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Storie e curiosità sulla grande AS Roma che non ti hanno mai raccontato
Storie e curiosità sulla grande AS Roma che non ti hanno mai raccontato
Storie e curiosità sulla grande AS Roma che non ti hanno mai raccontato
E-book532 pagine6 ore

Storie e curiosità sulla grande AS Roma che non ti hanno mai raccontato

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Info su questo ebook

Le leggende, le vittorie, i protagonisti del mito giallorosso

La Roma è i suoi campioni, i suoi tifosi, le sue vittorie, le sue sconfitte, le emozioni che sa trasmettere. La AS Roma è tutto questo e molto altro, una leg­genda che non finirà mai, di cui si è scritto e parlato tante volte. Tra le pieghe delle pagine che raccontano la sua storia, tra le fibre delle ma­glie indossate dai suoi calciatori, dietro gli striscioni della Curva Sud e tra i ricordi dei suoi protagonisti, sarà possibile scoprire piccoli e grandi episodi che celano un’anima profondamente romanista. E così anche una vittoria dimenticata, una scaramanzia, qualche piccola pazzia o magari solo una battuta riservano straordinarie sorprese da leggere in tutte queste storie e curiosità più o meno famose, tes­sere preziose dello straordinario mosaico che è – e sarà sempre – la Roma.

La storia della AS Roma è un mito che batte forte nel cuore dei tifosi giallorossi

Tra le storie e curiosità contenute nel libro:

• Il partigiano Losi • Aldair o della timidezza • Il trucco di Ancelotti • La lettera di Giannini a Totti • Chiesa Santa, Apostolica e Romanista • Alberto Sordi inventore del lunch match • Ennio Morricone e Sergio Leone allo stadio • Lo scudetto vinto a Testaccio • Fausto Coppi romanista • Il whisky di Bruno Gentili • La cartolina di precetto di Emerson • La sciarpa della Roma di Edin Džeko • L’imbattibilità di Krieziu • Masetti, il più grande. Parola di Silvio Piola • Il destino di Zibì Boniek nella monetina di Strasburgo • La più bella esultanza di Picchio De Sisti • Falcão a piedi sull’autostrada • Don Camillo e la rovesciata di Pruzzo • Estate 1934, maggiolini tutti matti, caffellatte e Schaffer • Eraldo Monzeglio, terzino gentiluomo • L’ultimo gol di Dante Di Benedetti • La Nazionale giallorossa • Il primo giorno di Totti • L’unica volta in cui De Rossi disse no alla Roma • Come arrivò Batistuta • Ettore Viola, eroe di guerra • Roma-Lazio 38-3
Luca Pelosi
Si definisce prima romanista e poi giornalista. Non esiste mezzo di comunicazione che non abbia esplorato. Non esiste sport di cui non abbia scritto o che non abbia praticato almeno una volta. Lavora nell’archivio storico della Roma, è conduttore a Roma Radio e realizza documentari per Roma TV. Scrive per «Il Romanista» dal 2004. Con la Newton Compton ha pub­blicato La storia della grande AS Roma in 501 domande e risposte e Storie e curiosità sulla grande AS Roma che non ti hanno mai raccontato.
LinguaItaliano
Data di uscita20 ott 2020
ISBN9788822743978
Storie e curiosità sulla grande AS Roma che non ti hanno mai raccontato

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    Storie e curiosità sulla grande AS Roma che non ti hanno mai raccontato - Luca Pelosi

    CAPITANI

    immagine

    Attilio Ferraris.

    In processione per Attilio

    Nello sport, gli atleti che non si fanno mai male e che, per un misto di fortuna e doti fisiche, accumulano tantissime presenze consecutive, vengono detti Iron man. Anche la Roma ha avuto il suo, il portiere del secondo scudetto, Franco Tancredi: il suo record di 155 presenze consecutive è difficile da battere.

    Prima ancora che si iniziasse a parlare di Iron man, però, la Roma aveva il suo omo de fero. Era uno dei soprannomi di Attilio Ferraris IV, primo capitano della storia della Società. C’è lui, infatti, al secondo posto della classifica, con 123 presenze consecutive tra il 7 ottobre 1928 e il 6 marzo 1932. Attenzione, però: la serie sarebbe potuta essere molto più lunga, perché né all’inizio né alla fine ci sono problemi fisici. Il 30 settembre 1928 non giocò col Legnano per motivi che solo lui sapeva, qualcosa s’intuì da una sua lettera alla Società pubblicata da «Il Messaggero» in cui scrisse a Renato Sacerdoti che «per motivi del tutto personali e indipendenti dalla Società alla quale mi onoro di appartenere, mi sono trovato in condizioni di animo tali che solo possono giustificare quanto accaduto e che io per primo deploro». «Attilio Ferraris», comunicò il club, «si è riallineato nelle file dei lupi romani con la più perfetta disciplina, pronto a combattere con tutto il suo cuore e il suo valore le competizioni che la Roma dovrà affrontare».

    Il 6 marzo 1932 invece la serie si interruppe dopo una sconfitta a Torino in casa della Juventus in seguito alla quale Ferraris fu tra i giocatori messi fuori squadra dal presidente Sacerdoti. Attilio saltò una partita e tornò a giocare il 27 marzo 1932 a Bologna. Naturalmente, non uscì più di squadra. Tra il 22 e il 29 maggio la Roma giocò tre partite e lui ci fu in tutte e tre le occasioni.

    Il 15 gennaio 1933, però, la Roma, a soli 4 punti dal primo posto, ospitò il Genoa a Testaccio, perdendo 3-1 soprattutto perché, come riportò «Il Littoriale», «Ferraris, contusosi in una caduta al nono minuto, è praticamente inutilizzato durante tutto il resto del gioco». Brutta sconfitta, pronta reazione dei tifosi. «Siamo un gruppo di assidue frequentatrici del campo di Testaccio», scrissero due ragazze a «Il Tifone», «vi scriviamo per far sapere che dopo l’ultimo disgraziato incontro la nostra passione per i colori giallorossi è aumentata e che vorremmo che così facessero tutte le altre. Non bisogna avvilirsi, ma gridare sempre Viva la Roma!».

    Forse c’erano anche loro nella casa di via Properzio nei giorni successivi. Già, perché l’infortunio di Attilio fu grave e, per la prima volta, lo costrinse a saltare alcune partite per problemi fisici. Quello che accadde in quel periodo, lo ha raccontato la sorella, Jolanda, a Massimo Izzi: «Arrivò talmente tanta gente che il portiere dello stabile mise un cartello dove era scritto il piano in cui si trovava Ferraris IV. E un tifoso, all’ingresso, veniva incaricato di regolare il traffico dei visitatori in entrata e in uscita. Attilio era amatissimo dalla gente».

    Quando stava bene, d’altronde, in via Properzio se ne accorgevano tutti. «Abitavamo al sesto piano», raccontò sempre Jolanda. «Una volta fece una scommessa. Non c’era ancora l’ascensore. Si mise in testa che avrebbe fatto di corsa tutte le rampe delle scale e si sarebbe affacciato, non ricordo in quanti secondi. Quella scommessa la vinse e lo vedemmo sbucare trionfante dalla finestra».

    I tifosi della Roma lo rividero sbucare trionfante dalla botola di Campo Testaccio il 26 marzo 1933 e lo videro uscire altrettanto trionfante: Roma-Lazio 3-1.

    Amadei, ciclista mancato

    L’Italia si mosse a lungo in bicicletta, non a caso ebbe a lungo tantissimi campioni di ciclismo, considerato sport anche più popolare del calcio. Fu così sicuramente negli anni Trenta, quando Armando Lugari, presidente della sezione ciclismo della as Roma (nata, come la sezione atletica, nel 1927, anche se l’affiliazione alla federazione è del 1928), spesso pescava i suoi giovani ciclisti tra le leve della scuola calcio.

    Ci provò anche nell’estate del 1935, quando la Roma indisse una leva per i nati tra il 1919 e il 1922. Un ragazzo del 1921 di Frascati, appassionato di calcio al punto da essere riuscito a infilarsi allo stadio l’anno prima per vedere la finale del Campionato del mondo tra Italia e Cecoslovacchia, decise di andare insieme a un amico. Il ragazzo si chiamava Amedeo Amadei e ci andò in bicicletta, di nascosto dai genitori. In bici era molto bravo e si divertiva pure, a volte sognava di vestire lui un giorno la maglia della Nazionale di calcio, altre volte sognava di diventare come Learco Guerra, la locomotiva umana, vincitore di un Giro d’Italia, di un Mondiale, secondo due volte al Tour de France.

    Usava la bicicletta per distribuire nei vari negozi il pane prodotto dal forno di famiglia e nei momenti liberi giocava a calcio con le giovanili del Frascati. Si dice anche che i compagni di squadra, per consentirgli di fare più in fretta, si dividessero tra loro un po’ del pane da distribuire.

    Il provino andò bene e il custode Zi’ Checco aprì al giovane Amedeo e all’amico Luciano Cristofanelli (che non avrà la stessa fortuna) le porte di Campo Testaccio. «Tu dove giochi?» «Ala destra». Giocò bene, l’allenatore della prima squadra Luigi Barbesino e il tecnico dei Boys Giulio Scardola si guardarono e furono subito d’accordo, dovevano prenderlo. Non gli dissero nulla, però. Il ragazzo tornò a casa sulla via Appia, dove bucò una gomma e si fece aiutare da un amico incontrato per strada, arrivò tardi prendendosi una lavata di testa dal padre che aveva capito che la scusa della gita al lago era una bugia.

    Quel giorno però non era stato solo visto giocare a calcio, era stato visto anche pedalare da Armando Lugari, che, a differenza di Barbesino e Scardola, gli parlò subito: «Tu sei bravo a giocare a calcio. Ma sei più forte in bicicletta».

    Forse, però, Scardola sentì quella conversazione e pochi giorni dopo fece arrivare a casa Amadei la lettera di convocazione. Il padre era ancora arrabbiato e le sorelle dovettero fare un lavoro di mediazione per far diventare Amedeo Amadei un calciatore della as Roma e non un ciclista.

    Il ritorno

    «L’as Roma, aderendo al desiderio insistentemente espresso dal giocatore Amadei anche prima della fine dello scorso campionato, ne ha consentito la cessione al fc Internazionale di Milano, contro lo scambio dei noti giocatori Maestrelli e Tontodonati dell’as Bari». Con questo comunicato, l’11 settembre 1948, la Roma annunciò la cessione di Amedeo Amadei, centravanti dello scudetto, ottavo re di Roma, simbolo della squadra sia nei momenti belli sia in quelli brutti.

    Che lui non volesse partire non era affatto un segreto, così come non lo era il fatto che la sua cessione fosse stata presa con molta filosofia dai romanisti, molti dei quali lo amavano talmente tanto da essere contenti per lui dato che, andando in una squadra del Nord, avrebbe ottenuto la maglia della Nazionale, che meritava da tempo, cosa che infatti successe.

    Il calciatore però il 28 settembre scrisse a sua volta una lettera su «Il Tifone», per dire la sua: «Io volevo restare, avevo chiesto una prima linea di valore. Con lo scambio con Tontodonati e Maestrelli, ora la Roma ha una squadra diversa e io ho rinunciato a 700 mila lire per favorire lo scambio». Nessuno, insomma, ce l’aveva con lui in quanto traditore, nessuno ce l’aveva con la Società, dato che la situazione finanziaria era chiara.

    Amadei continuò a sentirsi romanista. Ogni tanto, soprattutto in mezzo a lunghe trasferte o in occasione delle partite della Nazionale, si allenava con la Roma. C’è una foto che lo ritrae mentre si allena insieme alla Roma, con la maglia della Roma, allo Stadio Nazionale. Peccato che fosse il 26 gennaio 1949, quando era già tesserato dell’Inter. I nerazzurri avrebbero dovuto giocare a Palermo e lui aveva colto l’occasione per allenarsi con la sua squadra e poi raggiungere la comitiva dell’Inter in Sicilia.

    Era già tornato a Roma in occasione della terza giornata di campionato, Lazio-Inter, del 3 ottobre 1948 ed aveva anche segnato il gol del momentaneo 1-1 (la partita finì 2-2). La sera non tornò a Milano ma partecipò a una cena in via Solferino con gli ex campioni d’Italia del 1942 Fulvio Bernardini e Vincenzo Biancone ed i tifosi Tomarelli, Ferrucci, Montanari, Mattioli, Ciampini e Meschini.

    L’ambientamento a Milano non fu semplice, anche se alla fine della stagione segnò comunque 22 gol. Non segnò, invece, il 28 novembre 1948, Roma-Inter 1-0 con Amadei in campo. L’accordo con l’Inter prevedeva che non sarebbe sceso in campo nel caso in cui la Roma si fosse ritrovata a lottare per la retrocessione, ma quel giorno non era così. Quindi giocò. E come? Amadei fermo, titolò «Il Tempo», ed Eugenio Danese fotografò così la situazione: «Questa partita aveva il suo destino segnato. La sconfitta dell’Inter era scritta sin dal 4 marzo 1928. Anche vent’anni fa l’Inter aveva nelle sue file un calciatore romano. Si chiamava Fulvio Bernardini e giocava indifferentemente da centravanti, mezzala sinistra e centro sostegno. Era un asso nel senso più esteso del termine e nell’Inter aveva portato il suo gioco artistico, preciso al centimetro, pieno di talento. Ma Bernardini era romano e quando il 4 marzo 1928 si trovò a giocare all’Appio contro i colori della sua città, non riuscì a rendersi direttamente minaccioso. Mezzo sinistro con ben note capacità di tiro, quel giorno ripiegò sul gioco di manovra, che svolse con la consueta perizia, ma come cannoniere mai si vide nella partita. E siccome i suoi compagni giocarono peggio, l’Inter perdette 0-3. Fu un errore psicologico commesso dai dirigenti nel metterlo in campo. Ebbene, a 20 anni di distanza, lo stesso errore ha portato in campo un Amadei assolutamente fermo. Tagliato fuori dal gioco avvolgente dei suoi ex compagni, abbandonato da quelli attuali, Amadei è stato un giocatore praticamente inutile».

    L’anno successivo, prima di Roma-Inter, Amadei era in ritiro con i nerazzurri ad Ostia, quando chiese ed ottenne il permesso di andare a Frascati a trovare la famiglia, ma non tornò in ritiro, né si presentò allo stadio. «Evidente», scrisse il «Corriere dello Sport», «il suo desiderio di disertare la gara per ragioni affettive». Roma-Inter 1-3.

    Poesia per Guido Masetti

    Alfonso Gatto fu un poeta, oltre che tante altre cose (anche pittore e critico d’arte), con una grande passione per il calcio. Non era di Roma ma di Salerno, collocato tra gli ermetici, con un animo inquieto (arrestato per antifascismo nel 1935, iscritto dopo la guerra al Partito comunista, da cui uscì nel 1951 diventando un dissidente). Con una grande passione per il calcio e per gli sport popolari, riteneva che fossero il teatro dove era ancora possibile il dispiegarsi di un’azione epica, il palcoscenico sul quale gli uomini potessero nuovamente mettere in scena gesta gloriose e sforzi leggendari. Fu anche giornalista di ciclismo.

    I suoi scritti a tema sportivo sono raccolti in un libro intitolato La palla al balzo ed il più sentito è sicuramente «Voglio bene alla Serie C» dedicato alla Salernitana.

    Nella stagione 1931/1932 era un assiduo frequentatore di Campo Testaccio. Il suo preferito? Forse colui che occupava uno dei ruoli più poetici del calcio, cioè il portiere. A Guido Masetti dedicò queste parole: «Masetti, nel vecchio campo del Testaccio, a Roma, accanto alla Piramide e al bel cimitero di Keats, entrava come un purosangue, pieno di sé e tenuto a freno dai suoi muscoli, al taglio dritto di bel viso e degli occhi incastonati. Portava addosso non so che aria romantica, una sicurezza di fattura nel corpo, nella maglia, nei calzoncini tutt’uno con la coscia. Nelle partite di cartello, a un centravanti come Meazza egli voleva rispondere colpo contro colpo, destrezza contro destrezza, a volo contro gli angoli mirati di testa; e in più piazzare i terzini a furia di braccia, portare avanti l’attacco con l’ansia stessa con cui lo vedeva muovere nei suoi rimandi. Ricordo una partita sotto il temporale: quella domenica Meazza e Masetti fecero scintille. A un colpo di testa folgorante del centrattacco, egli rispose volando da sinistra a destra, alto su nell’angolo. Tutto intelligente fu il suo corpo in quell’attimo, tutto pieno della gioia sua e nostra, d’una pienezza netta. Comprendemmo allora che il gioco del calcio strappava le sue parole assolute nel vivo della vita stessa con un intuito furioso…».

    Forse se Alfonso Gatto si innamorò dello sport fu anche merito di Guido Masetti.

    Ho amato la Roma più dei soldi e delle donne

    Sergio Andreoli è stato un grande romanista. Otto anni di Roma, anni belli, come quello dello scudetto, anni di guerra e anni di una Roma che lottava per salvarsi e che, finché c’era stato lui, ci era riuscita. Nato a Capranica, scoperto a Perugia da Fulvio Bernardini, ricevuta l’approvazione di Alfréd Schaffer, arrivò alla Roma nella stagione 1941/1942. Non aveva paura di niente, quando altri temevano di tirare un calcio di rigore andava lui e lo sbagliava. Non era da questi particolari, lo sappiamo, che si giudicava un giocatore. Lo chiamavano Catapulta per la sua irruenza, scrivevano che con lui la Roma giocava spesso in dieci, ma i dirigenti romanisti e il presidente Bazzini non davano peso alle critiche. Semplicemente, gli dicevano: «Quanto a tecnica, lasciati guidare. Quanto a vigore, non ti preoccupare. In Italia abbiamo avuto grandi terzini che giocavano a catapulta come te. L’essenziale è che ti faccia più furbo».

    Già in quella stagione «Il Calcio Illustrato» scrisse che, dato che svolgeva il servizio militare a Bologna (com’era quella storia dei favoritismi del regime ai giocatori della Roma?), nel 1943 sarebbe passato in rossoblù. Non lo fece. Non abbandonerà mai la Roma, né durante la guerra, né dopo.

    Quanto fosse romanista, lo raccontò a Massimo Izzi: «Tutti mi cercavano. Il Bologna, il Napoli. Quando sono andato via, la Roma è retrocessa, ho sofferto a Reggio Calabria. Ogni anno io rispondevo alla Roma: se vi do fastidio, vado via. Ma se voi ritenete opportuno tenermi, non ci vado. Avrei guadagnato di più. Ma allora noi pensavamo prima alla squadra e poi ai quattrini. Eravamo affezionati. Io metto al primo posto l’amore per la Roma. Negli ultimi due anni sono stato capitano. I ragazzi dovevano filare dritti, non ero tanto manzo… Oltre a fare da chioccia, davo dei consigli, non volevo che facessero certe cose che poi venivo a sapere. Roma e la Roma sono molto amate, talmente amate che la Roma è amata anche dalle donne. E le donne amano i calciatori della Roma. Molte donne m’avranno detto: ma guarda che cretino! perché io non ci andavo. Venivano pure il sabato sera, con la scusa dell’autografo. Poi sa, se vuole un caffè… E io rispondevo: guarda, hai sbagliato tipo. Volevo bene alla Roma. Tanto bene e le voglio ancora bene. La mia partenza dalla Roma è stata un dolore immenso. Ho amato più la Roma che le donne, sì. E quante de ‘ste donne m’avranno detto: sto fregno buffo…».

    Bernardini e Di Bartolomei in squadra insieme

    Infinita, la passione per il calcio di Fulvio Bernardini. Ha giocato finché ha potuto, ha continuato a farlo anche mentre stava iniziando la brillante carriera successiva. Anzi le brillanti carriere, perché poi fu giornalista, allenatore e dirigente federale. È noto che giocò da allenatore in campo nella Mater, dove peraltro già praticava il Sistema, finché il fiato glielo consentì. È un po’ meno noto, invece, che la sua esperienza in campo proseguì anche dopo l’avventura con la Mater. Nella stagione 1945/1946, infatti, mise insieme un’altra squadra, chiamata Sparta Roma, radunando amici ex calciatori e giornalisti con il solo e semplice spirito di stare insieme e divertirsi.

    C’erano, tra gli altri, Celestini, Fasanelli, Chiesa e Battioni. C’era anche il futuro giornalista Alberto Marchesi, che anni dopo raccontò molti aneddoti di quella esperienza indicativi del carattere di Fuffo. Durante il gioco, ci fu un banale incidente ed un arbitro alle prime armi gli disse: «Mi dia il suo nome». Rispose: «Lo sa». E l’arbitro: «Dovessi conoscere il nome di tutti i giocatori delle squadre che dirigo…». Non finì la frase perché Fulvio aveva già deciso il modo di interrompere la discussione, andandosene dal campo, seguito dai compagni, prima di essere espulso.

    Una volta un compagno di squadra gli disse: «Fulvio, tu stai fermo e mi lanci palloni troppo in avanti, non ce la faccio a rincorrerli». Rispose: «Ma se sai soltanto correre, e sei soltanto giovane, che debbo fare? Correre io, che ho più di quarant’anni, e palleggiare con te, che sai appena correre?». Il giovane era Gualtiero Zanetti, futuro direttore de «La Gazzetta dello Sport».

    Lo Sparta Roma giocava al Motovelodromo Appio e Fulvio Bernardini ne era, come s’intuisce, il grande animatore. Tutti, alla fine, lo seguivano. Tutti imparavano da lui, bandiera e capitano romanista. Compreso il padre di un futuro capitano e bandiera della Roma: Franco Di Bartolomei.

    Armando Tre Re, Sacerdoti e Pasolini

    «Due contro due i ragazzi gliela ammollavano a rotta di collo, con le gambe larghe, tutti sudati e sciamannati, e nel frattempo, tanto per non perdere l’esercizio, gridavano paraculi: Daje a Veleno! Forza Tre Re, faje vedè chi sei!». Questo il celebre dialogo di Una vita violenta, un film del 1962 tratto da uno dei libri più famosi di Pier Paolo Pasolini, in cui i protagonisti giocavano a calciobalilla e dove, oltre al popolare Veleno, Benito Lorenzi, comparve anche Armando Tre Re.

    Non era una novità che la Roma venisse citata nel cinema italiano, fu particolare però che ad essere citato fosse un calciatore, Armando Tre Re, che diede molto alla Roma, ne fu anche capitano, ma che di certo non fu ricordato tra i simboli del calcio italiano. Lo aveva chiesto Fulvio Bernardini, ritenendolo un mediano adatto al Sistema che voleva mettere in pratica ed in seguito si dimostrò adatto a tanti ruoli diversi, fece il terzino ma anche l’ala, e anche senza Bernardini ebbe sempre il posto da titolare. Non aveva paura di niente, non si tirava mai indietro e per questo piaceva ai tifosi oltre che agli allenatori. Una volta segnò una doppietta alla Fiorentina e mise la firma anche su uno storico 3-0 alla Juventus. Fu tra i protagonisti anche dell’anno in Serie B e fu lui, insieme a Cardarelli, a portare in trionfo il presidente Renato Sacerdoti e poi correre per primo a salutare i tifosi. «Tre Re», scrisse Bruno Roghi nel 1953, «è un romanista che fa molto Testaccio. Egli combatte la sua partita dal principio alla fine, sprigionando dal volto cupo e dagli occhi torvi tutto ciò di palese e di invisibile che si definisce volontà di lotta per il raggiungimento della vittoria. Il numero cucito dietro la schiena deve avere un’importanza secondaria per chi si accinge a spiegare la tecnica di Tre Re. È un numero indifferente che vale per lui quello che vale la coda per il cane. Verniciatela di rosso o di verde, sarà sempre un cane che balza sull’osso che gli getta il padrone o sul polpaccio del nemico del padrone. È una forza della natura che ha trovato il suo impiego nel corpo di un giocatore di calcio». Per ben quarantasette volte portò la fascia di capitano. «Era un trascinatore», lo descrisse così Amos Cardarelli. «E fuori dal campo di una travolgente simpatia. Allegro, cordiale, chiacchierone, birichino. E capitano. Quando Sacerdoti ci disse che avremmo dovuto pagare le tasse sui premi, decidemmo di non entrare in campo per un’amichevole. Il presidente ci convocò e lui si mise in testa a tutti. Va bene, disse, voi non giocherete e io farò annunciare dall’altoparlante che i giocatori si rifiutano perché non vogliono pagare le tasse. Tre Re fece polemica, ma alla fine capì che il presidente ci aveva messi all’angolo».

    Lo stesso presidente che a Verona, nel giorno della promozione in Serie A, aveva portato in trionfo. Simpatia, cuore, spontaneità: Armando Tre Re.

    Il partigiano Losi

    La carriera di Giacomo Losi è sempre stata da una parte sola. Dalla parte giusta, quella della Roma, l’unica squadra per la quale giocò nei suoi quindici anni di Serie A. Non l’aveva scelta nel momento in cui ci arrivò, neanche lo sapeva, pensava di andare al Bologna e si ritrovò sul treno per Roma. Restando a giocarsi le sue carte quando qualche allenatore o dirigente lo metteva in discussione, dicendo di no a tentazioni come Juve ed Inter a cui in tanti avrebbero ceduto, scegliendola anche nel momento dell’addio. Continuò, sì, ma con il giallorosso della Tevere Roma in Serie D. Non aveva avuto paura di sceglierla, non aveva mai avuto paura di niente. Bastava vederlo in campo.

    Giacomo Losi non ha mai conosciuto la paura. «Avevo 8 anni», racconta nella sua autobiografia, «nel 1943, quando i tedeschi spedirono mio padre in Cecoslovacchia. Era l’anno della mia terza elementare e praticamente non sono mai stato a casa. Vivevo tra la scuola e il rifugio, perché c’erano i bombardamenti. I tedeschi volevano buttare giù il ponte che collegava Milano, Bergamo e Brescia e noi eravamo sempre lì, pronti a scappare. Mio padre per fortuna tornò prima della fine della guerra».

    Già, la guerra. Ne ha parlato nel 2017 al «Corriere dello Sport»: «Della guerra ho un ricordo molto brutto perché i bombardamenti erano sempre di notte. Noi eravamo piccoli, ma ricordo che un aereo alleato, lo chiamavamo Pippo, cercava di buttare giù i ponti. Ma non sono mai riusciti a beccarli, distrussero solo quello della ferrovia. Noi ragazzi, a Soncino, andavamo al fiume di giorno e quando sentivamo l’allarme che suonava dalla torre civica del paese scappavamo tutti nei rifugi sotto i bastioni. Aspettavamo che la paura passasse in queste grotte sotto terra».

    Non era ancora finita, in realtà. C’era la resistenza e c’era bisogno di tutti, anche dei bambini a fare da staffette. «Portavo le munizioni e i nastri per le mitragliatrici ai partigiani che stavano chiusi nella Rocca di Soncino, raccontò in un video sul sito del «Corriere della Sera». «Mi nascondevo sotto le mura quando passavano i tedeschi. Abbiamo vissuto la guerra sulla nostra pelle. Mio padre era un facchino e mia madre una filandiera, siamo sempre stati mal visti dai fascisti del posto e dai signorini loro figli. Sì, ho sentito la guerra sulla mia pelle. Ho visto gente morire a pochi metri di distanza da me. Ogni giorno pensavamo alla liberazione. E quando è arrivata è stato il giorno più bello. Anche perché i nazisti che andavano via passavano proprio vicino casa nostra. E con loro se ne andava tanta sofferenza». E gli americani non erano ancora arrivati. Prima che ciò avvenisse, Soncino era già stata liberata dai partigiani.

    L’Asiatica di Losi

    Mezzo secolo prima del Covid-19, la pandemia definita Influenza asiatica, di origine aviaria, fece oltre due milioni di morti nel mondo tra il 1957 e il 1960. In Italia l’Asiatica, che si diffuse soprattutto a causa dei tanti spostamenti dei soldati di leva tra licenze, permessi ed esercitazioni, provocò circa trentamila morti. A differenza del Coronavirus era effettivamente un’influenza, ma molto più aggressiva. Attaccava e uccideva i giovani, perché i più anziani avevano nel loro sistema immunitario anticorpi ereditati dalle influenze e dalle generazioni precedenti.

    Giacomo Losi aveva 22 anni ed era giovane e forte. Anche se non ancora capitano della squadra giallorossa, il 29 settembre 1957 era anche lui con la Roma, che doveva giocare in casa del Torino. «Siamo partiti il venerdì sera», il suo ricordo, «e, appena arrivati, fin da subito non mi sentii bene. Il sabato mattina mi feci visitare dal nostro medico e avevo 40 di febbre. Ero debolissimo. Per tutta la giornata, inutilmente, si cercò di capire cosa avessi. La sera venne chiamato addirittura un medico esterno. Il giorno successivo c’era la partita e tutti si trasferirono allo stadio. Con me rimase il dirigente Biancone».

    Sì, Giacomo Losi era stato colpito proprio dall’Asiatica, furono tre giorni tremendi per lui, fu portato in ospedale con un’ambulanza, perché la febbre era arrivata a 41 e «non ero nelle condizioni di capire che cosa mi stesse accadendo. Ricordo che girammo diverse cliniche e ospedali perché non c’era posto per potermi curare. Alla fine mi venne diagnosticata l’Asiatica. Venni messo in una stanza isolata e per alcuni giorni non vidi nessuno, tranne il medico, che ogni tanto veniva a visitarmi. Dopo tre giorni di completo isolamento venne a trovarmi il parroco dell’ospedale, al quale chiesi di avvisare la mia famiglia e rassicurare mia madre, dato che ero sulla via della guarigione. Tra l’altro la mia famiglia non aveva il telefono, feci chiamare in paese e poi attraverso un passaparola si arrivò ai miei genitori».

    Solo il sabato Losi fu dimesso dall’ospedale e non poté naturalmente aggregarsi alla squadra, che il giorno dopo avrebbe giocato col Genoa. Raggiunse la Roma il lunedì successivo, all’allenamento programmato alle 14 allo Stadio degli Eucalipti. «Feci le visite mediche e ricominciai l’attività, riprendendo quella che sarebbe stata la mia peggiore stagione. Mi era accaduta una delle cose più brutte della mia vita».

    Losi giocò qualche amichevole e rientrò in campionato il 19 gennaio 1958 per Roma-Juventus 4-1, un rientro trionfale, in cui annullò John Charles, che era grande il doppio di lui. Il virus scomparve nel 1969, quando finì la carriera di Losi da calciatore della Roma.

    In quindicimila per Guarnacci

    Egidio Guarnacci probabilmente sarebbe stato… Giacomo Losi. Lo sliding doors di questi due grandi romanisti fu proprio l’8 gennaio 1961, il giorno del gol di Losi da infortunato che diede alla Roma la vittoria contro la Sampdoria ed il giorno dell’infortunio di Egidio Guarnacci. Romanista tifoso fin dai tempi di Testaccio, capitano e titolare della Nazionale, era un giocatore destinato ad una carriera che però, proprio a causa di quel tremendo ko che lo costrinse a più di un anno di stop, non fu quella che poteva essere. Il suo amore per la Roma, però, esattamente uguale all’amore dei tifosi per lui, arrivò ad un livello che di più non poteva. L’identificazione nel ragazzo cresciuto tifando la Roma a Testaccio era totale, nel lungo periodo di stop sotto casa sua comparve uno striscione dove si leggeva: Guarnacci sei la Roma e questo dimostra esattamente il senso di ciò che Guarnacci fu per i tifosi della Roma.

    Se ciò non dovesse bastare, peraltro, ci fu un altro episodio che spiega tutto. Il 17 gennaio 1962, infatti, proprio per testare le sue condizioni in vista del sospirato rientro, fu organizzata un’amichevole con la Reggiana, squadra di Serie B, contro una Roma piena di riserve. Eppure, allo Stadio Olimpico quel giorno arrivarono quindicimila persone. Sì, quindicimila persone per un giocatore, per un simbolo della Roma, per ritrovarlo e ritrovarsi.

    Ci volle più o meno un’ora, per 60 minuti, infatti, il centrocampista giocò al piccolo trotto. Stando attento a non farsi male e a non sovraccaricare muscoli ed articolazioni non più abituati allo sforzo della partita. Qualche allungo, qualche passaggio, non tutti precisi come un tempo, com’era logico aspettarsi. Poi però, più o meno dopo un’ora di gioco, dopo che aveva ritrovato la folla, la folla ritrovò lui. Finalmente gli capitò un pallone al di qua della propria metà campo, con una bella porzione di campo davanti a lui. Nel suo scatto senza paura, nella sua progressione, nel suo coraggio, nel suo saltare tre avversari per arrivare a tirare in porta trovando la parata del portiere avversario, i quindicimila esultarono come ad un gol. In quel momento, avevano ritrovato il loro campione ed il loro simbolo.

    Peirò tradisce la fiducia di Peirò

    L’8 febbraio 1970 la Roma ospitò il Napoli e lo fece non potendo contare sulla presenza in panchina del suo allenatore Helenio Herrera, squalificato. Chi andò al suo posto? Nessuno. Già, nella distinta presentata al direttore di gara, alla voce allenatore c’era scritto Joaquín Peirò. Che però era in campo, essendo anche il capitano, oltre che uno dei migliori giocatori della squadra. La Roma disputò una grande partita, in un Olimpico esaurito e con l’incasso record di 121 milioni di lire, più la quota abbonati.

    Segnò subito Salvori, ma nel primo tempo fu comunque la squadra giallorossa a sfiorare più volte il raddoppio, che arrivò al quarto d’ora della ripresa con Cappellini. Fu una festa, che parve completarsi quando venne concesso ai giallorossi il primo rigore in tutto il campionato, ma il rigorista della squadra, Fabio Capello, era in tribuna perché infortunato ed allora sul dischetto andò proprio Peirò, che tirò alto. Da quel momento in poi la partita cambiò, il Napoli accorciò le distanze con Altafini e assediò la porta della Roma che per fortuna riuscì a resistere.

    I giallorossi con l’allenatore in campo vinsero 2-1. Allenatore in campo che aveva giocato bene ma con il suo rigore sbagliato aveva rischiato di inguaiare tutti. Cosa era successo? «Il rigorista era Scaratti, in assenza di Capello», raccontò lo spagnolo a fine partita, «ma Scaratti era uscito per infortunio pochi minuti prima. Al momento del rigore mi si è avvicinato Cordova, ma con Herrera eravamo già d’accordo che se Scaratti fosse uscito dal campo lo avrei tirato io».

    Non ci fu mai bisogno di prendere decisioni improvvise, da allenatore? «No. Herrera aveva previsto tutto e io mi sono limitato ad eseguire gli ordini. I miei sono stati i compiti del capitano. Mi sono preoccupato soprattutto di far restare calmi i miei compagni».

    Prestazione da allenatore ottima, secondo il «Corriere dello Sport» «non si era mai vista una difesa così solida nella Roma di questa stagione». Prestazione da calciatore, luci ed ombre: «Peirò è andato a sprazzi. In alcuni periodi lo spagnolo è salito in cattedra fino a sembrare il vero mattatore della partita. Ma ha anche avuto lunghe pause, ben mascherate dalla eccezionale vena di Cordova, Salvori e Scaratti». Forse durante le pause stava osservando il gioco da allenatore, chissà.

    Commenti dei tifosi? Di due tipi: secondo gli adepti del Mago, la Roma ormai giocava a memoria. Secondo i critici, senza di lui la Roma giocava meglio.

    Solo Falcão e Totti, anni dopo, faranno di meglio: il brasiliano durante la finale di Coppa Italia col Verona farà cambiare idea a Liedholm su una sostituzione. Di Totti, invece, leggerete più avanti.

    Ciccio Cordova, Natale a Londra

    per scommessa

    Classe cristallina, geniale, indolente, imprevedibile, estroso, dribblomane, amato ed odiato, Franco Ciccio Cordova di sicuro non rimase indifferente a nessuno dei tifosi romanisti tra la fine degli anni Sessanta e soprattutto la prima metà degli anni Settanta. Fino al suo clamoroso passaggio alla Lazio, per ripicca verso il presidente Anzalone, di cui si pentì sempre. Anzi, si pentì subito, dato che al primo derby a maglie invertite non voleva entrare in campo e, una volta entrato, Stefano Pellegrini gli disse: «Guarda che devi passare la palla a quelli con la maglia celeste». Un’altra volta fece anche autogol. Piaceva a Nils Liedholm, perché al Barone piacevano tutti i giocatori che sapevano toccare la palla e Cordova sapeva toccarla come pochi, così lo svedese fece di tutto per portare quell’infinito talento dalla sua parte. «Liedholm aveva un po’ il mio carattere», racconta lui oggi. «Era ironico, intelligente e sapeva sempre sdrammatizzare le situazioni. Conosceva profondamente il calcio e ti migliorava in tutti i sensi. Ti dava libertà ma tu dovevi stare in campo in un certo modo. La sua forza era la testa, tanto che ti trasmetteva quello che voleva fare. Era di un’altra categoria rispetto a tutti. Vivevo a Londra e lui mi consentiva di raggiungerla dopo le partite e di stare lì per due o tre giorni. Una volta facemmo una scommessa. Dovevamo giocare a Perugia e Liedholm mi disse che se avessimo vinto mi avrebbe mandato a Londra, altrimenti no. Vincemmo 1-0 e segnai proprio io a pochi minuti dalla fine approfittando del fatto che il mio marcatore, Amenta, in quel momento era uscito dal campo per infortunio. Così vinsi la scommessa e andai dai miei anche grazie alla buona sorte».

    Era il 21 dicembre 1975 e Cordova, al di là dell’assenza dal campo di Amenta, fece un grandissimo gol in acrobazia. La Roma non vinse più a Perugia fino all’11 gennaio 2004, con gol di Mancini. Però era dopo Natale e non prima. L’allenatore dei giallorossi era Capello, ex compagno di squadra di Cordova alla Roma ed

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