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Una sezione volante
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E-book231 pagine3 ore

Una sezione volante

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Info su questo ebook

La dottoressa Marisa Ferreri, esperta in Archeologia medievale, è concentrata sullo scavo in una porzione di territorio accanto alla cattedrale di Villaombrosa.
Il suo mestiere, pur essendo affascinante, non nasconde quelle insidie che spesso sono celate da falsi onori e false considerazioni. Polvere e sudore, freddo e umidità accompagnano le giornate di Marisa, la quale, imperterrita, svolge il suo lavoro con passione e dedizione.
È proprio in una di queste giornate, la quale già aveva preso avvio con certe sue riflessioni amare sulla superficialità di alcuni suoi giovani collaboratori laureandi in Archeologia, che accade l’impensabile. Il ritrovamento in una sezione dello scavo di uno scheletro, assolutamente non imputabile all’epoca medievale, per opera di una sua assistente, mette in moto una serie di situazioni che conduce in un intricato dedalo di organizzazioni malavitose che operano indisturbate sul territorio da molto tempo.
Per Marisa Ferreri sarà decisivo l’incontro con l’ispettore di Polizia, Paolo Grassi, da cui scaturiranno una fruttuosa collaborazione e un rapporto speciale, risvegliando nei loro cuori sensazioni sopite dal tempo dalla noia e dall’incapacità di relazionarsi con il mondo circostante.
In Una sezione volante, Marina D’Errico ci offreuna descrizione dettagliata di quel che avviene tra gli scavi archeologici, tra i quali si insinua una storia tinta di giallo, con note avvincenti e piene di suspense.
LinguaItaliano
Data di uscita11 lug 2023
ISBN9788830686830
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    Una sezione volante - Marina D’Errico

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    Marina D’Errico

    Una sezione volante

    © 2023 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-7935-1

    I edizione luglio 2023

    Finito di stampare nel mese di luglio 2023

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Una sezione volante

    A mio padre

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    1. Una giornata particolare

    Era davvero una pessima mattinata: pioggia e fango rischiavano di compromettere irrimediabilmente lo scavo e di far franare le fragili sezioni appena aperte.

    Devo chiamare subito Gargiulo pensò Marisa mentre si accendeva la prima sigaretta della giornata; non era riuscita a smettere, nonostante i tentativi, anche perché non ci aveva mai provato seriamente; l’unica concessione era stata quella di passare dalle Gauloises al mentolo senza filtro a sigarette a basso contenuto di nicotina, ma il tentativo non aveva molto giovato alla sua pelle o alle dita ormai ingiallite. Non pensava più alle sue mani del resto… incallite come quelle di un vecchio contadino e con le unghie sempre sporche di terra, terra che non andava mai via del tutto, nonostante a fine giornata passasse ore a strofinarle e a cospargerle di crema densa, quella usata dai marinai norvegesi. Sicuramente, diceva spesso, i marinai norvegesi non avevano mai conosciuto il terreno argilloso di Villaombrosa, dove ormai aveva trascorso gran parte delle ultime settimane. Uno scavo promettente, come lo aveva definito all’inizio, dopo le prime prospezioni ed il primissimo saggio esplorativo, ma da allora di promesse non ne aveva mantenute molte e lei faticava a giustificare la sua presenza su un sito che aveva restituito poca ceramica acroma, qualche pezzo di ferro arrugginito, qualche struttura muraria di pessima fattura e poco più. Forse oggi troveremo qualcosa di interessante si diceva all’inizio di ogni giornata di scavo, cercando di motivarsi e di motivare a sua volta il piccolo gruppetto di studenti che ancora la seguiva, sperando in una valutazione positiva all’esame. La maggior parte preferiva gli scavi della necropoli di Opimia, coordinati dal professor Antonacci, che aveva già permesso di riportare alla luce interi corredi tombali, sepolture, tombe affrescate; lì sì che gli studenti arrivavano a frotte e si mettevano in coda nella lunga lista di prenotazioni per avere l’onore di scavare per una settimana o poco più con il grande professore! La sala grande del Comune, nel corso della conferenza stampa indetta per annunciare l’ultimo prezioso ritrovamento, era stracolma di giornalisti venuti da tutta Italia ed anche dall’estero; gli amici francesi, inglesi e tedeschi di Antonacci, sempre pronto al sorriso amichevole e mellifluo quando si trattava della stampa. Chi non lo conosceva probabilmente non sapeva che aveva copiato il suo look fintamente trasandato direttamente da Harrison Ford e che, come Indiana Jones, affascinava le studentesse della prima fila in posa adorante. Non aveva assolutamente niente a che fare con il fatto che fosse il suo ex; il loro campo era ben diverso: lui si occupava di Archeologia classica, lei di quella medievale, il che aveva fatto sì che i loro percorsi professionali si intrecciassero raramente (anche perché non l’avevano mai chiamata in caso di ritrovamenti d’epoca medievale in un sito d’epoca romana…). Ora si vedevano solo alle riunioni interdipartimentali che il Rettore si ostinava a convocare per condividere e pubblicizzare i nostri goals mutuando il frasario calcistico da qualche rivista di management cui era abbonato. All’ultima riunione non aveva resistito e si era allontanata con la scusa di un’ emergenza sullo scavo, cosa che si verificava abbastanza frequentemente: ora un tombarolo, ora un cittadino che protestava con i vigili urbani per chissà quale fastidio provocato da quello scavo in pieno centro. Odiava gli scavi urbani; tutti che ti stanno sul collo, che non vedono l’ora che te ne vada e lasci riprendere i lavori del cantiere, fermo per colpa di quattro cocci senza valore, nemmeno dipinti… come aveva detto l’ultimo imprenditore, seccato che una necropoli medievale si fosse fatta trovare giusto dove stava per erigere un fantastico grattacielo di nove piani, proprio di fronte alla cattedrale di Villaombrosa; un obbrobrio a giudicare dall’immagine del progetto sul cartello antistante il cantiere che, chissà perché, il Sovrintendente non aveva bloccato… Ora, dopo la scoperta delle prime sepolture, aveva dovuto farlo per forza raccomandandole celerità e precisione. Inutile fargli notare che si trattava di una specie di ossimoro e che l’archeologia non va d’accordo con la fretta e la superficialità, ma lui si era appellato alla sua ben nota professionalità per riuscire nell’intento. Avrebbe dovuto darle più fondi, più mezzi, più personale mentre le toccava solo il solito gruppetto di studenti inesperti, i due operai che ormai conosceva da anni (Roberto e Antonio), fidati ma poco efficienti: l’uno per una miopia gravissima, l’altro per l’età ormai avanzata. Roberto, dei due, era senz’altro il migliore perché, nonostante l’abbassamento della vista, aveva il fiuto di un segugio ed era stato più volte in grado di scovare delle monete mentre demoliva un crollo e di farle osservazioni più acute dei suoi pregevoli studenti; Antonio, invece, con la sciatica e la sua propensione a bere vino durante la pausa e la sua congenita pigrizia, riusciva a malapena a stare al passo di Roberto benché fosse fisicamente il doppio di lui. Ma li teneva entrambi; l’uno perché aveva la moglie bambina che aveva messo incinta da mantenere e l’altro perché era disoccupato da anni, dopo aver lavorato una vita in Germania come muratore; lo aveva assunto per i lavori di sterro del sito di Aprimentum dieci anni prima e da allora faceva praticamente parte del suo team. Il suo team! In realtà erano lei e il suo assistente Gargiulo a dirigere l’allegra combriccola di ragazzine, (dato che gli studenti del corso di laurea specialistica in Archeologia erano per il 99% ragazze), sempre preoccupate di spezzarsi un’unghia o di rovinarsi i capelli e che non erano in grado di sollevare un secchio senza lanciare lancinanti grida di dolore. Perché si iscrivevano ad Archeologia, si chiedeva sempre, se non sono in grado di sopportare nemmeno il sacrificio di non vedere un parrucchiere per due settimane? Lei ormai lo aveva dimenticato da tempo dato che aveva rinunciato a tingersi i capelli e li tagliava corti appena possibile; non come certe colleghe che indossavano i guanti di lattice sullo scavo… Come si fa a percepire la consistenza di uno strato con i guanti? pensava.

    Ora però la pioggia si faceva più insistente e occorreva correre ai ripari.

    «Gargiulo? Ti ho svegliato? Sì, scusa l’ora, ma hai visto che pioggia? Ho paura che dovremo andare a vedere se è stato coperto bene il saggio con i teloni di plastica o troveremo solo pozzanghere domani. Sì, lo so che è domenica, ma non c’è tempo da perdere… Va bene io mi avvio… Ah, mi vieni a prendere? Ok, allora aspetto e… grazie, come sempre».

    «Dovere» aveva risposto, come un appuntato dei Carabinieri. Le era dispiaciuto doverlo chiamare così presto ma non c’era altro da fare. Si vestì in fretta e, pochi minuti dopo, arrivò il mini

    suv

    di Gargiulo, ancora insonnolito, ma vestito e attrezzato per la loro missione di salvataggio.

    «Grazie, Gargiulo, lo so che ti ho svegliato ed ho anche svegliato la bambina… come sta?».

    «Ultimamente fa sempre più fatica ad addormentarsi; il pediatra ha detto che succede nei primi mesi ma, francamente, siamo un po’ preoccupati… Eccoci arrivati».

    Le strade deserte avevano accelerato il percorso verso il cantiere di scavo, che si apriva come una voragine nella piazza principale del piccolo centro di Villaombrosa, dominato dalla cattedrale romanica del

    xii

    secolo.

    «Vedi, se fossimo arrivati più tardi avremmo trovato un lago al posto del saggio. Qualcuno ha tolto la copertura, come sempre. Quando la smetteranno, mi chiedo! Non capiscono che più ci rallentano, più tardi ce ne andiamo da questo maledetto paese? Aiutami: vediamo cosa possiamo fare».

    Lavorarono sotto la pioggia battente per mezz’ora, ma alla fine riuscirono a coprire il sondaggio appena aperto nel cortile del futuro grattacielo della ditta Buonconvento che aveva lasciato, ad incessante monito, le ruspe e le scavatrici nei pressi dello scavo.

    «Che ne dici di un caffè? Ti devo una colazione» disse Marisa afflitta da un improvviso senso di colpa verso Gargiulo.

    «No, non preoccuparti… Che ne dici piuttosto di fare un salto ad Aprimentum? Potremmo scacciare qualche visitatore disse lui, animato da un improvviso furor archeologico.

    «No, Gargiulo, stamattina non credo che sia il caso di andare a caccia di tombaroli; e poi chi vuoi che ci sia a quest’ora?» disse; lo sforzo e la pioggia l’avevano decisamente abbattuta.

    «Ma se la settimana scorsa erano in quattro sotto il temporale con i loro metal detector e tutta l’attrezzatura!» ribatté Gargiulo con fare indomito.

    «E se ti picchiassero mentre fai il lone ranger degli scavi? No, è troppo pericoloso, non devi farlo più; sai che gente è…» disse preoccupata per l’incolumità di Gargiulo, che spesso dimenticava di essere un padre di famiglia.

    «Ma no, sono solo dei ragazzini che vengono pagati una miseria… Sono gli altri ad essere pericolosi, i compratori; sai che nel corso dell’ultimo sequestro i Carabinieri hanno trovato della refurtiva che proveniva proprio da Aprimentum nella macchina del dottor Livieri, il celebre dentista?». Ne aveva sentito parlare di quello scandalo che aveva ravvivato la cronaca locale per settimane.

    «Sì, ma ora torniamo a casa; vai dalla tua bambina e lascia fare ai Carabinieri…». Voleva solo andare a casa, non a caccia di tombaroli.

    «Sì, quelli non hanno niente di meglio da fare che presidiare il sito…» le rispose Gargiulo «Con tutte le cosche che si fanno l’ennesima guerra…».

    «Ecco, non ne cominciamo un’altra» rispose lei «Quelle vere bastano e avanzano… accompagnami a casa, se non ti spiace…» disse accendendosi la quinta sigaretta della giornata.

    Arrivata a casa si buttò sotto la doccia bollente e cercò di rilassarsi con un caffè altrettanto bollente e Michel Petrucciani. Poi si ricordò che erano solo le otto e i suoi vicini nottambuli avrebbero potuto protestare per la musica (senza considerare il casino che combinavano loro tornandosene a notte fonda…). Era abituata ad alzarsi presto dato che era sullo scavo già alle sette per controllare i materiali e l’attrezzatura. Le studentesse e gli operai sarebbero arrivati per le otto, con calma, soprattutto le nuove, poco avvezze alle fatiche da muratore degli archeologi. Nessuno le preparava a questo: i manuali non dicevano nulla del sudore, del caldo appiccicoso estivo o dell’umidità penetrante invernale; della terra e dello sporco che ti copre da capo a piedi, del mal di schiena dopo essere rimasta a testa in giù a scavare in una tomba… la fatica era principalmente il motivo che metteva ko la maggior parte degli studenti che, dopo le due settimane di rito necessarie per superare l’esame, raramente si ripresentavano o preferivano esperienze più gratificanti dato che le scoperte raramente andavano aldilà di qualche coccio di ceramica acroma, qualche monetina (se andava bene), ossa umane e qualche raro battuto in argilla; niente di paragonabile ai mosaici policromi di Opimia. Quello sì che era uno scavo! Grazie ai fondi dell’università, l’esimio collega aveva tutto: computer, teodoliti di ultima generazione, persino caschi e protezioni che in realtà non servivano dato che il sito era in pianura ed in aperta campagna. Loro invece i caschi avevano dovuto farseli prestare dagli operai del cantiere – quando era stato chiaro che le lungaggini burocratiche non li avrebbero fatti arrivare in tempo – per impedire che il terreno franasse intorno a loro o che una conduttura dell’acqua li colpisse in testa. Lo scavo urbano, la bestia nera dell’archeologo, era toccato proprio a lei, ed ora doveva muoversi ed anche in fretta se voleva riuscire a salvare il salvabile. Da quando era stata scoperta la prima deposizione qualche mese prima, aveva dovuto lottare anche contro il tempo per evitare che qualcuno andasse nottetempo a cercare chissà quali tesori.

    Lunedì mattina, alle sette e mezza, vide arrivare Gargiulo con Mauro e le due studentesse migliori del gruppo, Tilde e Maria, forse un po’ pedanti ma almeno puntuali, con i loro quadernetti per prendere appunti sempre pronti, ma che andavano nel pallone ogni volta che non riuscivano a mettere in bolla il teodolite o se dallo scavo emergeva qualcosa di semovente

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