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Tokyo Story
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E-book237 pagine3 ore

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Tokyo, il Giappone, l'Olimpiade più difficile, voluta, osteggiata, controversa, desiderata. Eccola, la sacra fiamma di Olympia, che torna per le strade di Tokyo dopo la suggestiva ed emozionante edizione del 1964. E quel bagliore prova a rischiarare un mondo trascinato dalla pandemia in uno degli abissi più profondi. Un'oscurità che ha inghiottito il senso stesso dei Giochi, di questi Giochi nipponici. E allora "Tokyo Story" è principalmente un atto d'amore: nei confronti dello sport, di quei cinque cerchi olimpici, di un Paese che è un cuore pulsante dello sport mondiale, e della sua capitale, luogo emblematico e catalizzatore della passione sportiva di ognuno di noi, come scoprirete sfogliando questo libro.

"Per lasciare, passo dopo passo,
un'altra orma nella Storia.

LinguaItaliano
Data di uscita22 lug 2021
ISBN9788863458442
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    Anteprima del libro

    Tokyo Story - Dario Ricci

    Quando i giganti scacciano gli spiriti maligni: il sumo

    Una lotta, ma anche un rituale religioso, divenuto a sua volta religione. E ancora un tratto identitario, uno sport, un evento mediatico che unisce folklore e storia. Specchio e fotografia del Giappone, il sumo (letteralmente strattonarsi) è sport nazionale tra i simboli più noti (ma al tempo stesso meno conosciuti e comprensibili) del Paese del Sol Levante.

    Si tratta di una sfida fra due lottatori di enorme stazza, i rikishi, che tentano di far perdere l’equilibrio l’uno all’altro. Uomini enormi, coperti solo da un perizoma, con i capelli legati in un codino. Ma appunto, non si tratta solo di un duello sportivo, bensì di un rituale quasi mistico contrassegnato da regole, divieti, comportamenti ancestrali e inviolabili, legati alla ritualità shintoista.

    Nel sumo, vince il lottatore che riesce a spingere l’avversario fuori dal ring o a fargli perdere l’equilibrio. Gli incontri si svolgono su una pedana circolare del diametro di metri 4,55 fatta di argilla ricoperta di sabbia, il dohyo, considerato un luogo sacro.

    L’origine del sumo si ricollega al leggendario combattimento che ebbe luogo davanti all’imperatore Suinin (29 a.C.-70 d.C.) tra l’arrogante capo delle guardie Taima-no-Kuyehaya e Nomi-no-Sukune (da molti autori indicato come Shikine), che uccise l’avversario spezzandogli la schiena. Il vincitore ricevette onori e ricchezze, nonché l’incarico di regolamentare il suo efficacissimo metodo di lotta per renderlo meno pericoloso. Da combattimento primitivo e cruento il sumo divenne una forma di addestramento militare, fino a diventare un vero e proprio rito durante le raffinate epoche Nara ed Heian, imbevute di cultura cinese: l’imperatore Shomu (che regnò tra il 724 e il 740), infatti, lo incluse tra i giochi della Festa del Ringraziamento per il raccolto. L’importanza del sumo fu veramente grande, visto che nell’858 Korehito e Koretaka, giovanissimi figli dell’imperatore Montoku, arrivarono a disputarsi il trono con un incontro di lotta tra i loro campioni Yoshiro e Natora. Vinse Yoshiro e Korehito divenne l’imperatore Seiwa. Il sumo probabilmente è nato intorno al VI secolo, si trattava di una rappresentazione di questa leggendaria lotta tra divinità e veniva offerto come intrattenimento per gli dèi, durante i riti shintoisti.

    Nel corso dei secoli, il pubblico del sumo si è allargato: inizialmente è arrivato alla Corte imperiale, dopodiché è diventato popolare tra nobili e samurai e infine si è trasformato in una disciplina seguita con interesse da tutta la popolazione giapponese. Nonostante ciò, dopo tutti questi secoli la lotta tradizionale giapponese non ha mai perduto i suoi connotati sacri.

    Uno dei tratti più evidenti del legame tra sumo e shintoismo è il rituale del nakizumo. Durante questa cerimonia, due rikishi prendono in braccio dei lattanti e li fanno gareggiare in un modo a dir poco singolare: il bambino che scoppia a piangere per primo, infatti, vince. Questa pratica è ritenuta di buon auspicio poiché si pensa che il pianto dei bambini allontani gli spiriti malvagi e che un pianto portentoso sia il presagio di una crescita forte e sana.

    Come abbiamo visto, il sumo visse per secoli all’ombra dei santuari shintoisti e veniva praticato soprattutto per invocare raccolti di riso abbondanti. In epoca feudale, inoltre, sempre più lottatori furono arruolati dai clan guerrieri non solo poiché ritenuti dotati di un’enorme forza fisica, ma anche per via della loro natura quasi divina, che incuteva timore e soggezione.

    Tuttavia, il declino del potere imperiale e l’insorgere della classe guerriera, con le terribili guerre civili che ne conseguirono, segnarono tempi molto duri per il sumo. I rikishi avevano perso i loro mecenati e a causa dell’instabilità politica, nel primo periodo Kamakura (1185-1333) i tornei di sumo furono aboliti. I lottatori, rimasti senza lavoro, iniziarono così a sfidarsi per le strade, di fronte alla gente comune.

    Il sumo, nella forma in cui lo conosciamo oggi, è rinato nel periodo Edo (1603-1868) insieme alla figura del lottatore di sumo professionista e alla regolamentazione degli incontri, rendendo illegali i match combattuti fuori da luoghi privati sorvegliati dalle autorità governative.

    Il match si sviluppa attraverso diverse fasi definite dal rituale tradizionale. Proviamo a vederle insieme:

    Dohyoiri: i lottatori di sumo di alto livello salgono sul dohyo per essere presentati alla platea. In questa fase i rikishi indossano una sorta di rigido grembiule di seta, il kesho-mawashi, decorato con stemmi e scritte che identificano gli sponsor del torneo e svolgono un rituale scaramantico per allontanare il male. Questo rituale non include gli yokozuna, ovvero i lottatori migliori, che entrano sul ring con una cerimonia a loro specificatamente dedicata.

    Yokozuna dohyoiri: è appunto l’entrata in scena degli yokozuna, i lottatori di livello più alto. Solo dopo la loro presentazione i combattimenti possono avere ufficialmente inizio.

    Il lancio del sale: prima di ogni incontro i rikishi cospargono il dohyo con del sale. In Giappone, infatti, si ritiene che il sale abbia poteri purificatori e che protegga il ring da influenze maligne, che possono provocare infortuni e incidenti. Nel frattempo, i rikishi si cambiano e indossano un perizoma più semplice, detto mawashi.

    Shiko: compiendo questo gesto, i rikishi sollevano una gamba sino a portarla in posizione quasi perpendicolare al suolo per poi riabbassarla con forza, in modo che il piede colpisca il suolo scatenando un potente tonfo. L’obiettivo è duplice: fare una sorta di stretching preparatorio, ma soprattutto – ancora una volta – spaventare gli spiriti maligni e farli scappare dal dohyo.

    La lotta: a questo punto i rikishi si affrontano in un match che può durare pochi secondi o qualche minuto. Lo scopo è far uscire l’avversario dal bordo delimitato dalle corde del dohyo, oppure atterrarlo. Per arrivare all’obiettivo, ci sono una settantina di tecniche che vanno dallo spintonare al sollevare l’avversario sino agli sgambetti. Innumerevoli anche le azioni proibite, che segnano automaticamente la sconfitta di un partecipante. Alcune delle mosse non consentite sono: prendere l’avversario a pugni, tirargli i capelli, infilargli le dita negli occhi, strattonargli il perizoma in corrispondenza dell’inguine, afferrarlo per il collo e schiaffeggiarlo in faccia. Perdere il perizoma e rimanere completamente nudi è severamente proibito, pena la sconfitta immediata.

    La danza con l’arco: questa danza segna la fine del torneo ed è puramente simbolica. Un giovane rikishi si esibisce con un arco, antico trofeo del vincitore che oggi significa forza e vittoria.

    I tornei di sumo sono detti honbasho e vengono tenuti sei volte l’anno, nei mesi dispari. Ogni torneo ha una durata complessiva di quindici giorni e ogni rikishi, in genere, affronta un avversario diverso ogni giorno. Gli honbasho si svolgono in diverse città. Tokyo ospita i tornei di gennaio, maggio e settembre, Osaka quelli di marzo, Nagoya quelli di luglio e Fukuoka quelli di novembre. Ad agosto i lottatori di sumo sono in ritiro prestagionale in Hokkaido, dove le temperature sono più miti.

    Il rikishi che consegue il maggior numero di vittorie, vince il torneo.

    Alle donne non solo è proibito partecipare, ma non è neppure permesso mettere piede sul ring. Il sumo è infatti un mondo profondamente maschile (e maschilista): le donne non hanno infatti un loro campionato e sono escluse dalla disciplina in quanto ritenute impure a causa del sangue mestruale. Per intenderci: nel 2018 il sindaco di Maizuru ebbe un malore sul dohyo e dal pubblico una dottoressa accorse a rianimarlo. Mentre la donna si adoperava per salvargli la vita, il commentatore del match le intimò più volte attraverso i megafoni di scendere dal ring perché stava contaminando un luogo sacro.

    Nel sumo, come nella lotta, i lottatori sono suddivisi in categorie: in questa disciplina però le categorie non si basano sul peso degli atleti ma sulla loro bravura. La categoria più alta è quella degli yokozuna, in cui rientrano solo i migliori lottatori in assoluto. È l’unica categoria del sumo da cui non si può retrocedere, un titolo che il lottatore conserva sino al momento del ritiro dalle scene. Ai livelli inferiori troviamo ben altre nove categorie, ma i lottatori di livello più alto vengono raggruppati sotto la dicitura di sekitori.

    I ranghi dei lottatori di sumo si decidono in base al numero di incontri vinti durante un torneo: il rikishi che ne vince otto su quindici può mantenere il proprio rango. Altrimenti, retrocede a un rango inferiore; se dovesse vincerne di più, avanza alla categoria superiore. La classifica delle categorie dei lottatori si chiama banzuke e viene stilata al termine di ogni torneo.

    I rikishi sono i veri protagonisti del sumo. E – seppure l’apparenza inganni… – sono degli atleti in tutto e per tutto, costruiti per poter ben figurare sul dohyo. Sarebbe un errore, ad esempio, considerarli semplicemente grassi, perché in verità la massa grassa nel corpo di un lottatore di sumo è inferiore a quella di un individuo comune normopeso. Il loro grasso è esclusivamente sottocutaneo e serve ad attutire le cadute e a mantenere basso il baricentro in modo da guadagnare una maggiore stabilità. Si calcola che il peso dei lottatori vari tra i 90 e i 150 chili.

    Per un lottatore di sumo è essenziale essere pesante: durante la lotta, i rikishi (la cui caratteristica capigliatura è un codino detto icho che ricorda la forma delle foglie del ginko biloba) si accovacciano a gambe divaricare e lasciano che il loro peso li renda il più stabili possibile in modo da non perdere l’equilibrio.

    Tuttavia i loro intensi allenamenti li mantengono tonici e sani, almeno sino alla fine della loro carriera, e il loro grasso si accumula, come detto, principalmente sottopelle. Iniziano ad allenarsi sin da giovanissimi: entrano nelle scuole intorno ai 15 anni e terminano la loro carriera verso i 35. I veri problemi per i rikishi iniziano quando, una volta ritiratisi dal ring, smettono di allenarsi: il loro metabolismo oramai è condizionato dall’essere stato finalizzato, per tanti anni, a uno sforzo così particolare, e la diminuzione dell’attività fisica fa sì che il grasso inizi ad accumularsi dentro gli organi, causando gravi problemi di salute. Per questa ragione, i lottatori di sumo in media non vivono molto a lungo.

    I rikishi vivono nelle heya, complessi residenziali annessi a una palestra specializzata. Ogni heya ospita circa 30 lottatori di diverse categorie, capeggiati dall’oyakata, un ex rikishi che al termine della carriera si dedica alla formazione delle nuove leve. Alcune scuole, come ad esempio la Ryogoku a Tokyo, aprono gli allentamenti mattutini ai visitatori esterni.

    La loro giornata tipo inizia infatti la mattina alle 7:30 quando si svegliano per il keiko, cioè gli allenamenti, che consistono soprattutto in esercizi a corpo libero per potenziare i muscoli di gambe e braccia e nell’apprendimento delle tecniche di lotta.

    L’addestramento, rigorosamente a stomaco vuoto, dura circa tre ore al termine delle quali i lottatori consumano un abbondante pranzo. In genere, la loro alimentazione è costituita da un piatto chiamato chanko nabe, una zuppa ricca di carne di pollo, pesce, tofu e verdure. Si tratta di un piatto ricco di proteine, studiato appositamente per far prendere loro peso.

    Un rikishi arriva a mangiare fino a ottomila calorie in un giorno e, per assimilarle al meglio, dopo pranzo è d’obbligo il riposo. Nella serata, la maggioranza dei lottatori si dedicherà allo studio (molti, infatti, hanno meno di vent’anni) oppure a qualche hobby e alla vita privata. Non di rado, una volta terminata la carriera, alcuni ex lottatori di sumo gestiscono proprio ristoranti specializzati nel chanko nabe.

    Anche il momento dell’addio alla carriera richiede un percorso predefinito e normato dagli enti nipponici che sovraintendono all’attività: si veda ad esempio quanto recentemente accaduto a Kakuryu, atleta mongolo che appena nel dicembre 2020 aveva ricevuto la cittadinanza giapponese. Condizionato da infortuni a un gomito e alla schiena, è stato ufficialmente richiamato per le troppe assenze dalla JSA (Japan Sumo Association) che tramite lo Yokozuna Deliberation Counsil, l’organo dell’associazione giapponese di sumo che supervisiona sulle promozioni e sul comportamento degli yokozuna. In questi casi è previsto infatti che gli yokozuna che non siano in grado di difendere il titolo, si dimettano, cosa che Kakuryu ha fatto dopo essersi ritirato dall’ultimo torneo nel marzo 2021 al terzo giorno di incontri.

    Ora Kakuryu potrà continuare a usare il suo nome di combattimento per altri cinque anni, prima di doverlo dismettere per costruirsi, da quel punto in poi, una vita al di fuori da quel ring magico, violento e ancestrale che è il dohyo.

    Tutto il Giappone in 42 km e 195 m

    «Ho iniziato a correre quando sono diventato uno scrittore. Il mio mestiere mi costringe a stare seduto davanti a una scrivania per tante ore al giorno. Se non fai qualcosa diventerai presto sovrappeso e fuori forma, pensai. Successe tutto circa trent’anni fa. Pensai anche che mi avrebbe aiutato a smettere di fumare […] Prima di diventare uno scrittore, lavoravo in un jazz bar nel centro di Tokyo: aria viziata tutto il tempo fino a tarda notte. Poi iniziai la mia nuova vita dicendo a me stesso: Vivrò nel nulla ma in modo sano. Oggi mi alzo alle 5 del mattino, lavoro, e vado a correre. Tutto quel che serve per correre è un paio di scarpette e si può praticare ovunque. Non richiede necessariamente il coinvolgimento di altre persone e così ho scoperto che il running si adatta perfettamente a una persona come me, indipendente e individualista».

    Nato a Kyoto, in Giappone, 71 anni fa, ma trasferitosi da tempo a Boston, della sua passione per la corsa Haruki Murakami, uno dei principali scrittori nipponici, ne ha fatto un vero bestseller, non a caso intitolato L’arte di correre. Proprio le sue parole – contenute in un’intervista rilasciata alcuni anni fa alla rivista Runner’s World – suonano quasi paradigmatiche nel descrivere il rapporto che i nipponici hanno con la corsa, intesa come esercizio fisico e spirituale al tempo stesso, prima esempio di sacrificio e dedizione, poi manifestazione della propria libertà individuale, e comunque fondamenta di uno stare in forma che è sinonimo di rispetto per se stesi, gli altri e presupposto fondante anche l’attività creativa e intellettuale nel senso più ampio, come chiarisce ancora lo stesso Murakami:

    «Le qualità più importanti per uno scrittore sono probabilmente l’immaginazione, l’intelligenza e l’obiettività. Ma per mantenere tali qualità a un livello costante ed elevato non si deve mai trascurare il mantenimento della propria forza fisica. Senza una solida condizione fisica non si può realizzare qualcosa di molto complesso o impegnativo. Questa è la mia convinzione. Se non corressi credo che la mia scrittura sarebbe molto diversa da quella che è ora».

    E ancora:

    «Un valore che mi ha trasmesso il running e di cui sono particolarmente felice è che mi ha aiutato a sviluppare il rispetto per il mio benessere fisico. Tutti dovrebbero avere ben presente questo aspetto. Avere rispetto per il proprio corpo permette di comportarsi allo stesso modo con gli altri. Se più persone sul pianeta condividono la stessa sensazione, dovremmo vivere in un mondo migliore…».

    Si mescolano e si intrecciano, nel quotidiano correre, il tempo oggettivo e quello interiore, la dimensione individuale e quella collettiva, la storia del singolo e quella della società e della cultura che rappresenta, in cui è nato, è inserito, cresce e si sviluppa, passo dopo passo, chilometro dopo chilometro. Una filigrana di storie, rapporti, legami che è ben visibile osservando in controluce le vicende in molti casi singolari vissute dalle atlete e dagli atleti nipponici nelle maratone olimpiche.

    A dispetto dell’albo d’oro, ad esempio, potremmo dire che il Giappone la maratona maschile a cinque cerchi non l’ha mai vinta. Ma prima di sciogliere questo nodo che rievoca una delle pagine più drammatiche della storia moderna, alla vigilia del secondo conflitto mondiale, dobbiamo necessariamente andare sulla linea di partenza della maratona olimpica di Stoccolma, il 14 luglio 1912. Oppure su quella di arrivo di quella stessa maratona, sempre a Stoccolma. Ma nell’estate del 1967. Sì, perché tanto è durata la maratona a cinque cerchi di Shinzo Kanakuri!

    Nel 1912, Kanakuri è il miglior maratoneta della propria nazione, e riesce a partire alla volta della Svezia per partecipare alle Olimpiadi grazie anche a una raccolta fondi della sua Università (la Scuola Superiore di Tokyo).

    Il viaggio è avventuroso, raggiunge Vladivostok dove prende la Transiberiana fino a Mosca e da lì alla volta della capitale svedese. Totale: 18 giorni di viaggio. Il giorno della maratona è caldo (si corre in piena estate), i rifornimenti di acqua sono vietati, la situazione climatica porta al collasso il portoghese Francisco Lazaro, che stramazza al suolo per l’eccessiva calura e morirà di lì a poco.

    Kanakuri va presto al comando assieme al sudafricano McArthur che al trentesimo chilometro piazza l’allungo e stacca il giapponese ormai in crisi.

    Una signora dal suo giardino di casa posto lungo il percorso attira l’attenzione dello stremato Shizo. Vedendo l’atleta in difficoltà lo invita a bere un succo di lampone. Kanakuri accetta e subito dopo gli viene proposto di recuperare le forze sul divano sotto la veranda della proprietaria di casa.

    «Mi fermo solo mezzo minuto, poi riparto». Shizo invece si addormenta per dieci ore. Al risveglio la gara è ormai conclusa da un pezzo.

    Mosso dalla vergogna il giapponese decide di tornare immediatamente a casa facendo perdere le proprie tracce. Eppure a correre tornerà, e anche alle Olimpiadi,

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