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Il lavoro mobilita l'uomo
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E-book209 pagine2 ore

Il lavoro mobilita l'uomo

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Info su questo ebook

In questo suo primo volume Concetta Papapicco affronta un tema di viva attualità e di grande rilevanza, che si potrebbe sintetizzare così: che senso ha cercare la realizzazione di sé uscendo dallo spazio di vita della propria comunità di appartenenza? Nel parlare comune, l'oggetto evocato da tale interrogativo viene di solito etichettato con l'espressione 'fuga dei cervelli', che contiene una profonda venatura svalutante. Infatti, già la parola 'fuga' implica un movimento precipitoso, indotto da emozioni negative destabilizzanti come il panico e la rabbia; in tal modo risulta oscurata la possibile trama cognitiva delle operazioni di pianificazione e di calcolo. Soprattutto però, la parola 'cervelli' snatura con la forza violenta della sineddoche --in questo caso, la parte biologica (cervello) per il tutto psicosociale (persona)-- il riferimento alla complessità del sistema vivente che si muove nel mondo alla ricerca di un Sé migliore. L'approccio di Papapicco al problema psico-sociale della "fuga dei cervelli" è caratterizzato dall'opzione di una prospettiva psicosemiotica focalizzata sul nesso di implicazione reciproca tra "culture" e "discorsi".
LinguaItaliano
Data di uscita17 giu 2021
ISBN9791220343497
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    Anteprima del libro

    Il lavoro mobilita l'uomo - Papapicco Concetta

    Capitolo I

    La costruzione culturale-discorsiva della fuga dei cervelli (pugliesi)

    Introduzione

    L'Italia è storicamente una terra di emigranti e, come emerge dagli studi comparativi sulla mobilità europea, la caratteristica di questi flussi è l'alto livello di istruzione e la maggiore origine dei migranti arriva dalla classe medio-alta (King, 2002; Ribas-Mateos, 2017). Le migrazioni italiane sono inserite in questa linea per almeno due ordini di ragioni: le motivazioni di questi movimenti e il livello di istruzione delle materie coinvolte (Del Prà, 2008). Come sostenuto da Favell (2017), inoltre, una delle caratteristiche distintive delle nuove migrazioni internazionali è la circolazione della cosiddetta classe capitalista transnazionale, e l'altro elemento che sembra associare i nuovi flussi italiani alle tendenze stimate dall'economia globale è l'elevata percentuale di laureati (49,8%) e non laureati (19,2%) intervistati nel 2017 (Rapporto Fondazione Migrantes, 2017). Questi dati sono riferiti a ciò che comunemente viene definita fuga di cervelli. È una mobilità talentuosa, che coinvolge persone con alti livelli di istruzione, privando il territorio di origine di capacitazione.

    Il talento, infatti, è qualcosa di altamente ricercato nel capitale umano. Molti Paesi europei, soprattutto quelli del Nord Europa, hanno dato avvio a politiche di attrazione e di guerra dei talenti. Un esempio è il caso dell’Austria che, per fronteggiare la perdita di capitale umano talentuoso in ricerca di migliori opportunità in Germania, si è impegnata ad essere competitiva nell’attrarre talenti e dichiarare guerra ad altri Paesi. L’espressione War for talent (Chambers et al., 1998) indica il fenomeno di fortissima competizione tra le imprese per arruolare e trattenere quelle risorse umane talentuose, in grado di rappresentare velocemente un vantaggio competitivo per le aziende che le assumono. Il concetto è strettamente legato a quello di Employer Branding, nelle sue declinazioni di ‘attraction’, ‘attrazione dei talenti’ e Retention ‘fidelizzazione dei migliori dipendenti’6. Questo riguarda il rapporto tra Risorsa Umana e azienda, ma si estende al rapporto tra capitale umano (in)disponibile e territorio. Attualmente, l’Italia, soprattutto al Meridione, risulta un territorio poco attrattivo, con un elevato numero di capitale umano qualificato e talentuoso ormai non disponibile. Dai dati del Rapporto Migrantes, risalenti al 2019, infatti, l’Italia risulta essere quarantesima a livello mondiale nell’attrazione dei talenti come mostrato in fig. 1.

    Fig. 1 Mappa dei Paesi con più cervelli in fuga

    Dal rapporto Istat (2017b), infatti,emerge un quadro complesso dell’Italia: la difficoltà a valorizzare il capitale umanospecifico delle nuove generazioni, la cui unica via d’uscita è la fuga. Si configura, così, ciò che nell’immaginario comune è definito cervelli in fuga, un fenomeno considerato come vera e propria emergenza. Ma come si concretizza nel senso comune la fuga? Da chi o cosa fugge il capitale umano qualificato e chi sono i cervelli?

    Questo è il principale interrogativo a cui il primo capitolo di questo libro tende a rispondere. La psicologia culturale discorsiva fornisce la cornice più adeguata per comprendere come si parla del fenomeno dei cervelli in fuga in un particolare genere discorsivo, ovvero i dibattiti pubblici mediati dai nuovi media. La trattazione di questo capitolo ha una logica a imbuto, partendo prima dal quadro teorico per poi allargare il focus di indagine al fenomeno in Italia e restringerlo a una regione meridionale, ovvero la Puglia.

    1. Una cornice teorica di com-prensione della fuga

    Una delle nuove sfide incontrata dalla Psicologia di comunità consiste nella ricerca del senso, che la ri-orienta nella direzione culturale e discorsiva. Questa apertura non nasce solo in relazione all’esigenza di creare una Psicologia Altra (Harrè e Stearns, 1995), rispetto a quella emergente derivante dalle scienze naturali, ma soprattutto in seguito alla consapevolezza che un’analisi solo individuale rischia di celare tutti i meccanismi d’interazione sociale e di condivisione di significati culturali.

    La Psicologia culturale si sviluppa a partire dagli anni Novanta del XX secolo (Cole, 1996) e, grazie alla sua natura transdisciplinare, è in grado di comprendere funzioni psichiche superiori. In Italia, invece, l’opportunità di una prospettiva culturale è lanciata da Giuseppe Mantovani (1998), il quale propone delle riflessioni che mirano a spiegare come nei contesti sociali la cultura, metaforicamente rappresentata dall’elefante, possa essere costantemente assorbita da/nei discorsi, rappresentati dal boa (Mininni, 2013, 23). Nella sua analisi, Mantovani effettua un forte richiamo alla fiaba novecentesca Il piccolo principe (Saint-Exupéry, 1946), nella quale, però, si aggiunge un altro elemento che rende invisibile la cultura/elefante e i discorsi/boa, ovvero il cappello, simbolo della personalità, dell’identità e dell’appartenenza sociale. L’apertura della Psicologia di comunità alla Psicologia culturale garantisce da un lato l’individuazione di una condizione problematica a livello comunitario, dall’altro la psicologia culturale incarna la modalità dell’indagine della problematica rilevata.

    La cultura è ovunque, ma è difficile da circoscrivere o definire, pur non essendo un costrutto recente. In realtà, si inizia a parlare di cultura in Europa, soprattutto in occasione degli incontri, come viaggi commerciali o conquiste militari, in cui vi era un incontro tra persone con diverse origini e appartenenze, vale a dire, situazioni in cui si inizia a comprendere la differenza tra Sé e Altro. L’alterità diventa fondamentale poiché non si è mai soli, fin dalla nascita, e il ruolo dell’Altro è sempre ambivalente: dall’alterità si dipende, come nel caso del latte materno o di prestiti di denaro, oppure si prendono le distanze. È possibile, quindi, comprendere come la cultura assuma una connotazione ideologica, perché può enfatizzare le differenze con l’alterità, ritenendole inconciliabili o superabili per mezzo di un intervento. Invero, il termine ‘cultura’ deriva dal verbo latino ‘colĕre’ che significa ‘coltivare’, in senso esteso coltivare conoscenze. Nelle scienze sociali, però, la cultura è un apparato epistemologico, la cui funzione è quella di orientare l’approccio scientifico verso direzioni socialmente accettabili. In questo senso, la nozione di cultura ha una doppia faccia: può nascondere o rivelare (Valsiner, 2012, 90). È negli anni Cinquanta che si diffusero le prime opere di sistematizzazione della definizione di cultura (Kroeber, Kluckhohn, 1952), al fine di evitare un’eterogeneità nell’impiego del costrutto, come mostrato in fig. 2:

    Fig. 2 tipologia delle nozioni di cultura (Jahoda, 2012)

    Come si può notare dalla figura 1, non essendovi una omogeneità nella definizione della cultura, non si può neanche parlare di una sola Psicologia culturale, ma sarebbe più corretto declinare tale disciplina alla pluralità di orientamenti, definendola Psicologie culturali, in cui, però, il costrutto di cultura è centrale. Nel 1951 Parson ridusse la complessità della cultura a tre presupposti:

    in primo luogo il fatto che la cultura è trasmessa e costituisce un’eredità o una tradizione sociale, in secondo luogo, il fatto che essa è appresa e non rappresenta, quindi, una manifestazione, in ambito particolare, della costruzione genetica dell’uomo; e, terzo, il fatto che essa è condivisa (Parson e Shils, 1951, 22).

    1.2. Le psicologie culturali

    La prospettiva odierna delle Psicologie culturali, ma soprattutto la Psicologia culturale della mediazione semiotica, su cui ci si concentrerà, ha sostituito questi tre presupposti con altre tre implicazioni che enfatizzano la relazione tra persona e ambiente (Innis, 2016, 337). In questa visione, la cultura non è più trasmessa, ma co-costruita, nel senso che viene ricostruita in nuove forme tra generazioni e persone della stessa coorte di età e dello stesso contesto. Attraverso processi comunicativi bidirezionali (Bühler, 1934), in cui, cioè, viene superato il modello di trasmissione comunicativa unidirezionale (Shannon &Amp; Weaver, 1949). Il modello unidirezionale, o modello matematico, teorizza la trasmissione del messaggio, che la fonte codifica e trasferisce al canale, il quale decodifica e propaga al destinatario. Essendo un modello derivante da studi matematici, può essere applicato in contesti tecnici, in cui il fenomeno è studiato come oggetto, ma non può essere impiegato per spiegare la comunicazione in organismi autopoietici. Inoltre, la cultura non è più appresa, bensì è internalizzata/esternalizzata, perché le persone scompongono e ricompongono attivamente i messaggi e, in questo processo, creano nuovi pattern con cui rendono accessibile l’incontro con l’altro. Infine, la cultura non è condivisa, ma coordinata, in quanto agenti differenti regolano costantemente l’esperienza dei propri mondi vitali in modo che siano vincolati, ma limitatamente indeterminati. Il costrutto di indeterminazione limitata (Valsiner, 1997) prevede che poli opposti dell’accadere di un evento non siano mutualmente esclusivi, ma si verifichino simultaneamente, in modo che uno renda possibile l’altro. Un esempio è la contrapposizione tra convergente, in senso di possibilità dell’accadere dell’esperienza in senso limitato, in contrapposizione al parallelo, ovvero l’aspetto infinito dell’accadere di una data esperienza.

    L’oggetto principale delle Psicologie culturali è lo sviluppo coordinato del campo personale e sociale dell’esperienza umana, in cui la cultura è un processo di relazione tra il Soggetto e lo sviluppo umano e, come tale, è parte del sistema psicologico. Secondo questa visione, la cultura è nella persona, in quanto è quest’ultima che possiede agentività. La cultura, perciò, non è un contenitore a cui le persone appartengono, in cui ci sono rigidi e ben definiti confini, come mostrato in fig. 3a, bensì è un processo che sta in mezzo (in-between) tra l’attuale sviluppo degli esseri umani, attivi costruttori dei mondi vitali e lo sviluppo futuro e atteso, come mostrato in fig. 3b:

    Fig. 3 (a; b) Posizione della cultura

    Come mostrato in fig. 2b, la cultura è sempre in-mezzo tra lo stato di sviluppo attuale dei mondi vitali che gli esseri umani costruiscono attivamente e il loro stato di sviluppo atteso. Perciò, la cultura si trova all’interno di un continuo processo di mediazione dei segni tra Io e Me e tra Me e il Mondo/Alterità. Ed è, in questo senso, costituita da processi di costruzione e uso che avvengono simultaneamente nei campi intrapsicologico e interpsicologico. Invero, prevale una visione struttural-dinamica della cultura, intesa come:

    un insieme più o meno coerente di pensieri e azioni, e nell’ambito di ogni cultura si delineano certi scopi caratteristici, che possono essere solo dell’individuo, non condivisi da nessun altro tipo di società. Perseguendo tali scopi, ogni popolo dà alla sua vita forme sempre più ferme, e in proporzione alla loro forza gli eterogenei modi di comportamento si fondono in un’immagine sempre più coerente. La forma assunta da questi atti si può capire solo comprendendo in primo luogo le fondamentali spinte emotive e intellettuali di quella società (Benedict, 1934, 52-53).

    1.3. La cultura passa nei discorsi

    La prospettiva di Benedict si aggancia alla considerazione della cultura come semiosfera (Lotman, 1990), in quanto ritenuta un fenomeno gestaltico, nella quale si trova più della somma delle sue singole caratteristiche. Invero, la cultura ha la capacità sia di registrare e trasmettere informazioni che sono già in circolazione, sia di generarne di nuove. Il semiologo russo Jurij Michajlovič Lotman (1922 -1993), capofila della cosiddetta scuola di Tartu (o Tartu-Mosca), in Estonia, raccoglie l’eredità degli studi della scuola formalista e del primo pensiero strutturalista (Burini 1998). Essendo stato il primo a introdurre il costrutto di semiosfera (Lotman, 1998), Lotman caratterizza il suo approccio nei termini di un sostanziale rovesciamento di prospettiva rispetto a entrambe le due principali tradizioni semiotiche occidentali, quella della linea Peirce-Morris (1970) e quella della linea de Saussure (1974).Lotman difende la necessità di un approccio olistico alla cultura che dia precedenza al rapporto intero-insieme delle singole parti.

    In questo senso, si pone in aperta polemica nei confronti di tutta una tradizione di indagine delle scienze naturali, che, in accordo con la terza regola delDiscorso sul MetododiCartesio (1999), si prefigge di isolare un oggetto di analisi relativamente semplice per poi estrapolarne un modello generale. Un approccio del genere, però, si basa sul presupposto che l’oggetto isolato possa costituire un modello di tutte le qualità del fenomeno più complesso. Ma questo, secondo Lotman, non è possibile nel caso dello studio della cultura, perché un fenomeno isolato non è in grado né di funzionare né di produrre nuova informazione, quindi non può essere assunto come modello della cultura a cui appartiene. Il meccanismo di generazione di informazione per Lotman può essere solo dialogico: l’asimmetria tra le parti in dialogo costituisce un processo traduttivo che risulta in un incremento informativo. Il concetto di semiosfera risponde al principio gestaltico, secondo cui, "i singoli elementi della semiosi sono comprensibili solo in

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