. C’è molto fare e poco dire. Le docenti hanno dovuto imparare a raccontare/ descrivere il proprio lavoro per riordinare le idee e verificarle, per dare significato e profondità al fare e per imparare dal proprio fare (alcuni strumenti utilizzati: diario di bordo, commenti, linee di metodo).

    Iniziò quindi un percorso: dall’esperienza al metodo

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