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Jude l'oscuro
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E-book565 pagine8 ore

Jude l'oscuro

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Info su questo ebook

Jude l’oscuro è un romanzo scritto da Thomas Hardy nel 1896, racconta la storia di Jude Fawley, un povero giovane che vive nell'immaginaria regione del Wessex e che aspira a divenire studente a "Christminster", una città su modello di Oxford, in Inghilterra. Nel tempo libero lavora nella panetteria dell'anziana prozia. Procuratosi due testi di grammatica latina e greca, inizia lo studio dei classici e delle Scritture. Prima di tentare di entrare all'università, l'ingenuo Jude viene spinto a sposare una grezza e superficiale ragazza del posto, Arabella Donn, che lo lascia nel giro di due anni. Durante questo periodo Jude abbandona completamente lo studio dei classici.
Jude si trasferisce quindi a Christminster e si mantiene facendo il muratore; nel frattempo studia da solo, speranzoso di poter accedere poi all'università. Qui incontra e si innamora di Sue Bridehead che sposerà però un altro nonostante l'amore per Jude.
L’intimo conflitto del protagonista tra energie fisiche ed intellettuali ha un preciso collegamento con i problemi dell’alienazione sociale ed economica, tutto ciò permette allo scrittore di esprimere al meglio uno dei temi fondamentali della sua poetica: la potente storia di una sinistra parabola distruttiva che s’intreccia inestricabilmente con la maligna ironia del fato.
LinguaItaliano
Data di uscita22 nov 2013
ISBN9788874173099
Jude l'oscuro
Autore

Thomas Hardy

Thomas Hardy (1840-1928) was an English poet and author who grew up in the British countryside, a setting that was prominent in much of his work as the fictional region named Wessex. Abandoning hopes of an academic future, he began to compose poetry as a young man. After failed attempts of publication, he successfully turned to prose. His major works include Far from the Madding Crowd(1874), Tess of the D’Urbervilles(1891) and Jude the Obscure( 1895), after which he returned to exclusively writing poetry.

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    Anteprima del libro

    Jude l'oscuro - Thomas Hardy

    Informazioni

    In copertina: Théeodore Gericault, Ritratto di alienato con monomania del furto, 1820-24, Gand, Museum voor Schone Kunsten

    © 2022 REA Edizioni

    Via S. Agostino 15

    67100 L’Aquila

    www.reamultimedia.it

    redazione@reamultimedia.it

    www.facebook.com/reamultimedia

    Traduzione di Gian Dàuli (1884-1945)

    Parte prima - A Marygreen

    Sì, molti hanno perso il senno per le donne, e sono diventati servi per amor loro. Molti altri sono morti, hanno sbagliato, anche peccato, per le donne... O uomini, non sono le donne forse potenti se riescono a tanto?

    Esdra, I Libro, Apocrifi dell'Antico Testamento

    I

    Il maestro stava lasciando il villaggio, e tutti sembravano dispiaciuti. Il mugnaio di Cresscombe gli aveva prestato il cavallo e il piccolo carretto coperto con un tendone bianco, che si dimostrò più che sufficiente per gli effetti del maestro in partenza e per trasportare la roba alla città dove era diretto, a circa venti miglia di distanza. Infatti la scuola era stata per la maggior parte arredata dall'amministrazione, e l'unica cosa ingombrante, oltre ai pacchi di libri imballati, era un piccolo pianoforte verticale che aveva comprato a un’asta qualche anno prima, quando aveva pensato di imparare a suonare uno strumento musicale. Ma, svanito l’entusiasmo, non aveva mai acquisito alcuna dimestichezza con le note, e da allora si era rivelato un perenne ingombro ogni volta che doveva cambiare casa.

    Il direttore, uomo che non sopportava di assistere ai cambiamenti, era andato via per tutta la giornata. Non sarebbe ritornato prima di sera, fino a quando non fosse giunto il nuovo maestro e non si fosse sistemato, e tutto avesse ripreso il ritmo normale.

    Il fabbro, l’amministratore rurale, e lo stesso maestro, erano in piedi nel salotto, dinanzi al pianoforte, indecisi sul da farsi. Il maestro aveva fatto notare che, anche se fossero riusciti a caricarlo sul carretto, non sapeva comunque cosa farne al suo arrivo a Christminster, la città in cui era diretto, poiché agli inizi avrebbe cercato un alloggio temporaneo.

    Un ragazzetto di undici anni, che era rimasto ad assistere in silenzio alle operazioni di imballaggio, si avvicinò al gruppo di uomini e, mentre questi si fregavano il mento pensierosi, disse, arrossendo al suono della propria voce: «Mia zia ha una grossa legnaia e potremmo portarlo lì, finché non avrà trovato un posto per sistemarlo, signore».

    «È una buona idea», disse il fabbro.

    Decisero di mandare qualcuno dalla zia del ragazzo - una vecchia zitella che abitava in quel villaggio - a pregarla di tenere il pianoforte nel suo capanno finché il signor Phillotson non avesse mandato a riprenderlo. Il fabbro e l’amministratore rurale si avviarono per verificare le condizioni del luogo che era stato proposto, e il ragazzo rimase solo con il maestro.

    «Ti dispiace che vada via, Jude?», chiese questi con dolcezza.

    Gli occhi del ragazzo si riempirono di lacrime: non era uno degli allievi regolari che si avvicinavano senza entusiasmo all’attività sociale del maestro, era uno che aveva frequentato i suoi corsi serali, e solo nel periodo in cui era rimasto in servizio quel maestro. Gli altri alunni, a dire il vero, se ne stavano ben lontani in quel momento, come certi discepoli del passato, restii ad offrire spontaneamente qualsiasi aiuto.

    Il ragazzo, imbarazzato, aprì il libro che aveva in mano, regalo d’addio del signor Phillotson, e ammise di essere dispiaciuto.

    «Anch’io», disse il signor Phillotson.

    «Perché va via, signore?», chiese il ragazzo.

    «Ah... sarebbe una storia molto lunga. Non capiresti le mie ragioni, Jude. Forse un giorno, quando sarai più grande, potrai capire».

    «Credo di poterle capire anche ora, signore».

    «Bene, ma non parlarne con nessuno. Sai cos’è un’università, e un diploma universitario? È la garanzia necessaria per chi vuole sfondare nel campo dell’insegnamento. Il mio obiettivo, o forse il mio sogno, è di conseguire una laurea e di essere ordinato. Andando a vivere a Christminster, o nelle vicinanze, sarò, per così dire, nel quartier generale, e se il mio progetto ha qualche possibilità di riuscita, credo che stare sul posto mi offrirà maggiori probabilità che stando altrove».

    Il fabbro e il suo compagno fecero ritorno. La legnaia della vecchia signorina Fawley era asciutta e facilmente accessibile, e lei sembrava ben disposta a ospitarvi lo strumento. Lo avrebbero, perciò, lasciato nella scuola fino a sera, quando ci sarebbero state più braccia per trasportarlo. Il maestro diede un ultimo sguardo intorno.

    Jude aiutò a caricare alcuni piccoli oggetti, e alle nove il signor Phillotson salì a fianco della sua cassa di libri e di altri impedimenta, e disse addio ai suoi amici.

    «Non ti dimenticherò, Jude», aggiunse, sorridendo, mentre il carretto cominciò a muoversi. «Fai il bravo, ricorda; sii buono con gli animali e gli uccelli, e leggi quanto più puoi. E se mai dovessi venire a Christminster, ricordati di venire a trovarmi, in nome della nostra vecchia amicizia».

    Il carretto cigolò sul prato e scomparve dietro l’angolo della canonica. Il ragazzo ritornò al pozzo, ai margini del prato, dove aveva lasciato i suoi secchi per andare ad aiutare il suo cliente abituale e maestro a caricare la roba. Le sue labbra tremavano, e dopo aver sollevato il coperchio per calarvi il secchio, si fermò appoggiando la fronte e le braccia contro l’orlo del pozzo; il suo volto era quello di un fanciullo pensieroso che in qualche modo ha sperimentato precocemente i dolori della vita. Il pozzo in cui fissava lo sguardo era antico quanto il villaggio, e quella prospettiva circolare finiva, a circa cento piedi più in basso, in un lucido disco di acque tremule. Sul bordo c’era uno strato di muschio verdastro e di felce a lingua cervina.

    Disse a se stesso, con il tono melodrammatico di un ragazzo fantasioso, che il maestro aveva attinto a quel pozzo un’infinità di volte in mattine come quelle, e che ora non lo avrebbe fatto mai più. «Ricordo come ci guardava dentro, proprio come faccio io adesso, quando era stanco di tirare, e si riposava un momento prima di portare a casa i secchi! Ma era troppo intelligente per fermarsi qui a lungo - in un piccolo posto sonnolento come questo!».

    Una lacrima gli scivolò dagli occhi e cadde giù nel pozzo. Era una mattinata un po’ nebbiosa, e il respiro del ragazzo si sollevava, come una nebbia più densa, nell’aria silenziosa e pesante. I suoi pensieri furono interrotti da una voce improvvisa: «Ti decidi a tirare su quell’acqua, perdigiorno e sfaccendato!».

    La voce proveniva da una vecchia, apparsa sulla soglia che dava sul piccolo cancello del giardino di una casa, con il tetto dalla copertura di ramaglie verdi, poco distante. Il ragazzo fece immediatamente un cenno di assenso, tirò l’acqua con uno sforzo non indifferente per la sua statura, poggiò a terra il grande secchio e lo svuotò in due più piccoli, e fermandosi un attimo per tirare il fiato, si avviò con essi attraverso lo spazio umido ed erboso dove sorgeva il pozzo - quasi al centro del piccolo villaggio, o meglio, del gruppo di casolari di Marygreen.

    Era un villaggio antico e piccolo, situato nella conca di un altopiano ondulato, non distante dalle colline settentrionali del Wessex. Per quanto vecchio, comunque, il pozzo era probabilmente l’unico vestigio della storia locale rimasto completamente immutato. Molte casupole con il tetto ricoperto di paglia e con gli abbaini erano state demolite negli anni precedenti, e molti alberi erano stati abbattuti al suolo. Tra queste, l’antica chiesa dalla torricella di legno, singolarmente storta e gobba, era stata demolita e in parte ridotta a un mucchio di pietrisco per la manutenzione della strada, o utilizzata per costruire le mura dei porcili, sedili di giardino, chiusure di siepi, o giardini rocciosi per le aiuole dei vicini. Al suo posto un’alta costruzione moderna, di stile gotico e poco familiare agli occhi degli inglesi, era stata eretta su un nuovo appezzamento di terreno da qualcuno che amava cancellare le testimonianze storiche e che a tal fine era andato e tornato da Londra in un giorno. Del luogo, su cui aveva dominato per così tanto tempo l’antico tempio alle divinità cristiane, non restava ormai traccia nemmeno sulla superficie verde che da tempi immemorabili era stato il cimitero, le cui tombe abbandonate erano commemorate con croci di ghisa da diciotto penny e garantite per la durata di cinque anni.

    II

    Per quanto fosse di costituzione gracile, Jude Fawley portò i due secchi d’acqua ricolmi fino a casa, senza fermarsi. Sulla porta c’era una piccola insegna azzurra rettangolare, su cui si leggeva a caratteri gialli: Drusilla Fawley. Fornaia. Era una delle poche case vecchie rimaste; e dietro i piccoli vetri impiombati si scorgevano cinque barattoli di dolciumi e tre ciambelle sopra un piatto di maiolica azzurra stampata.

    Mentre stava svuotando i secchi nel retrobottega, Jude potè ascoltare una conversazione animata, in corso sulla soglia della porta, tra la sua prozia, la Drusilla dell’insegna, e alcune donne del villaggio. Avendo visto partire il maestro, stavano ricapitolando i particolari dell’evento, e si lasciavano andare a predizioni sul suo futuro.

    «Chi è costui?», chiese una donna giunta da poco nel villaggio, quando entrò il ragazzo.

    «Avete ragione a chiederlo, signora Williams. È il mio pronipote... giunto qui poco dopo la vostra ultima visita». La vecchia che aveva risposto era una donna alta e magra, che parlava con tono tragico delle cose più insignificanti, e regalava ad ognuno una frase del suo discorso. «È venuto da Mellstock, nel Wessex meridionale, circa un anno fa... ha avuto una brutta sorte, Belinda (girandosi a destra); lì viveva con suo padre che, preso dalla febbre, morì nel giro di due giorni, come ben sapete Caroline (girandosi a sinistra). Sarebbe stata una benedizione se Iddio Onnipotente avesse preso anche te con tuo padre e tua madre, povero e inutile ragazzo. Invece l’ho preso qui con me fino a quando deciderò cosa fare con lui, sebbene sia costretta a fargli guadagnare quei pochi soldi che può. Al momento fa lo spaventapasseri per il fattore Troutham. Almeno così evita di combinare guai. Ma perché ti volti dall’altra parte, Jude?», continuò, mentre il ragazzo avvertendo i loro sguardi come schiaffi sul viso, si era fatto in disparte.

    La lavandaia del luogo replicò che la signora o signorina Fawley (infatti la chiamavano indifferentemente in entrambi i modi) aveva avuto una buona idea a tenerlo con lei: «Vi tiene compagnia quando siete sola, va a prendere l’acqua, mette su le imposte la sera, e vi aiuta, per quel poco che può, a fare il pane».

    La signora Fawley aveva un’aria per niente convinta. «Perché non hai detto al maestro di portarti con lui a Christminster e fare di te uno scolaro», continuò, corrugando la fronte e prendendolo in giro. «Sono certa che non avrebbe potuto scegliere di meglio. Il ragazzo va pazzo per i libri. È una passione di famiglia. Sua cugina Sue è lo stesso... così ho sentito dire, perché non la vedo da anni, sebbene sia nata proprio qui, tra queste quattro mura. Mia nipote e suo marito, dopo il loro matrimonio, non ebbero una casa propria per molti anni, e ne ebbero una soltanto... Ma è meglio non parlarne. Jude, ragazzo mio, tu non sposarti mai. I Fawley non sono fatti per il matrimonio. Lei, la loro unica figlia, l’ho cresciuta come se fosse stata mia, Belinda, fino a quando si separarono! Ah, pensare che una giovane fanciulla abbia dovuto vedere certe cose!».

    Jude, avvertendo che l’attenzione generale era di nuovo rivolta su di lui, uscì e si diresse al forno, dove mangiò la ciambella destinata alla sua colazione. L’intervallo era ormai finito; uscì dal giardino, scavalcando lo steccato sul retro della casa, e imboccò un sentiero che andava verso nord, finché giunse nei pressi di una conca ampia e solitaria, sull’altopiano prevalentemente pianeggiante, coltivata a grano. Questo vasto bacino era il teatro delle sue fatiche per il fattore Troutham, lo discese e andò a mettersi al centro.

    La scura superficie del campo si innalzava tutt’intorno verso il cielo, perdendosi gradatamente nella nebbia che ne celava i confini, accentuandone la solitudine. L’uniformità della scena era rotta da un pagliaio in mezzo al terreno arato, dai corvi che si alzarono in volo al suo arrivo e dal sentiero che attraversava la maggese da cui era venuto, battuto da gente che a stento conosceva, ma un tempo familiare a molti membri della sua famiglia ormai scomparsa.

    «Che brutto posto!», mormorò.

    I solchi tracciati di fresco dall’erpice sembravano estendersi come le righe in un pezzo di velluto a coste, conferendo a quella distesa un aspetto utilitario, togliendole ogni gradazione e privandola di tutta la sua storia che non fosse quella degli ultimissimi mesi; sebbene a ogni zolla e ogni pietra fossero legati tanti ricordi ed echeggiassero di antiche canzoni di mietitura, di discorsi, e di dure fatiche. Ogni palmo del terreno era stato, prima o poi, teatro di forza, di gioia, di giochi scatenati, di alterchi, di stanchezze. Gruppi di spigolatrici si erano piegate su ogni zolla sotto il sole. I matrimoni che avevano popolato il piccolo villaggio circostante erano nati lì, nell’intervallo tra la mietitura e il trasporto del raccolto alla fattoria. Sotto la siepe che divideva il campo da una piantagione distante molte ragazze si erano concesse ai loro corteggiatori che alla raccolta dell’anno dopo non si voltavano nemmeno a guardarle; e in quel vecchio campo più di un uomo aveva fatto promesse d’amore a qualche donna la cui voce l’aveva fatto tremare di dispetto al tempo della semina l’anno seguente, quando quelle promesse erano state già santificate nella chiesa vicina. Ma Jude non pensava a tutto questo, né ci pensavano i corvi là intorno. Per lui quella distesa solitaria rappresentava solo il luogo di lavoro, e per i corvi un granaio dove beccare tranquillamente. Il ragazzo, in piedi presso il pagliaio sopra menzionato, faceva girare energicamente, a intervalli di pochi secondi, la raganella. Ad ogni colpo i corvi smettevano di beccare, si alzavano in volo, allontanandosi sulle pigre ali, lucide come piastre di armatura, e tornavano poco dopo a volteggiare sul campo, osservandolo con circospezione, e scendevano a beccare a una distanza più ragguardevole.

    Fece suonare la raganella finché si sentì dolere le braccia, e alla fine provò compassione per quel loro desiderio contrastato. Sembravano, proprio come lui, vivere in un mondo che li rifiutava. Perché avrebbe dovuto spaventarli? Gli sembravano quasi dei buoni amici - i soli amici che potesse vantare e che in qualche modo si interessassero a lui - poiché la zia gli ripeteva continuamente di non volergli bene. Smise di far girare la raganella, ed essi vennero di nuovo a posarsi sul campo.

    «Poveri cari!», disse Jude ad alta voce. «Dovete avere anche voi qualcosa da mangiare. Ce n’è abbastanza per tutti. Il fattore Troutham non andrà in rovina se ne prenderete un po’. Mangiate, quindi, miei cari uccellini e godetevi il vostro cibo!».

    Gli uccelli, macchie nere come l’inchiostro su quel suolo brunastro, si fermarono a beccare il grano, mentre Jude osservava con gioia il loro appetito. Un filo invisibile, quasi magico, di simpatia univa le loro vite. Quella loro grama e triste esistenza era molto simile alla sua.

    Gettò via la raganella, considerandola un sordido e spregevole strumento che offendeva non solo gli uccelli, ma anche lui, in quanto loro amico. All’improvviso avvertì un colpo doloroso alla natica, seguito da un suono forte e secco, che gli fece capire, con grande sorpresa, di essere stato colpito con il suo stesso strumento. Gli uccelli e Jude trasalirono contemporaneamente, e gli occhi stupefatti del ragazzo videro il fattore in persona, proprio il grosso Troutham, con il volto rosso e lo sguardo torvo a fissare la sua persona tremante, che agitava in aria la raganella.

    «È così: Mangiate miei cari uccellini, non è vero giovanotto? Mangiate cari uccellini. È vero? Ti solleticherò le natiche e vedremo se dirai ancora con tanta premura Mangiate uccellini! E prima, invece di correre subito qui, sei stato a perdere tempo con il maestro, eh? Ecco come ti guadagni il tuo mezzo scellino al giorno, per tenere lontano i corvi dal mio seminato!».

    Mentre le orecchie di Jude erano colpite da questa furibonda invettiva, Troutham afferrò la mano sinistra del ragazzo e facendo roteare la sua esile figura con il braccio teso, lo colpì ripetutamente sulle natiche con la superficie piana della raganella, finché il campo fu pieno degli echi dei colpi, assestati a coppia a ogni rotazione.

    «Non fatelo, signore... vi prego non fatelo!», gridava il bambino che girava vorticosamente, non riuscendo a reagire sotto la spinta della forza centrifuga, come succede al pesce preso all’amo che penzola fuor d’acqua, e vedeva la collina, la siepe, la piantagione, il sentiero e le cornacchie girargli intorno in una spaventosa ridda. «Io... Io... signore... volevo dire che... c’era frumento in abbondanza sul terreno... l’ho visto seminare... e le cornacchie potevano prenderne un po’... senza che ciò vi danneggiasse, signore... e il signor Phillotson mi ha detto che devo essere buono con loro... Ahi, ahi, ahi!».

    Questa sincera spiegazione sembrò fare infuriare ulteriormente il fattore - forse non avrebbe reagito così nemmeno se Jude avesse negato fermamente di aver detto quelle parole - e continuò ad assestare sul ragazzo colpi così violenti, che il suono dello strumento riecheggiò per tutto il campo e giunse fino alle orecchie dei contadini che lavoravano a distanza, i quali pensarono che Jude compiva il suo dovere con la raganella molto assiduamente; e l’eco giunse fino al campanile avvolto nella nebbia, fino alla chiesa nuova, alla cui costruzione il fattore aveva generosamente contribuito, a testimonianza del suo amore per Dio e per il prossimo.

    Ben presto Troutham si sentì stanco e, lasciando il ragazzo tremante sulle gambe, trasse di tasca un mezzo scellino e glielo diede in pagamento della sua giornata di lavoro, dicendogli di andarsene a casa e di non farsi vedere mai più su quei campi.

    Jude si liberò con un balzo dalla presa, e si incamminò lungo il sentiero piangendo - non per i colpi ricevuti, sebbene fossero stati abbastanza forti, né per aver preso coscienza dei difetti nell’ordine terrestre, dove ciò che era giusto per gli uccelli di Dio era sbagliato per il giardiniere di Dio; piangeva perché pensava con terrore di essersi disonorato dinanzi a tutti dopo nemmeno un anno che era giunto nel villaggio, e che d’ora in poi sarebbe stato un peso per la prozia per tutta la vita.

    Assillato da questo pensiero, non ebbe il coraggio di farsi vedere al villaggio, e tornò a casa per una via traversa, costeggiando un’alta siepe, attraverso un pascolo. Qui scorse una grossa quantità di lombrichi, semidistesi a coppia sul terreno umido, come facevano di solito in quel periodo dell’anno con quel tempo. Era impossibile avanzare normalmente senza schiacciarne alcuni ad ogni passo.

    Sebbene il fattore Troutham lo avesse appena picchiato, era un ragazzo che non sopportava l’idea di dover fare del male a qualcuno o a qualcosa. Non aveva mai portato a casa un nido di uccellini implumi senza passare la notte insonne per il rimorso, e spesso li rimetteva al loro posto insieme al nido la mattina seguente. Non sopportava la vista degli alberi tagliati o potati, perché pensava che ne soffrissero; e vedere potare le piante a stagione avanzata quando già la linfa saliva e l’albero pareva che sanguinasse a profusione, era stata per lui, fin dall’infanzia, una sofferenza. Questa sua debolezza di carattere, se così vogliamo chiamarla, faceva supporre che era destinato a soffrire molto, prima che il sipario calasse sulla scena della sua inutile vita e gli restituisse la pace. Camminò attentamente in punta di piedi tra i lombrichi, senza schiacciarne nemmeno uno.

    Entrando in casa, trovò la zia che stava vendendo una piccola pagnotta a una ragazzina, e quando la piccola cliente se ne fu andata, disse: «Come mai sei di ritorno a metà della mattinata?»

    «Sono stato mandato via».

    «Cosa?»

    «Il signor Troutham mi ha scacciato perché ho lasciato che le cornacchie beccassero un po’ del suo grano. Ecco la mia paga, l’ultima!».

    Lasciò cadere con aria tragica il mezzo scellino sul tavolo.

    «Ah!», disse la zia, trattenendo il respiro. E cominciò a fargli una ramanzina, dicendogli che ora avrebbe dovuto mantenerlo sulle sue spalle per tutta la primavera senza far nulla. «Se non sei nemmeno capace a spaventare gli uccelli, sai dirmi cosa sai fare? Andiamo, non avere quell’aria disperata! Il fattore Troutham non è molto meglio di me, mettitelo in testa. È proprio come dice Giobbe Ora si fan beffe di me i più giovani di me, i cui padri io rifiutavo di annoverare fra i cani del mio gregge. Suo padre era il bracciante a giornata di mio padre, e in ogni modo devo essere stata una pazza a mandarti a lavorare per lui; ma ho solo cercato, in questo modo, di tenerti fuori dai guai».

    Arrabbiata con Jude più per il fatto che l’aveva disonorata che per la negligenza mostrata nel suo compito, lo rimproverò in primo luogo per quello, e solo in seguito il rimprovero assunse un intento morale.

    «Non avresti dovuto lasciare mangiare agli uccelli ciò che il fattore Troutham aveva seminato. Naturalmente hai sbagliato in ciò. Oh Jude, Jude, perché non sei andato via con quel tuo maestro a Christminster o da qualche altra parte? Ma, oh no - povero bambino stupido - nessuno della tua famiglia ha mai fatto nulla di buono e non vedo come possa riuscirci tu!».

    «Dov’è questa bella città zia... questo luogo dove è andato il signor Phillotson?», chiese il ragazzo dopo aver meditato in silenzio.

    «Oh Signore! Dovresti sapere dove è la città di Christminster. A circa venti miglia da qui. È un luogo troppo bello perché possa mai avere a che fare qualcosa con te, povero figliolo!».

    «E il signor Phillotson resterà sempre lì?»

    «Come posso dirlo?»

    «Non potrei andarlo a trovare?»

    «Oh no, per l’amor di Dio! Tu non sei cresciuto da queste parti, altrimenti non faresti domande del genere. Non abbiamo mai avuto niente a che fare con la gente di Christminster, né loro hanno mai avuto nulla a che fare con noi».

    Jude uscì, persuaso più che mai di non interessare a nessuno, e si sdraiò su un mucchio di paglia vicino il porcile. A quell’ora la nebbia si era un po’ diradata e si riusciva a intravedere la posizione del sole. Si calò il cappello di paglia sul viso, e scrutando attraverso gli interstizi quel bagliore lattescente, cominciò a meditare confusamente. Scoprì che diventare adulti comportava delle responsabilità. Gli eventi non si succedevano in maniera armonica come aveva pensato. La logica della natura era troppo orribile per interessarsene. Il suo senso dell’armonia era turbato dal pensiero che la compassione per quegli uccelli era disonestà verso qualcun altro. Quando si cresce e si sente di essere al centro, e non in un punto qualsiasi, del cerchio della vita, si deve provare una specie di brivido. Come se tutt’intorno ci fosse qualcosa di abbagliante, di rumoroso, e quel bagliore e quel frastuono urtassero contro la piccola cellula chiamata vita, scuotendola e incendiandola.

    Ah, se solo avesse potuto impedire a se stesso di crescere! Non voleva diventare un uomo.

    Poi, come è naturale per un ragazzo, dimenticò il suo sconforto e balzò in piedi. Durante il resto della mattinata aiutò la zia, e nel pomeriggio, quando non ebbe più niente da fare, andò al villaggio. Qui chiese a un uomo dove si trovava Christminster.

    «Christminster? Bene, laggiù, sebbene io non ci sia mai stato... non io. Non ho mai avuto niente a che fare con quel luogo».

    L’uomo indicò verso nord est, proprio nella direzione in cui si trovava il campo in cui Jude era caduto in disgrazia. In un primo momento quella coincidenza gli parve sgradevole, ma il timore di questo fatto non fece altro che aumentare la sua curiosità per la città. Il fattore gli aveva detto di non farsi vedere mai più in quel campo; ma per andare a Christminster bisognava attraversarlo, e il sentiero era di tutti. Così, uscì alla chetichella dal villaggio e scese nella stessa conca che era stata testimone della sua punizione quella mattina, senza mai sconfinare di un centimetro dal sentiero, risalì la costa lunga e monotona dall’altra parte, finché il sentiero non si ricongiunse, dopo un gruppo d’alberi, alla strada principale. Qui finivano i campi arati, e dinanzi a lui si spiegava una distesa solitaria.

    III

    Sulla strada principale priva di siepi, o ai suoi margini, non si vedeva un’anima viva, e la striscia bianca sembrava salire e restringersi fino a toccare il cielo. Proprio in fondo era attraversata ad angolo retto da un sentiero verde - la Icknield Street, antica strada romana che attraversava quel distretto. Questa antica strada correva da est a ovest per molte miglia e a memoria d’uomo era stata usata per condurre mandrie e greggi alle fiere e ai mercati. Ma ora era abbandonata e coperta di erbacce.

    Il ragazzo non si era mai spinto così lontano dal suo villaggio, dove alcuni mesi prima, in una notte buia, era stato portato dal corriere da una stazione ferroviaria più a sud, e non aveva mai immaginato che un tratto di terra così vasto e pianeggiante potesse estendersi là vicino, proprio ai confini del suo altopiano. Dinanzi a lui si apriva, da est a ovest, tutta la distesa della parte settentrionale per quaranta o cinquanta miglia; l’aria che respirava lassù era certamente più azzurra e più umida di quella del villaggio.

    Non lontano dalla strada sorgeva un vecchio capanno, battuto dalle intemperie, dai mattoni rosso cupo e con la copertura in tegole. Era conosciuto dalla gente del luogo come la Casa Bruna. Mentre stava per passarvi oltre, notò una scala a pioli poggiata contro la grondaia; si fermò a guardarla pensando che se vi si fosse arrampicato fino in cima avrebbe avuto una vista migliore. Due uomini stavano aggiustando le tegole sul tetto. Imboccò un viottolo e si diresse verso il capanno.

    Dopo aver osservato in silenzio i due uomini per un po’ di tempo, si fece coraggio e si arrampicò sulla scala fino a giungere alle loro spalle.

    «Ehi, ragazzo, cosa cerchi quassù?»

    «Vorrei sapere dov’è Christminster, se non vi dispiace».

    «Christminster è laggiù, presso quel gruppo di alberi. Da qui puoi vederla... o meglio, potresti vederla se il cielo fosse limpido. Ma oggi non credo proprio».

    L’altro conciatetti, felice di distrarsi dalla monotonia del suo lavoro, si era voltato anche lui a guardare nella direzione indicata. «Con questo tempo raramente si riesce a vederla», disse. «Io l’ho vista una volta, al tramonto, come in un riverbero di fiamme, e sembrava quasi... non saprei dire cosa».

    «La Gerusalemme Celeste», suggerì seriamente il fanciullo.

    «Sì... anche se non avrei mai pensato a un paragone del genere... Comunque oggi non si riesce a vederla».

    Il ragazzo aguzzò lo sguardo, ma nemmeno lui riuscì a vedere quella città lontana. Scese dal tetto della baracca e, abbandonato il pensiero di Christminster, con la volubilità dei suoi anni, si incamminò lungo il viottolo, alla ricerca di qualche oggetto interessante nei dintorni e ai margini della strada. Sulla strada del ritorno per Marygreen, nei pressi del capanno, vide che la scala era ancora al suo posto, ma gli uomini avevano terminato la loro giornata di lavoro ed erano andati via.

    Era quasi sera; persisteva ancora una leggera foschia e in alcuni tratti si era alzata del tutto, tranne nella bassa pianura e lungo il corso dei fiumi. I suoi pensieri andarono ancora una volta a Christminster, e avrebbe desiderato vedere almeno per un momento, essendosi allontanato dalla casa della zia di due o tre miglia proprio per questo motivo, quella seducente città di cui aveva tanto sentito parlare. Ma anche se si fosse fermato ancora, difficilmente il cielo si sarebbe schiarito prima di notte. Tuttavia gli dispiaceva lasciare quel luogo, poiché quell’ampia distesa a nord sarebbe scomparsa dalla sua vista dopo qualche centinaio di metri.

    Salì di nuovo sulla scala per dare un’ultima occhiata nella direzione indicata dagli uomini, e si fermò sul piolo più alto, a livello del tetto. Non avrebbe più avuto la possibilità di tornare lassù per molti giorni. Se pregava, forse il suo desiderio di vedere Christminster sarebbe stato esaudito. Aveva sentito dire che spesso, ma non sempre, le preghiere venivano esaudite. Aveva letto in un libretto di un uomo che aveva cominciato a costruire una chiesa e, non avendo soldi per portarla a termine, si era inginocchiato a pregare e il denaro gli era giunto con la prima vettura postale. Un altro uomo aveva fatto la stessa cosa, senza ricevere però il denaro; ma in seguito scoprì che i pantaloni che indossava quando si era inginocchiato erano stati confezionati da un ebreo malvagio. Non si scoraggiò per questo e, voltatosi sulla scala, si inginocchiò sul terzo piolo, reggendosi agli altri due, e pregò che la nebbia si diradasse.

    Poi si mise a sedere di nuovo e rimase in attesa. Nel giro di una decina di minuti, la nebbia, che era diventata meno fitta, si diradò completamente all’orizzonte, come aveva fatto già altrove, e un quarto d’ora prima del tramonto le nuvole a occidente si aprirono e, essendo il sole parzialmente coperto, lasciarono filtrare i suoi raggi a strisce tra due muri di nuvole azzurrognole. Il ragazzo si voltò subito a guardare nella direzione che gli interessava.

    Quella striscia luminosa di paesaggio era disseminata di punti che brillavano come topazi. Con il passare dei minuti il cielo diventava sempre più chiaro, finché quei punti scintillanti si rivelarono delle banderuole, finestre, tetti dalle tegole d’ardesia bagnati, e altri punti scintillanti sulle guglie, cupole, costruzioni in pietra e linee diverse leggermente in rilievo. Era, senza dubbio, Christminster, oppure un suo miraggio prodotto da quella particolare atmosfera.

    Il ragazzo rimase a guardare finché le finestre e le banderuole persero il loro bagliore, spegnendosi quasi improvvisamente come candele. La città lontana fu riavvolta dalla nebbia. Guardando a ovest, vide che il sole era scomparso. Lo sfondo di quella scena era stato inghiottito da un’oscurità funerea, e gli oggetti vicini avevano assunto tinte e forme spettrali.

    Scese in fretta dalla scala e cominciò a correre verso casa, cercando di non pensare ai giganti, a Herne il Cacciatore, ad Apollyon in agguato di Christian, al capitano dal foro sanguinante sulla fronte, circondato dai cadaveri che ogni notte si ammutinano sulla nave stregata. Era chiaro che non credeva più a questi orrori, tuttavia si sentì risollevato quando vide il campanile e la luce che illuminava le finestre della casa, sebbene non fosse quella dove era nato e la zia non si interessasse a lui.

    Dentro e attorno alla vetrina della bottega di quella vecchia donna, con i suoi ventiquattro piccoli vetri impiombati, alcuni dei quali così ossidati dal tempo, che a stento si riusciva a vedere la merce da pochi soldi che vi era esposta e che un solo uomo robusto avrebbe potuto portare via, Jude trascorse la sua vita per un lungo e monotono periodo di tempo. Ma quanto più il luogo era angusto, tanto più grandi erano i suoi sogni.

    Al di là della solida barriera del freddo e argilloso altopiano, verso nord, egli vedeva sempre una meravigliosa città - il luogo incantato che aveva paragonato alla nuova Gerusalemme, sebbene nei suoi sogni ci fosse più la fantasia di un pittore che quella di un mercante di diamanti, come nella visione dello scrittore dell’Apocalisse. E la città acquistava una tangibilità, una solidità, un’influenza sulla sua vita, per il solo fatto che l’uomo che lui venerava per il suo sapere e le sue aspirazioni viveva difatti in quel luogo; e non solo, ma viveva tra le menti più profonde e brillanti del luogo.

    Nelle giornate tristi e piovose, pur sapendo che anche a Christminster c’era un tempo simile, non riusciva a credere che laggiù la pioggia fosse così cupa. Ogni volta che poteva lasciare il villaggio per un paio d’ore, e questo non succedeva spesso, si dirigeva di nascosto alla Casa Bruna sulla collina e tendeva intensamente lo sguardo; a volte ricompensato dalla vista di una cupola o di un campanile, altre volte invece da qualche spirale di fumo, a cui attribuiva un significato mistico, come quello dell’incenso.

    Un giorno improvvisamente pensò che, salendo al suo osservatorio di sera, o spingendosi di un paio di miglia più avanti, avrebbe potuto vedere le luci della città. Sarebbe stato costretto a tornare indietro da solo, ma neanche quella considerazione riuscì a scoraggiarlo, poiché era certo di poter affrontare l’impresa con coraggio e virilità.

    Mise subito in atto il suo progetto. Quando giunse al suo osservatorio, poco dopo il crepuscolo, non era ancora buio; ma l’oscuro cielo a nord est e il vento che soffiava dalla stessa direzione non rendevano certamente allegro il posto. Alla fine fu ricompensato; ma quello che vide non furono lampade in fila, come si aspettava. Non si discernevano luci distinte, ma solo un alone, una nebbia luminosa che sovrastava la città come un grande arco sotto il cielo cupo, facendo sembrare le luci e la città poco distanti.

    Si mise a fantasticare in quale punto esatto di quel chiarore si potesse trovare il maestro, l’amico che non si era più fatto vivo con nessuno a Marygreen, e per loro era ormai come morto. In quel bagliore gli sembrava di vedere Phillotson passeggiare tranquillamente, come una delle figure nella fornace di Nabucodonosor. 4 Ricordò di aver sentito dire che il vento viaggia ad una velocità di dieci miglia all’ora. Aprì le labbra, volgendosi a nord est, e lasciò che il vento gli scivolasse in gola come un dolce liquore.

    «Tu», disse alla brezza dolcemente, «qualche ora fa eri a Christminster, fluttuando per le strade, facendo girare le banderuole, sfiorando il viso del signor Phillotson e respirato da lui; e ora sei qui, respirato da me».

    Ad un tratto gli parve che il vento trascinasse qualcosa verso di lui... un messaggio da quel luogo da parte di qualche anima. Certo era il suono delle campane, la voce della città, debole e armoniosa, che lo chiamava: «Siamo felici qui!».

    Durante quel rapimento aveva perso ogni cognizione della realtà circostante, a cui fu richiamato bruscamente. A pochi metri, sotto il ciglio della collina su cui si era fermato, apparve una coppia di cavalli, che dopo una salita tortuosa di mezz’ora era giunta in cima all’interminabile declivio. Trainavano un carico di carbone, combustibile che poteva giungere su quell’altopiano solo per quella strada. Erano guidati da un carrettiere, accompagnato da un uomo e un ragazzo, che ora metteva una grossa pietra dietro una delle ruote del carro, per permettere ai cavalli ansanti di riposarsi poco, mentre i due uomini tirarono fuori un fiasco e si ristorarono con una buona bevuta.

    Erano uomini anziani, dalla voce gioviale. Jude si rivolse a loro, chiedendo se venivano da Christminster.

    «Per l’amor del cielo! Con questo carico!».

    «Venite da laggiù, intendo dire». La sua passione per Christminster lo rendeva così timido che non osava pronunciare di nuovo quel nome, come l’innamorato quando allude alla sua adorata. Additò la striscia luminosa nel cielo, appena percettibile dai loro occhi vecchi e stanchi.

    «Sì, mi sembra di vedere un punto un po’ più chiaro, laggiù a nord est, benché non ci avessi neanche badato. Si tratterà sicuramente di Christminster».

    A questo punto, un libro di racconti che Jude aveva portato con sé per leggere strada facendo, prima che facesse buio, gli scivolò da sotto il braccio dove l’aveva infilato e cadde a terra. Il carrettiere lo guardò, mentre il ragazzo lo raccoglieva e ne ricomponeva le pagine.

    «Ah, ragazzo mio, dovresti avere un’altra testa per leggere quello che leggono laggiù».

    «Perché?», chiese il ragazzo.

    «Oh, le cose che noi non riusciamo a capire per loro non sono nemmeno degne di attenzione», disse il carrettiere, continuando la conversazione per passare il tempo. «Parlano soltanto le lingue straniere usate al tempo della Torre di Babele, quando tutti avevano lingue diverse. Essi leggono quella roba con la stessa velocità del frullo d’ali di un falco. In quella città c’è solo scienza, nient’altro che scienza e religione. Ed anche la religione è scienza a quanto pare, sebbene io non sia mai riuscito a capire il perché. È un paese di gente seria. Non che manchino le donne per strada di notte... Sappi che là allevano preti come si coltivano le rape negli orti. E sebbene ci vogliano... quanti anni Bob?... cinque anni per trasformare un giovane zotico e ignorante in un solenne predicatore, senza passioni malvagie, essi ci riescono e, da quei bravi operai che sono, lo dirozzano e lo fanno venir fuori con una faccia lunga, un lungo abito nero, panciotto, un colletto da pastore e un cappello, come si portava ai tempi delle Scritture, tanto che la sua stessa madre a volte stenta a riconoscerlo.... ecco, quello è il loro lavoro, simile a quello di nessun altro».

    «Ma come fate a sapere tutto questo?»

    «Zitto, non interrompere mai i più vecchi quando parlano. Accosta il cavallo, Bobby, sta arrivando qualcuno... Bada che ti sto parlando della vita dell’università. Vivono ad un altro livello, non c’è che dire, sebbene io non li condivida molto. Come noi ci troviamo qui col corpo su questo terreno elevato, così essi stanno con la loro mente al di sopra degli altri; alcuni di loro sono indubbiamente uomini di intelletto elevato, capaci di guadagnare un mucchio di soldi pensando ad alta voce. E ci sono altri, giovani robusti, che guadagnano quasi altrettanto nelle gare, in coppe d’argento. Per quanto riguarda la musica, bisogna dire che c’è musica dappertutto a Christminster. Puoi essere religioso o meno, ma sei costretto a unire la tua voce modesta a quella degli altri. C’è poi una via - la via principale - con la quale nessun’altra al mondo può competere. Io ne so qualcosa di Christminster».

    Nel frattempo i cavalli avevano ripreso fiato e furono di nuovo attaccati al carro. Jude, lanciando un ultimo sguardo di venerazione verso quel bagliore distante, prese la strada del ritorno, camminando al fianco di quel nuovo amico così bene informato, che non aveva alcun problema a parlare, strada facendo, delle torri, degli edifici e delle chiese di quella città. Ad un incrocio il carro svoltò, e Jude ringraziò il carrettiere calorosamente per le informazioni, dicendo che avrebbe desiderato sapere di Christminster soltanto la metà di quello che sapeva lui.

    «Lo so per sentito dire», disse il carrettiere senza voltarsi. «Non ci sono mai stato, proprio come te, ma ho raccolto le mie informazioni un po’ dappertutto e te le comunico volentieri. Girando il mondo, come faccio io, e mescolandomi con gente di tutti i ceti, si ascoltano per forza un’infinità di cose. Un mio amico che lucidava gli stivali al Crozier Hotel di Christminster, quando era giovane, me ne parlava spesso, perché in seguito era diventato per me come un fratello».

    Jude continuò la strada verso casa da solo, ed era così assorto nei suoi pensieri da dimenticare le sue paure. Di colpo era diventato adulto. Era da tanto tempo che sentiva il bisogno di trovare qualcosa a cui attaccarsi, di trovare un’ancora, un posto che poteva definire mirabile. Lo avrebbe trovato in quella città, se avesse potuto arrivarci? Era davvero quello il luogo dove, senza timore dei mezzadri, degli ostacoli, dello scherno, avrebbe potuto osservare, attendere pazientemente, e infine dedicarsi a qualche grande impresa come gli uomini del passato di cui tanto aveva sentito parlare? Come quell’alone aveva abbagliato i suoi occhi un quarto d’ora prima, così quel pensiero nuovo illuminava la sua mente e lo accompagnava lungo la via oscura.

    «È una città di luce», disse a se stesso.

    «È il luogo dove cresce l’albero della conoscenza», aggiunse dopo aver fatto pochi passi.

    «È il luogo da dove partono e dove tendono i maestri dell’umanità».

    «È come un castello abitato da dotti e da teologi».

    E dopo questa similitudine, rimase a lungo in silenzio, finché aggiunse: «È proprio il luogo che fa per me».

    IV

    Il ragazzo, un uomo maturo per certi aspetti e molto più giovane dei suoi anni per altri, camminava adagio, assorto nei suoi pensieri, quando fu raggiunto da un viandante dal passo veloce; malgrado l’oscurità, riuscì a vedere che indossava un cappello molto alto, una marsina, e una catena di orologio sballottata da una parte e dall’altra che emanava degli scintillìi metallici, mentre il suo proprietario camminava dondolandosi su un paio di gambe sottili, infilate in un paio di stivali silenziosi. Jude, che cominciava a sentirsi solo, cercò di tenere il suo passo.

    «Ebbene giovanotto! Vado di fretta, perciò devi camminare spedito se vuoi accompagnarti a me. Sai chi sono?»

    «Credo di sì! Il dottor Vilbert?»

    «Ah, vedo che sono conosciuto dappertutto. Ecco cosa vuol dire essere il benefattore dell’umanità!».

    Vilbert era un medicastro ambulante, molto noto tra i contadini, e completamente sconosciuto a tutti gli altri, come, infatti, lui stesso desiderava per evitare indagini non gradite. I suoi unici pazienti erano i contadini, e la sua vasta fama si estendeva solo tra quelli del Wessex. La sua posizione era più modesta e il suo campo più oscuro di quello degli altri ciarlatani che possedevano un capitale e un sistema pubblicitario ben organizzato. Era, infatti, un sopravvissuto. Copriva a piedi distanze enormi, in lungo e in largo, per tutto il Wessex. Un giorno Jude lo aveva visto vendere un vasetto di lardo colorato a una vecchia, come rimedio infallibile per una gamba ammalata; la donna voleva pagare una ghinea, in rate quindicinali di uno scellino, il prezioso unguento, che, a detta del medico, si poteva ottenere unicamente da un animale che pascolava sul Monte Sinai e che si poteva catturare solo a rischio della vita e delle proprie gambe. Jude aveva forti perplessità circa la scienza medica di quell’individuo, comunque, pensò che era indubbiamente un uomo che aveva viaggiato molto e su questioni non strettamente professionali poteva essere un’affidabile fonte di informazioni.

    «Suppongo che siate stato a Christminster, dottore».

    «Più di una volta», rispose l’uomo lungo e magro. «È uno dei miei centri».

    «Non è una meravigliosa città di dotti e teologi?»

    «Se tu la vedessi, non avresti più alcun dubbio, ragazzo mio. Persino i figli

    delle vecchie che fanno il bucato per le scuole parlano latino... non un buon latino, come critico devo ammetterlo, ma un latino maccheronico, un latinorum, come dicevamo quando eravamo studenti».

    «E il greco?»

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