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Il ritorno dell'immortale: Storia di ribellione, libertà e consapevolezza
Il ritorno dell'immortale: Storia di ribellione, libertà e consapevolezza
Il ritorno dell'immortale: Storia di ribellione, libertà e consapevolezza
E-book269 pagine3 ore

Il ritorno dell'immortale: Storia di ribellione, libertà e consapevolezza

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Info su questo ebook

Nella Berlino cupa del prossimo futuro, una chirurga di fama, dedita

totalmente alla carriera, incontra un paziente del tutto insolito,

apparentemente un mago prestidigitatore d'incredibile talento. Con in

più un inspiegabile interesse per lei. La curiosità di svelare il

mistero di quel paziente straordinario porterà Paola, la protagonista,

nel sordido sobborgo di Alekt. Qui non vige altra legge che quella della

spietata e avida setta dei Carbonai. Ma un altro incontro, con il

gruppo dei giovani ribelli capeggiati da Bron e dalla dolce e

determinata Maria, cambieranno per sempre la vita di Paola. Riscoprirà

la magia della propria professione e il potere terapeutico dell'amore e

della compassione. E forse troverà anche la chiave per andare oltre i

limiti dello spazio e del tempo.
LinguaItaliano
Data di uscita19 lug 2021
ISBN9791220347204
Il ritorno dell'immortale: Storia di ribellione, libertà e consapevolezza

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    Anteprima del libro

    Il ritorno dell'immortale - Federico Fioretto

    CAPITOLO 1

    Nella clinica dove la chirurga lavorava, a Berlino, venne ricoverato un giovane uomo; all’apparenza non mostrava alcun sintomo di squilibrio psichico.

    Ma egli aveva insistito a lungo per essere internato e sottoposto a cure proprio da parte della nostra dottoressa, quindi il direttore della clinica aveva dato l’assenso al ricovero volontario.

    La dottoressa studiò attentamente il referto del mentemedico (una visita preliminare in qualche modo simile a quelle dei nostri psicologi si farà ancora) e non trovò apparentemente nulla di strano.

    Ma una possibilità di malattia esiste sempre, perciò lo fece sottoporre a esami integrativi (lettura Protz, ascolto estremo, test giroscopici, elettroscansione e infiniti altri) oltre a effettuare la normale visita di verifica dell’ispezionabilità del cranio.

    Fatti gli esami decise che valeva la pena di guardarci dentro.

    Dato che l’uomo era consenziente, la Commissione accolse la proposta della dottoressa di sottoporlo ad apertura ispettiva, una pratica frequente e, solitamente, poco traumatica. Non c’erano tanti pazienti in quel periodo e l’intervento poté svolgersi ben presto.

    Il giovane fu preparato nel modo consueto in ambulatorio, poi trasferito alla sala operatoria e posto nella posizione seduta indispensabile per l’intervento.

    Robuste cinghie gli vennero fatte passare sotto le ascelle e una imbracatura di sostegno sotto la mandibola, affinché non avesse a spostarsi dalla posizione prestabilita; infine, l’anestesista lo addormentò.

    Il giovane cadde in un sonno lieve e tranquillo, come confermato dalle sofisticate apparecchiature di sala operatoria, e la cerebrochirurga si fece preparare dall’assistente.

    Infine, si avvicinò al paziente e stese la mano aperta con il palmo in alto, pronta a ricevere il primo strumento operatorio.

    I riflettori di sala diffondevano luce calda e quel palmo teso pareva il ventre palpitante di una vergine al sacrificio.

    Al comando del chirurgo l’infermiera vi posò una specie di affettatartufi; in realtà lo strumento serviva per togliere dalla cerniera lo strato di finta pelle che la ricopriva rendendola invisibile.

    Ben presto dal cranio dell’uomo prese a svolgersi una sorta di spirale di finta pelle e la cerniera divenne evidente.

    Una pinza dal becco ritorto prese il posto dell’affettatartufi nelle mani della cerebrochirurga, la quale afferrò con gesto deciso la linguetta della cerniera, tirando con forza calcolata.

    Normalmente si davano due casi all’apertura di una cerniera cranica: il caso più probabile era che ci fosse un risucchio d’aria.

    Lo stato naturale del cervello, infatti, è quello sotto vuoto.

    L’altra possibilità era quella che, a causa di qualche stato patologico, la scatola cranica si trovasse in pressione, la qual cosa portava normalmente come conseguenza forme di alterazione psichica.

    In questo secondo caso c’era una probabilità che un getto d’aria e del liquido lubrificante nel quale il cervello galleggia investisse gli operatori più vicini.

    La prima cosa curiosa di quel particolare intervento fu che nulla accadde; nulla, finché la cerniera non fu del tutto aperta e la chirurga sollevò perplessa la calotta.

    A quel punto sì, accadde l’imprevedibile.

    Una mano guantata saltò fuori dalla testa dell’uomo; reggeva un mazzolino di fiori di campo e li porgeva alla dottoressa.

    Questa ebbe solo un attimo di esitazione di fronte all’imprevisto, poi, seguendo un istinto curioso, si frappose tra il paziente e la vetrata dietro la quale la Commissione osservava l’intervento.

    Per fortuna i commissari erano intenti alle solite dotte disquisizioni e non si accorsero di nulla.

    La dottoressa ebbe così modo di osservare con la necessaria calma il fenomeno straordinario verificatosi davanti ai suoi occhi.

    Con un gesto della mano tacitò il mormorio proveniente dagli altri componenti dell’équipe di sala, fece spostare la macchina per la respirazione artificiale tra la sedia operatoria e la vetrata della Commissione e prese a esaminare sistematicamente il paziente.

    Al lieve soffio d’aria prodotto dai condizionatori i petali dei fiori vibravano impercettibilmente; ne scaturiva una palpabile sensazione di vita.

    I lembi della cerniera erano netti e perfettamente integri, così come le guarnizioni in neoprene, perciò nessuno pareva aver manomesso la scatola cranica del paziente; il cervello era al suo posto, immerso nel liquido lubrificante che aveva il giusto grado di limpidezza e, come accertò immergendovi una sonda digitale, di viscosità.

    La calotta era lucida e pulita, salvo per qualche traccia di polline che diede disposizione di togliere ed esaminare.

    La dottoressa aveva compiuto un giro quasi completo attorno al paziente e ora stava per trovarsi nuovamente di fronte a lui.

    Fatto l’ultimo passo diede un balzo indietro con un grido appena soffocato.

    Gli occhi del paziente erano aperti e la guardavano con espressione divertita!

    Non poteva credere a quanto aveva visto, perciò chiuse e sfregò gli occhi energicamente; quando li riaprì si trovò davanti al paziente regolarmente addormentato, con gli occhi chiusi e l’espressione innocente.

    C’era decisamente qualcosa di strano, da esaminare con calma.

    Per fortuna aveva l’abitudine di far effettuare riprese televisive di ogni intervento; fu quindi con scientifica serenità che diede disposizione di predisporre tutto per la chiusura della scatola cranica.

    Non prima però di essersi fatta portare un vaso per riporvi il mazzo di fiori.

    Quando, con circospezione, lo prese dalla mano guantata questa le fece un accenno di riverenza prima di scomparire con un sordo flop nella massa cerebrale.

    Stavolta la cerebrochirurga riuscì a contenere il moto di stupore: in un certo qual modo s’era aspettata il gesto.

    Comunque avrebbe studiato l’accaduto con calma a casa, mentre il paziente sarebbe rimasto in stretta osservazione nel reparto chiuso della clinica.

    Gli assistenti ripulirono l’interno della calotta, raccogliendo con cura ogni traccia di polline, e la posizionarono per la chiusura.

    La dottoressa si fece passare nuovamente la pinza a becco d’aquila e procedette alla chiusura della cerniera.

    Ma non effettuò la ricopertura in finta pelle: quella scatola cranica sarebbe stata riaperta a breve scadenza.

    L’uomo fu sdraiato sulla barella e preso in cura dai portantini che, seguiti dall’anestesista, si allontanarono attraverso le porte a bandiera.

    La dottoressa stette un attimo a guardare la piccola comitiva allontanarsi poi, ritrovata la propria piena efficienza, si fece spogliare dai paramenti operatori, prese la scheda con la videoregistrazione dell’intervento, la infilò in una tasca dello zaino e uscì a propria volta di scena.

    Andò diretta al proprio studiolo, ne aprì la porta con la chiave che portava sempre appesa al collo e, una volta entrata, la richiuse a doppia mandata: non voleva essere disturbata mentre riordinava le idee.

    Voleva studiare un po’, ora che aveva ancora vivida la scena nella mente. Andò alla nutrita libreria sulla parete di fianco alla porta e scorse i titoli alla ricerca di qualcosa che le potesse venire in aiuto nello studio dello strano caso.

    Trasse dagli scaffali tre volumi dalla rilegatura consunta dall’uso: erano i suoi manuali preferiti, ai quali spesso ricorreva nei momenti di dubbio o difficoltà.

    Si gettò nella logora poltrona ereditata dal predecessore, immergendosi nella lettura di uno dei volumi.

    Dopo tre ore di intenso studio fu richiamata alla realtà dal suono del videocomunicatore: era la sua amica Dorotea che voleva invitarla a cena con un gruppo di amici.

    No grazie, Dory: ho un problema particolare da risolvere e vorrei trascorrere la serata a studiare. Ci sentiamo magari dopodomani... Sì... Va bene, a presto... Ciao.

    Deposto il ricevitore guardò l’orologio, rendendosi così conto del tempo trascorso: ancora venti minuti e si sarebbe trovata chiusa dentro la clinica fino all’indomani.

    Scattò in piedi, gettò i manuali alla rinfusa nello zaino nero, si infilò il lungo pastrano dello stesso colore e uscì precipitosamente dallo studio.

    Nel volgersi per richiudere la porta il movimento rotatorio fece volare fuori dallo zaino la scheda video, che sbatté contro lo spigolo dello stipite rompendosi, spargendo schegge attraverso il corridoio.

    Paola imprecò contro il nottolino di chiusura dello zaino, rotto da troppo tempo, e si chinò a raccogliere i resti della scheda. Si concentrò sul cuore che conteneva i dati, lasciando perdere i resti dell’involucro. Un’imprecazione ci stette anche per i bilanci sempre più risicati della clinica che costringevano ad acquistare i materiali non medicali di scarsa qualità.

    Forse avrebbe potuto recuperare i dati a casa…

    Infine, chiuse la porta e presa da un irresistibile impulso si avviò con passo deciso verso il reparto segregato.

    L’infermiere di guardia notturna era appena montato in servizio e si mostrò cortese e disponibile ad aprire il reparto e accompagnarla alla stanza del convalescente.

    Quando si affacciò al vetro blindato della cella post operatoria fu come colpita fisicamente dallo sguardo penetrante dell’uomo: era già alzato su di lei, come l’avesse seguita, attraverso i muri insonorizzati, fin dal suo ingresso nel reparto.

    O forse da prima.

    Si sentì come violata da quello sguardo e istintivamente strinse le braccia al petto in un gesto di protezione.

    Il giovane paziente se ne avvide, così, quasi per sdrammatizzare la situazione, sciolse il cipiglio in un sorriso.

    Sentendosi colta in castagna la dottoressa arrossì un poco, ma sorrise a sua volta allontanandosi con un timido gesto di saluto.

    Sulla porta del reparto ringraziò l’infermiere, prima di affrettarsi all’ascensore riservato al personale medico: mancavano solo tre minuti alla chiusura dei cancelli.

    L’apparecchio aveva un dispositivo di blocco in quanto portava direttamente al piano dell’autorimessa, privo delle dotazioni di sicurezza richieste ai locali accessibili ai pazienti.

    Paola tolse lo zaino dalle spalle e vi infilò una mano, ma non riuscì a trovare subito le chiavi.

    Senza smettere di cercare chiamò l’infermiere, pregandolo di prendere le sue; ma prima che questi arrivasse in suo aiuto trovò finalmente la pesante chiave d’acciaio a T con la quale fece scattare la porta scorrevole, infilandosi nella cabina di metallo.

    Arrivò al garage che mancavano quaranta secondi alla chiusura dei cancelli.

    Rimase un attimo sulla soglia dell’ascensore pensando al da farsi: non ce l’avrebbe mai fatta a uscire con la vettura. Di restare in clinica fino al mattino successivo non se ne parlava proprio; decise di lasciare lì il veicolo e spiccò la corsa verso l’uscita pregando in cuor suo che l’ultimo mezzo pubblico per il centro non fosse già passato.

    Attraversò l’uscita nel momento preciso in cui suonava il segnale di chiusura e il cancello iniziava a chiudersi; si girò a guardarlo mentre con un sonoro clang! picchiava sul battente segnando, come ogni sera, il triste destino di decine di persone.

    Fortunatamente la monorotaia doveva ancora passare e la donna riuscì ad arrivare a casa a un orario decente.

    Appena entrata nell’appartamentino da studente andò rapida in bagno e aprì il rubinetto della doccia; in men che non si dica si spogliò, disseminando vestiti tutt’intorno, e si abbandonò al getto ristoratore d’acqua calda.

    Uscì dal bagno mezz’ora dopo avvolta in un asciugamano che aveva conosciuto tempi migliori e andò in cucina a rovistare nel frigorifero.

    Lo fece più per abitudine che per altro, poiché i pensieri della giornata le avevano tolto l’appetito. Tutto quanto ne trasse fu uno scodellino mezzo vuoto di gelato alla vaniglia con il quale preparò un affogato al caffè.

    Aveva in programma di stare alzata un bel po’, quella sera.

    Andò nell’unica stanza che fungeva da studio - pranzo - soggiorno - letto, raccolse lo zaino, ne estrasse la scheda video danneggiata e tentò di aggiustarla abbastanza da connetterla al computer, ma senza troppa convinzione.

    Dopo una decina di minuti si arrese all’evidenza e l‘infilò in una busta marrone; l’avrebbe portata l’indomani a un amico trafficante in schede contraffatte per vedere se fosse possibile recuperarla.

    Era talmente tesa e stanca da non riuscire neppure ad arrabbiarsi per la probabile perdita dell’inestimabile testimonianza.

    Cacciò la busta nello zainetto e si accoccolò sul divano con l’affogato, i manuali di chirurgia cerebrale e un disco di Mendelssohn nello stereo a far da colonna sonora, immergendosi nella lettura.

    Studiò finché le vennero gli occhi rossi, senza riuscire a venir a capo del mistero che le si era presentato.

    Il mattino, entrando di soppiatto tra le tende dimenticate aperte, la sorprese addormentata sul libro con il capo reclinato e le braccia abbandonate in grembo; le sfiorò gli occhi con delicatezza per svegliarla e si ritirò con discrezione dietro una pudica nuvoletta.

    La giovane chirurga sbatté le palpebre nel risveglio, facendo mentalmente l’inventario dei dolori procurati dal sonno nella scomoda posizione. Quante mattine ancora avrebbe dovuto svegliarsi così, dopo una notte solitaria e inconcludente?

    Rimase qualche minuto con lo sguardo fisso sulle gambe del tavolino da pranzo senza muovere muscolo, scosse le spalle per scacciare l’amara riflessione e si alzò riluttante a prepararsi qualcosa per colazione.

    Messo il caffè sul fuoco andò in bagno; quel che vide nello specchio non le piacque molto: tre ore di sonno non regalano quasi mai un viso disteso e occhi vispi.

    Si lavò frettolosamente con l’acqua gelida per risvegliarsi e tornò in cucina appena in tempo per spegnere il gas sotto l’antica caffettiera, unico e amatissimo ricordo di famiglia.

    Mentre sorbiva cauta la bevanda bollente, ripensò al lavoro fatto durante la notte, sentendosi ancora più a pezzi: non aveva cavato un ragno dal buco, seppure avesse letto e riletto i tre manuali più quotati nell’universo sulla materia.

    Il difficile caso tuttavia non la scoraggiava, anzi: la stimolava quale nuova sfida professionale a lei che a trentadue anni si era già guadagnata riconoscimenti solo ambiti da molti colleghi fino a ben più tarde primavere.

    Decise che avrebbe effettuato una visita generale al paziente e lo avrebbe aperto di nuovo nel pomeriggio.

    Il fatto di avere davanti una giornata d’azione le restituì un po’ d’appetito; così aperse la scatola dei biscotti e vi tuffò una mano: briciole!

    Già! Da settimane non riusciva a fare la spesa come Dio comanda e la dispensa era ormai vuota; una volta risolto il caso del mazzo di fiori si sarebbe dedicata un po’ a se stessa: non lo faceva da troppo tempo.

    Ma quando lo avrebbe risolto?

    Coraggio! disse tra sé Se starai qui ancora a lungo non lo risolverai certamente prima: via!

    Si sarebbe fermata per strada a comprare qualcosa da mettere sotto i denti.

    All’arrivo in clinica dovette sbrigare qualche formalità con la sorveglianza per giustificare la permanenza della vettura nel garage tutta la notte, ma verso le 9,30 riuscì a essere tranquilla in una stanza per le visite con il caso del mazzo di fiori e un infermiere della sicurezza.

    Il paziente fu disinvolto e cordiale quando si scambiarono i saluti, fu anzi persino galante; non volle sedersi prima di lei e, suscitando un‘istintiva reazione nell’infermiere, volle passare dall’altra parte del tavolo per accomodarle la sedia.

    La dottoressa portò pian piano il discorso su un livello più tecnico; cercò di far parlare l’uomo di argomenti sui quali lei avrebbe potuto poi effettuare le verifiche di coerenza. Ma era difficile distoglierlo dai suoi ragionamenti.

    Niente di patologico, tuttavia: solo la normale resistenza da parte di chi pensa e parla coerentemente ad abbandonare il proprio discorso per seguire quello dell’interlocutore.

    Tale condotta, anzi, configurava solitamente un tipo mentale positivo, di quelli a cui gli interventi di cerebrochirurgia cercavano di riportare le teste sfasate.

    Solo ogni tanto aveva la sensazione che qualcosa nel comportamento dell’uomo la colpisse. Ma era una sensazione differente da quella che provava di solito con i pazienti.

    Aveva avuto modo negli anni di professione di accorgersi come l’emergere della manifestazione di squilibrio nel paziente costituisse un microtrauma, quasi un vero momento d’ingaggio tra medico e malattia: la dichiarazione di guerra tra il Bene e il Male.

    Perciò aveva sempre vissuto quel momento come esperienza tendenzialmente sgradevole.

    Ebbene, non era affatto sgradevole la sensazione provata quando qualcosa del paziente che stava osservando quella mattina la toccava dentro.

    Il faticoso viraggio nella conversazione li portò al momento delle domande dirette, tese a provocare una reazione simile a quella da psicodramma, che il paziente superò brillantemente.

    La chirurga era assai perplessa, e lo disse:

    Veda signor Impeccabili, io l’ho visitata approfonditamente e altrettanto ha fatto il mentemedico che ha accettato, dietro sua insistenza, di ricoverarla. Tuttavia, non pare lei abbia bisogno di cure per qualche disturbo mentale evidente.

    I test da lei superati non hanno, ciascuno, che una possibilità di errore vicina allo 0,3%; le lascio quindi immaginare quanto piccola può essere tale possibilità avendoli effettuati congiuntamente nella accurata sequenza in cui lo abbiamo fatto.

    A tutta regola non dovrei fare altro che dimetterla seduta stante... Salvo...

    Non voleva, né la deontologia professionale lo consentiva, svelare al paziente cosa aveva trovato nella sua scatola cranica.

    Inoltre non c’era motivo di trattenerlo, poiché ai test risultava sano e lei aveva occultato alla Commissione lo sconvolgente ritrovamento. Ma in cuor suo non voleva assolutamente lasciarlo andare via prima di aver chiarito il mistero.

    Sentiva, anche se non capiva, che il mistero non era malvagio e si concedeva di rischiare grosso sulla propria pelle professionale.

    Salvo, dottoressa? Di nuovo quella sensazione di essere sfiorata da qualcosa di caldo, piacevolmente caldo, dal di dentro.

    Salvo... beh, devo confessarle che non sono proprio soddisfatta dell’intervento al quale l’abbiamo sottoposta ieri.

    Ah!

    L’uomo si rilassò impercettibilmente, mentre la cerebrochirurga precipitava senza freno lungo la china della menzogna.

    Insomma, non so chi le fece a suo tempo il tagliando... scusi, noi lo chiamiamo così, l’intervento implantologico della cerniera cranica, ma ho trovato un po’ di sporco sulla sua calotta cranica e qualche irregolarità nei livelli di liquido che vorrei ricontrollare. Questo, tra l’altro, è il motivo per cui, come avrà sicuramente notato, non ho effettuato la ricopertura della cerniera.

    Purtroppo però la legge non mi consente di rioperarla, in assenza di malattie mentali, senza il suo consenso. Che ne dice?

    Nessun problema, dottoressa. Mi fido di lei e sono pronto a fornire il mio consenso in qualunque forma richiesta. Del resto, io stesso ho voluto essere ricoverato dove visita e opera lei!

    Bene, signor Impeccabili, allora è fatta; se le va bene la farei accompagnare in amministrazione a firmare il modulo di consenso e potremmo fare l’intervento oggi pomeriggio stesso.

    Perfetto! Allora a presto!

    A presto; già!

    La dottoressa ristette pensosa a guardare l’uomo uscire dalla stanza di visita accompagnato dall’infermiere della sicurezza.

    Dai test non era emerso nulla che giustificasse la richiesta di ricovero; l’uomo era sano come un pesce, così come la sua scatola cranica, del resto, denotava.

    A parte quel benedetto mazzo di fiori!

    Andò nello studio e stette a rimirarlo assorta per

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