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101 perché sulla storia di Napoli che non puoi non sapere
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E-book487 pagine6 ore

101 perché sulla storia di Napoli che non puoi non sapere

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Info su questo ebook

Napoli non è solo una città, ma un universo in cui ogni domanda può trovare una risposta. Un luogo in cui sono accaduti alcuni tra i più importanti episodi della storia, dove sono transitati personaggi leggendari. Una civiltà multietnica le cui origini ancestrali vanno a braccetto con l’arrivo dei Greci, le innovazioni dei Romani, gli splendori bizantini, le fierezze normanno-sveve, la raffinatezza francese, l’esoterismo rinascimentale, il barocco dei Viceré, l’Illuminismo settecentesco, il Romanticismo e i segreti del secolo breve. Questo libro svela 101 perché sui suoi trascorsi: perché è nota come la città del sole, perché a Napoli esisteva l’otium e c’è ancora, perché il gioco del lotto sbancò qui più che altrove, perché il dialetto ha parole che provengono da mezzo mondo e la cucina partenopea è apprezzata dappertutto. Tante curiosità e aneddoti del passato, che servono però a interpretare il presente di questa città.

Perché gli argonauti possono averci messo piede? Eumelo Falero e i cercatori del vello d’oro
Perché il Graal avrebbe a che fare col Maschio Angioino? La conoscenza rivelata di un grande sovrano
Perché è nato qui il pesce d’aprile? Un pescatore, il viceré e una storia da riscoprire
Perché la Gioconda potrebbe essere una dama napoletana? Donna Costanza d’Avalos e l’enigma del dipinto più noto al mondo
Perché ’O sole mio fu cantata nello spazio? L’universale melodia napoletana e il viaggio di Gagarin del 1961
Marco Perillo
è nato nel 1983. Discende da una nobile famiglia partenopea, forse di origine normanna. Ama la sua città come fosse una madre e da sempre nelle sue opere cerca di raccontarne la ricchezza. Giornalista de «Il Mattino», è autore del romanzo Phlegraios / L’ultimo segreto di San Paolo. Con Newton Compton ha pubblicato Misteri e segreti dei quartieri di Napoli (Premio Tulliola Renato Filippelli e Premio Letizia Isaia) e 101 perché sulla storia di Napoli che non puoi non sapere.
LinguaItaliano
Data di uscita23 ott 2017
ISBN9788822714787
101 perché sulla storia di Napoli che non puoi non sapere

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    Anteprima del libro

    101 perché sulla storia di Napoli che non puoi non sapere - Marco Perillo

    1.

    PERCHÉ TUTTO INIZIA BEN PRIMA DI 2500 ANNI FA?

    I primi insediamenti preistorici

    Benvenuti.

    È una giornata placida, sullo scintillante golfo di Napoli. La città, dal mare, la vedete: è sdraiata sulle sue undici colline come una sirena gaudente, le abitazioni variopinte immerse in una temperatura mite, in un azzurro incessante, sotto un sole che sembra non possa tramontare mai. Davanti agli occhi si dipanano profili di castelli – ben sette, di epoche diverse – con una miriade di campanili, di chiese, di guglie, tetti e facciate di edifici antichi e moderni. Lo pensate anche voi, magari mentre un gabbiano accarezza il vostro sguardo e la salsedine s’impadronisce della pelle: in un posto del genere non poteva che sorgere una grande civiltà.

    Una città necessaria, un approdo imprescindibile, attraente e seducente, nel cuore del Mediterraneo, per quei coloni greci già stanziati lungo le coste dell’Italia meridionale sin dal VII secolo a.C. Quale ricovero più dolce, tra l’abbraccio della penisola sorrentina all’orizzonte e il profilo femminile di Capri, a chiudere il cerchio? E non importa se svettasse il Vesuvio fumante, quel vulcano che tutti dicono di temere – clessidra della storia, distruttore di Pompei e di molte altre cittadine nel 79 d.C. – ma che non fa mai del tutto paura, ricercato com’è dall’obiettivo di ogni macchina fotografica.

    Che la si accosti per mare – scrisse nel suo Napoli Antica datato 1885 Franz, pseudonimo di Francesco Savoja di Cangiano – la si vedrà sorgere a guisa di anfiteatro, e volgendo l’occhio discopre in un estremo la culla del Tasso, in un altro la tomba di Virgilio, e d’intorno Ercolano e Pompei redivive; rupi dove stanno scolpite le origini d’Italia, scogli che ricordano i primi navigatori, le prime favole, la prima poesia. E questo spettacolo vi carezza la fantasia in un’orgia affascinante di memorie potenti per la grandiosa poesia dei primi tempi, e di colori in una conca che raccoglie le tinte più vive in un clima benigno che ricorda il sereno e fantastico tepore dell’Oriente.

    Ancor prima, nel 1539, Bernardino Daniello, tra i più noti commentatori di Dante, descriveva così il luogo in una lettera riportata da Benedetto Croce e citata da Alessandro Cutolo nel suo Napoli fedelissima (1958):

    A me pare meraviglioso e il più bello che io vedessi mai, perché io non ho veduto città ch’abbia da un lato il monte e dall’altro la batti il mare, come fa questo; e anche per altre sue particolarità che tutte insieme e ciascuna per sé la fanno parere mirabile. Ma perché dovete sapere che la natura non vuole, né si conviene (come disse quella pecora del Petrarca) «per far ricco un povero gli altri ire in povertate», quando l’ebbe molte delle sue doti più care concedute, le parve di restringere la mano, a fine che le altre città non le mandassero loro ambasciatori a dolersi con esso lei di tanta parzialità e propose fra sé stessa di dare questo paradiso ad abitare a diavoli; e così come aveva proposto, mandò ad effetto.

    Probabilmente è così. Napoli è davvero quel paradiso abitato da diavoli, com’è noto ai più. La sua realtà complessa fa spesso emergere le ombre, più delle luci. Eppure la vicinanza alla bocca di un vulcano, punto di collegamento tra un mondo e un altro, soglia tra la terra e l’inferno, procura una particolare energia in chi vi abita. Non solo: alle eruzioni questa fertile terra deve tutto, specialmente la sua origine. I più antichi materiali ignei rinvenuti risalgono a tredicimila anni fa. Le attività vulcaniche del Vesuvio – il cui nome, tra le varie ipotesi, deriverebbe dalla parola osca ves che significa fuoco – cominciarono invece circa ottomila anni fa. In questo frangente furono tre i periodi principali che delinearono la morfologia odierna di tutta l’area. Dalle prime eruzioni vennero fuori il piperno, il tufo campano giallo-rossastro e la pozzolana di colore biancastro. Nel secondo periodo scaturì il tipico tufo giallo napoletano e nel terzo la pozzolana grigio-giallastra.

    La morbida roccia tufacea, foriera di antri e grotte, fece in modo che Napoli fosse fin da subito una sorta di casa naturale per l’uomo delle caverne. Al di là di alcuni ritrovamenti stanziati tra Capri e il Sannio, le più antiche tracce umane rinvenute nella città sono state scoperte nel 1942 in vico Neve a Materdei, zona interna compresa tra l’attuale collina del Vomero e il vallone del rione Sanità. Si tratta di sepolture corredate da materiale in stile egeo-anatolico, risalenti più o meno a tremila anni prima di Cristo. Le tombe, scavate nella pietra gialla e precedute da un piccolo corridoio chiuso da una lastra di pietra, conservano i resti di un giovane rannicchiato, un’olla di ceramica e un pugnale di bronzo lungo quindici centimetri. Siamo praticamente nell’età del rame, caratterizzata dalla cosiddetta cultura del Gaudo.

    Le sepolture di Materdei non sono però l’unica testimonianza preistorica presente in città. Lungo le spelonche del litorale, in particolar modo all’interno di quelle di via Chiatamone – dal greco platamon, ovvero rupe scavata da grotte grazie all’erosione del mare – in tempi più recenti è stata rilevata la presenza di ossa lavorate, frammenti ceramici, resti di vasi nerastri, anse e ollette di natura preellenica. Appartenevano a trogloditi identificabili quasi sicuramente con gli opici, popolazione di origine neolitica proveniente dalla Puglia e dalla Lucania, il cui nome, in greco, è la perfetta fusione delle parole grotta e abitare. Le loro fortune, su queste sponde, durarono poco. Essi furono sopraffatti, fin dal 1280 a.C., dalla popolazione indoeuropea degli osci, menzionati da Antioco di Siracusa già nel V secolo a.C., che divennero padroni di tutta la Campania da Nola ad Atella, da Capua a Nocera. La loro esistenza era ammessa dagli stessi greci, da sempre considerati i veri fondatori di Napoli, ma che sarebbero arrivati da queste parti soltanto parecchio tempo dopo.

    Sezione della carta topografica di Napoli realizzata nel 1775 dal duca di Noja, con cartografati la chiesa e la piazza del Carmine con il numero vi, la reggia di Capodimonte con il numero III, la Marinella con il numero IX, la cattedrale con il numero V.

    2.

    PERCHÉ GLI ARGONAUTI POSSONO AVERCI MESSO PIEDE?

    Eumelo Falero e i cercatori del vello d’oro

    Ulisse sì, questo lo sappiamo. Transitò per questi lidi ascoltando il terribile canto delle sirene – tra cui la melodiosa Partenope – e si affacciò sul lago d’Averno, luogo deputato dell’Ade, per ricevere un vaticinio dal defunto indovino Tiresia. Enea pure; un destino simile a quello di Odisseo, poiché stringendo un ramo d’oro entrò nel regno dei Morti coadiuvato dalla Sibilla cumana, per rivedere il padre Anchise. Ma gli Argonauti? Cosa hanno a che fare con Napoli? Cosa c’entrano i mitici eroi – Argo, Giasone, Orfeo, Castore, Polluce, Meleagro, Ercole, Telamone, Peleo – con gli approdi partenopei?

    Il contatto tra l’attuale capoluogo della Campania e coloro che fecero l’impresa di recuperare il vello d’oro nella Colchide – il prodigioso pelo dell’ariete Crisomallo in grado di curare le ferite – si deve a uno dei protagonisti della spedizione, quell’Eumelo Falero, figlio d’Alcone, che leggenda vuole si fermasse da queste parti, sbarcando intorno al 1225 a.C. ai piedi della collina di Pizzofalcone. Gli altri Argonauti proseguirono il viaggio verso Sud e dopo aver edificato nel golfo di Salerno un tempio dedicato a Giunone Argiva, a bordo della loro nave Argo composta da ben cinquanta rematori, se ne tornarono in Grecia.

    Eumelo, invece, la sua patria l’aveva trovata sulla dolce costa di tufo, nella zona odierna del Castel dell’Ovo. Non fondò propriamente una città – a quello ci avrebbero pensato i coloni rodii tempo dopo – bensì un punto di osservazione, un avamposto con casupole e un’ara, nonché una torre, quella mitica del Falero, citata anche dal poeta Licofrone, davanti alla quale il corpo della sirena Partenope, suicida con le sorelle per non essere riuscita a sedurre Odisseo, si sarebbe arenato.

    Gli Argonauti e le Arpie (particolare da un reperto greco).

    «E questo si ricava, che questa città fosse stata fondata prima della ruina di Troia, e in conseguenza prima di Roma. Alcuni poi, o poco pratici degli antichi scrittori, o poco eruditi nella greca favella (equivocando Falero con Falere) han detto che Falaride, tiranno siciliano edificata l’avesse: e così per molto tempo la città col nome di Falero appellata ne venne» ricordò il canonico Carlo Celano nel suo Notizie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli (1674).

    Questo, il mito. Storia alla mano, più realisticamente, Erodoto raccontò che un gruppo di greci espulsi dalla Tessaglia, di razza egeo-pelasgica, sarebbe giunto sulle coste campane a bordo di piccoli battelli, ben prima della guerra di Troia. Come spiega Gustavo La Posta nel suo libro Neapolis (1994), probabilmente si tratta dei teleboi, greci provenienti dalla foce del fiume sacro Acheloo, che abitarono le nostre coste – in particolar modo l’isola di Capri – e che furono descritti da Omero come veri e propri pirati del mare. Anche Tacito e Virgilio, oltre che Strabone, ci parlano di loro, chiamandoli con il nome di ausoni.

    Interessanti aspetti della loro presenza sono stati riscontrati nell’edificazione di un enorme fanale sull’isola di Capri – che secondo lo storico Svetonio crollò ai tempi dell’imperatore Tiberio – e la pretesa di un pedaggio per ogni nave che superasse le bocche dell’isola. Inoltre, pare che alcune sacerdotesse appartenenti a questa popolazione esercitassero la negromanzia predicando il futuro ai naviganti. Erano chiamate col nome emblematico di sirene. Tra l’altro Virgilio, uno che di arti magiche se ne intendeva, ci racconta che i teleboi furono comandati dal mitico signore Telon, sposo della ninfa Sebethis, che sulla punta della Campanella, promontorio estremo della penisola sorrentina – da Syrrenton, termine così vicino a sirena – avrebbe fatto costruire un tempio proprio in onore delle creature più temute dagli uomini di mare.

    Basta questo a spiegarci la vera origine delle sirene? Oppure c’è dell’altro? Che Partenope fosse in realtà una donna in carne e ossa, magari la figlia dell’argonauta Falero, come qualche altro storico ha ipotizzato? Oppure era la sua amante – come sostiene Matilde Serao –, figlia di quell’Eumelo re di Fera, in Tessaglia, fuggita per coronare altrove il suo sogno d’amore, fondando una città in cui avrebbe avuto dodici figli e che alla sua morte avrebbe preso il suo nome?

    Non lo sapremo mai con certezza, eppure una cosa è sicura: come spiega donna Matilde, Napoli è una città nata dal più nobile dei sentimenti. Senza l’amore, Napoli non sarebbe ciò che è.

    3.

    PERCHÉ NASCE DA UNA SIRENA?

    Partenope, la mitica fondatrice di una civiltà

    C’è poco da fare. Passano i secoli, le epoche storiche, ma è sempre lei l’origine di tutto. Lei l’alpha e l’omega, il senso. Attraverso il suo corpo mitico dà forma alla città; partendo da Caponapoli – la testa – al Corpo di Napoli – il ventre – fino ad arrivare a Piedigrotta – le estremità – l’intera metropoli appare come una sirena sdraiata; assume le sembianze della venerabile Partenope.

    A noi contemporanei, forse troppo romantici, più che una nobile giovane fondatrice di colonie o una vaticinante sacerdotessa, ci piace pensarla così, secondo il mito dei teleboi sostenuto dai naviganti rodii che nel VII secolo a.C. s’impossessarono di queste sponde: era una sirena, figlia del dio fluviale Acheloo, scaturita come le sorelle Ligea – dalla voce chiara – e Leucosia – la bianca – da una goccia del sangue dopo il distacco di un corno dovuto a una lotta con Ercole. Lei, Partenope, la vergine dalla voce di fanciulla, non era ancora quel mostro alato che conosciamo – la coda di pesce sarebbe giunta in epoca medievale –, appollaiato sugli scogli de Li Galli, a largo di Positano, attraeva stanchi marinai grazie a una melodia «… che uomo, ascoltandole, dimenticherebbe la consorte, la patria e i figliuoli, anzi ridurrebbesi a perir di fame in luogo straniero, come venne adombrato con i putrescenti cadaveri e con le ossa di che il re d’Itaca vide biancheggiare la spiaggia delle sirene», come scrisse il nostro Franz.

    Partenope e le sorelle in origine erano donne come tutte le altre. Come accadde che divennero esseri mitologici? Da un lato c’è chi sostiene che la causa fosse Demetra, dea della terra irata perché non avevano vigilato su sua figlia Persefone, rapita dal dio dei morti Plutone. Altri immaginano che queste donne, poiché non amavano i piaceri dell’amore – non a caso erano vergini – furono mutate in sirene da un’offesa Afrodite. Condannate a specchiarsi per lungo tempo durante l’attesa delle loro vittime, si sistemavano i capelli verdi come il mare con un pettine d’osso; gli artigli ben piantati sugli scogli. Talvolta suonavano la lira o la tibia – che metafora, per una città canterina come quella partenopea. Ma era poi vero che i marinai fossero destinati a una morte atroce non appena le incrociassero? Secondo qualche narratore antico non era proprio così: i naufraghi venivano condotti negli abissi, dove imparavano a respirare e a vivere felici nella ricchezza.

    Una stupenda connessione con gli Argonauti ce la offre Apollonio Rodio: secondo quanto l’autore racconta, la fine delle sirene non sarebbe legata a Ulisse bensì a Orfeo, presente sulla nave degli eroi guidata da Giasone. Egli fu capace, col suo canto, di contrastare le pericolose ammaliatrici e di mettere in salvo i suoi compagni. Giunti alle bocche di Capri, Orfeo sfidò in una gara canora Partenope e le altre, risultando vincitore. Troppa fu la vergogna delle sirene, tanto da ammazzarsi.

    Ulisse e le sirene alate. Disegno da un vaso attico del v secolo a.C. conservato al British Museum di Londra.

    Il suicidio, legato però al rifiuto di Ulisse, è la versione del poeta del IV secolo a.C. Licofrone, il quale racconta a chiare lettere come il cadavere di Partenope, sbattuto dalle onde, giunse fino alla torre del Falero, sulla riva dell’ormai scomparso fiume Clanio, l’antico nome del Sebeto. Sbalorditi di fronte a quella mitica creatura, gli abitanti del luogo le innalzarono un imponente sepolcro, davanti al quale le vergini ogni anno offrivano libagioni e si prodigavano in sacrifici di buoi. La città infine prese il suo nome, come raccontano diversi autori tra cui Plinio, Strabone, Dionigi d’Alicarnasso.

    Al di là del mito, gli archeologi hanno attestato che il culto di Partenope era in realtà appannaggio dei rodii, coloni provenienti dall’Egeo che fondarono un insediamento commerciale sull’isolotto di Megaride, a quel tempo collegato alla terraferma e quindi al monte Echia. C’è da capirlo: si trattava di naviganti esausti per i lunghi viaggi, che non facilmente erano riusciti a superare le insidie del mare. Proprio per questo la sirena, simbolo del pericolo vinto, diventava loro protettrice non appena sbarcavano in una località accogliente. E così fu con quel posto, che prese il nome di Partenope. Qui l’effigie della sirena fu scolpita sulle porte della città e dipinta di nero su rossi vasi. In suo onore furono istituiti, come racconta il grande archeologo Amedeo Maiuri, agoni ginnici e una corsa con le fiaccole, la lampadoforia. Essa consisteva nel mantenere accesa una torcia fino all’arrivo, pena l’esclusione. Il suo culto si affievolì soltanto in epoca romana. In quel periodo ci pensò Virgilio, con le sue capacità magiche, a soppiantare definitivamente la venerazione per Partenope.

    Eppure le sirene torneranno in auge nel Medioevo, quando furono utilizzate come emblemi sulle cattedrali, a mo’ di amuleti in grado di scacciare le negatività. A Napoli riprese a parlare di lei Boccaccio, dettando un epitaffio da apporre accanto al sepolcro di Virgilio: «Qui Partenope vergine sicula morta giace», citando una tradizione del tempo. Nel Rinascimento, Partenope fu omaggiata da poeti come il Pontano e il Sannazaro, fino a comparire nelle raffigurazioni secentesche dei libri stampati. Partenope non è morta, non morirà mai, come spiegò, sempre in chiave poetica, Matilde Serao nell’Ottocento. Ancor oggi, tra murales, raffigurazioni varie e omaggi letterari, è il simbolo più noto della sua città.

    4.

    PERCHÉ CHIAMARLA NAPOLI?

    Un toponimo che non è un caso

    «Ma dopo che la sua tomba cominciò a essere maggiormente visitata… presero la decisione di distruggere Partenope… In seguito, afflitti anche da una pestilenza, secondo il responso dell’oracolo ricostruirono la città ed istituirono con grande devozione il culto di Partenope; ma per la recente costruzione la chiamarono Napoli».

    Sono parole di Lutazio, poeta e console romano, che tra i primi demarca la differenza tra una città vecchia – Palepolis o Partenope, ubicata nella zona di Pizzofalcone e dell’isolotto di Megaride – e una città nuova, quella nea polis edificata nella zona dell’attuale centro storico.

    Se la città vecchia aveva il suo centro sul monte Echia e digradava sulla spiaggia di Santa Lucia, quella fondata ex novo si estendeva in una cerchia compresa tra le attuali via Foria e San Giovanni Maggiore, in una zona di banchi tufacei fiancheggiata da valloni, affacciandosi a mare sul versante Sud. Napoli, dunque, la città nuova. Gli antichi erano così: quando non sapevano come chiamare un luogo – magari sorto accanto a uno preesistente – assegnavano questo nome generico. Neo polites, cittadini nuovi, erano chiamati gli abitanti di origine cumana del nuovo insediamento, sorto per sfuggire a una terribile pestilenza.

    Diversi autori – tra cui Vellio Patercolo e Strabone – ci parlano proprio dei cumani, e non di altri, come i veri fondatori della città. Essi, dopo aver fatto sorgere e fiorire quella potenza che fu Cuma, sulla costa flegrea, si espansero fino a qui. Lutazio Catulo è il più chiaro di tutti: i cumani, separatisi dai loro padri, fondarono prima Partenope, dal nome della sirena seppellita nei pressi, conquistando, intorno al 680 a.C., quello che era il già presente nucleo abitativo dei rodii. Dopo un certo tempo, la bellezza e la ricchezza di questa colonia cominciò a offuscare la stessa Cuma, tanto che – secondo lo stesso Lutazio – fu presa la drastica decisione di distruggere Partenope, già provata, secondo altri storici, dalle guerre contro gli etruschi che dall’entroterra campano furono respinti grazie al prode Aristodemo.

    L’acropoli di Cuma in una stampa di M. Horthemels (XVII secolo).

    Una scelta scellerata. Perché la tutelare sirena si vendicò, facendo abbattere sui cumani una terribile pestilenza. Essi lo capirono, e secondo il mito cercarono di chiedere perdono edificando poco più avanti la città nuova, sempre dedicata alla sirena, intorno al 460-470 a.C.

    A insistere sui caratteri cumani di Neapolis fu l’archeologo Amedeo Maiuri. Troppi erano gli aspetti in comune con Cuma, sia dal punto di vista sociale che amministrativo, come reggere la città grazie all’istituzione delle fratrie, associazioni a carattere gentilizio-religioso composte dalle famiglie più importanti. A capo di esse c’era un fretrarco, coadiuvato da tre collaboratori. I sommi magistrati erano invece detti demarchi, cui si aggiunsero in un secondo momento gli arconti. Tutto si svolgeva secondo norme strettamente oligarchiche, ben diverse da quelle degli ateniesi che pure più tardi s’impossessarono di questo luogo.

    Le cose andarono così, almeno secondo Strabone. Dopo la battaglia del 474 a.C. Gerone I, tiranno di Siracusa, prestò aiuto con la propria flotta ai cumani nella guerra contro i tirreni, guadagnandosi il presidio di Pitecusa, l’odierna isola d’Ischia. Qui vi fu, tempo dopo, una tremenda eruzione del vulcano Epomeo, che indusse i siracusani a unirsi ai cumani. Insieme, avrebbero fondato Neapolis. Lo sappiamo perché nella città nuova abbiamo trovato una monetazione di tipo siracusano.

    Eppure, non molti anni dopo, le monete cambiarono e assunsero fattezze pressoché identiche a quelle usate ad Atene. Accadde nel 466, quando Napoli divenne alleata della capitale greca, adottandone gli usi, i costumi e persino la lingua. Sorsero templi, monumenti, case, mercati, ginnasi. Ma soprattutto fiorenti porti, dove approdavano derrate e mercanzie da tutto il mondo conosciuto, rendendo la città più feconda che mai.

    Il molo principale, secondo l’archeologo Mario Napoli, si trovava nella zona di piazza Municipio, dove effettivamente è stato scoperto nel 2003 grazie agli scavi per la costruzione della metropolitana. Il suolo, in quell’occasione, svelò barche risalenti al II secolo d.C., suole in cuoio di calzari romani, bottiglie di vetro chiuse con tappi di sughero, aghi per ricucire le reti, anfore e coppe di matrice africana: un vero e proprio viaggio nel tempo.

    L’influenza ateniese in città restò per secoli, almeno fino all’avvento dei romani. Ma come vedremo, dal punto di vista culturale, si protrarrà anche oltre.

    5.

    PERCHÉ È LA CITTÀ DEL SOLE?

    L’orientamento urbanistico in onore di Apollo

    Alla base dell’obelisco di piazza San Domenico Maggiore, eretto in stile barocco sul modello delle macchine da festa del Seicento – è un ex voto per ringraziare il santo della fine della peste – notiamo alcuni raggi sulla pavimentazione. Proprio così: sono fatti di marmo, a intersecarsi perfettamente nel basolato di pietra vulcanica. In fondo c’è Spaccanapoli, l’antico decumano inferiore, più su la zona di cappella Sansevero, quella che mena verso la basilica di Santa Maria Maggiore della Pietrasanta. Proprio qui, accanto alla chiesa, vi è un’enorme salita che conduce alla zona degli ospedali che ancor oggi è chiamata via del Sole. Non lontano da quest’area doveva trovarsi, come testimoniato da carte medievali, il vicus radii solis, dedicato proprio ai raggi dell’astro che consente la vita sulla Terra.

    Ora, senza scomodare celebri canzoni – «chisto è ’o paese d’ ’o sole» e quant’altro – possiamo dire che il rapporto di Napoli col sole, con la sua simbologia e la sua energia, è davvero preminente. Ma a chi sarebbe dovuto tutto ciò? Ai soliti cumani, che importarono il culto di Apollo, notoriamente dio del sole, da queste parti. Il tempio a lui dedicato si trovava in prossimità di via Duomo, dove – non a caso – sarebbe sorta la principale chiesa cristiana cittadina.

    Apollo era tra gli dèi più venerati nell’antica Neapolis e un’intera zona, quella in corrispondenza del cardo di via del Sole, era sotto la sua protezione. Un motivo di tale preponderanza c’era: se il culto della sirena era sotterraneo, femminile e oscuro, quello di Apollo bilanciava il tutto essendo dedicato alla luce, con connotati armonici e maschili.

    Il tempio del dio ch’era anche protettore della poesia si trovava, insieme con molti altri – quello dei Dioscuri, di Mercurio, di Demetra e di Diana – nella cerchia muraria edificata dai cumani, composta di grossi blocchi di tufo granuloso, molti dei quali visibili oggi in piazza Bellini. Secondo alcuni studiosi come Vittorio Gleijeses, il primo impianto urbanistico era limitato alla cerchia dell’acropoli, dove ci si riuniva per officiare i culti religiosi e per operare la politica.

    Verso la metà del V secolo i coloni aumentarono e vi fu necessità di ampliare la città nuova. Oltre l’acropoli sorse l’agorà – l’attuale piazza San Gaetano – e prese forma l’impianto pseudo-ippodameo che ancor oggi caratterizza il centro storico. La città fu strutturata in stenopoi, chiamati in epoca romana decumani, che la fendevano in senso trasversale, e plateai, poi denominati cardini, distribuiti in senso longitudinale. Neapolis fu così suddivisa in insulae, veri e propri isolati allungati e di forma rettangolare. Questo metodo, come racconta Réné Guénon nel suo Simboli di scienza sacra, era noto anche agli etruschi che sostenevano di averlo appreso direttamente dagli dèi. Non è un caso che i romani lo mantennero e non può essere involontario il fatto che la città fosse originariamente divisa in quattro quartieri e dodici settori, che corrispondono esattamente al grafico quadrato dello Zodiaco, come ha ben spiegato nei suoi libri lo studioso di esoterismo Sigfrido Höbel.

    Ippodamo da Mileto, l’ingegnere ai cui canoni è ispirato questo tipo di struttura, era uno che la sapeva lunga. A lui, per esempio, sono attribuite le piante di Atene e del porto del Pireo, nonché quelle di Rodi e Turi in Calabria. Una città sotto influenza ateniese come Neapolis non poteva non risentirne. E difatti, come spiega Höbel, la forma quadrato-rettangolare della città – simbolo di fissità – era orientata in rapporto ai punti cardinali, risultando in perfetta armonia con lo spazio cosmico. Non è casuale che i decumani, proprio come avviene nella via dell’Abbondanza di Pompei, intercettino perfettamente la luce del sole, da quando esso sorge a quando tramonta, consentendo il massimo dell’operosità delle attività lavorative, cosa fondamentale per una civiltà che non conosceva l’energia elettrica. Inoltre, recenti studi hanno dimostrato come il decumano maggiore sia orientato in direzione del punto in cui il sole si leva all’alba del solstizio d’estate, il giorno più luminoso dell’anno, a testimonianza metaforica della benevolenza – e della presenza tangibile – dello stesso Apollo.

    Soltanto l’ultima delle magie di Napoli antica.

    La statua di Apollo conservata nel Museo Archeologico di Napoli (da La Patria di G. Strafforello).

    6.

    PERCHÉ ISPIRÒ IL MODELLO DI PERFEZIONE DI VITRUVIO?

    Gli studi sulle strade delle origini svelano una città ideale

    Probabilmente Neapolis è ben più antica di quanto fonti letterarie possono attestare. L’origine della città nuova potrebbe essere retrodatata addirittura al VI secolo a.C. Lo testimonia la scoperta, negli anni Novanta, di un gruppo di ceramiche rinvenute in un circuito murario di trenta metri nella zona di vico Sopramuro, nella zona nordorientale, in seguito ai lavori di cablaggio della Telecom.

    A raccontarcelo sono recenti ricerche sull’urbanistica cittadina raccolte nel volume Dromoi, edito da Pandemos nel 2016, opera degli allievi della Scuola archeologica italiana di Atene per omaggiare Emanuele Greco, uno dei grandi maestri dello studio dell’antichità. In particolare colpisce un saggio degli archeologi Fausto Longo e Teresa Tauro dal titolo Costruire la città: riflessioni sull’impianto urbano di Neapolis che ipotizza come l’impianto della città greca abbia potuto ispirare le idee di Vitruvio, il grande architetto romano vissuto nella seconda metà del I secolo a.C.

    Ma procediamo con ordine. Sappiamo che la polis era delimitata da una cinta muraria, i cui resti più noti sono ben visibili lungo l’altura di Caponapoli e, più a sud, in quel di piazza Bellini. Altre testimonianze rintracciate più di recente da Daniela Giampaola sono segmenti murari ubicati in vico San Domenico, in vico pallonetto Santa Chiara e in piazza Santa Maria la Nova, nonché a nord di corso Umberto, arrivando così a piazza Calenda dove si apriva la Porta Furcillensis, con la nota biforcazione di stampo pitagorico a forma di lettera Y. All’interno del cerchio di questa cinta muraria, ecco inserita la nota struttura in palteiai e stenopoi, quel quadrato a mo’ di scacchiera il cui centro ideale è l’agorà di piazza San Gaetano, col tempio dei Dioscuri.

    Un quadrato iscritto in un cerchio, dunque: non ci ricorda forse le teorie geometriche di Vitruvio, giunte a noi soprattutto grazie al celeberrimo disegno di Leonardo Da Vinci sulle proporzioni del corpo umano? A quanto pare, come il genio toscano s’ispirò al grande architetto romano, quest’ultimo potrebbe aver preso spunto dall’impianto urbanistico napoletano per descrivere la sua città ideale.

    Si può ipotizzare – scrivono Longo e Tauro – che alla base della ripartizione regolare dello spazio urbano di Neapolis sussista, impressa materialmente nella forma della città, la riflessione sull’idea di cerchio e di centro e sulla nozione del rapporto aureo in funzione delle proporzioni ideali, da perseguire per ottenere, mediante rapporti geometrici e numerici proporzionali, la migliore articolazione urbanistica.

    Alcuni studi hanno permesso di formulare due ipotesi, la prima individua una plateia centrale maggiore delle altre, l’altra l’esistenza di tre plateiai di uguale dimensione, ovvero quattordici metri. Se accettiamo la prima ipotesi, gli isolati di Neapolis misurerebbero trentacinque metri in larghezza, per una lunghezza di centottanta metri. Le insulae, caratterizzate dal rapporto tra larghezza e larghezza di 1:5, potevano contenere venti case dalla dimensione 17´17 metri, un po’ come a Naxos e a Himera. Secondo gli studiosi, è possibile ipotizzare una rigorosa suddivisione dello spazio urbano in questo modo: l’area centrale quadrata suddivisa in due rettangoli allungati con i lati proporzionali 1:2, ulteriormente suddivisibili in due moduli quadrati, ognuno dei quali poteva contenere fino a cinque isolati. Oggi, con la conoscenza che abbiamo della geometria frattale, possiamo dire che la città di Neapolis è stata creata come un ologramma: praticamente la particella urbanisticamente più piccola conteneva in sé la forma dell’intera città.

    Benissimo, ma quale sarebbe il nesso preciso con Vitruvio? Lo si è scoperto grazie all’opera dell’urbanista, architetto e ingegnere rinascimentale Fra’ Giocondo da Verona, che a Napoli frequentò la corte di Alfonso II d’Aragona tra il 1489 e il 1493. In quel periodo costui realizzò centotrentasei disegni in xilografia per l’edizione illustrata del famoso trattato di Vitruvio De Architectura. Due di questi disegni, oggi conservati a Firenze, agli Uffizi, sono stati studiati attentamente dallo storico dell’arte Per Gustaf Hamberg. Il primo rappresenta la rosa dei venti divisa in sedici parti, sulla scia del modello vitruviano. Il secondo è una versione ideale della struttura urbana di Neapolis, in cui sono presenti le tre plateiai allungate all’infinito e sovrapposte alla rosa dei venti.

    Da questi disegni si è intuito che alla base della costruzione della città vi sarebbe il principio geometrico della sezione aurea, quella proporzione divina che al tempo stesso rappresenta un ideale di bellezza e di armonia. Gli stessi dettami, guarda caso, cui volle ispirarsi Alfonso II nel suo progetto di ampliamento della città, su criteri rigorosi e razionali, in cui si prevedeva l’allungamento dei cardini e dei decumani. Un piano molto ambizioso, stroncato soltanto dalla fine del dominio aragonese.

    Uno come Vitruvio avrebbe apprezzato.

    7.

    PERCHÉ LE DONNE DETTAVANO LEGGE?

    Le sacerdotesse di Demetra anticipano la storia

    In una città sorta intorno alla tomba di una sirena, essere femminile e sovrumano per eccellenza, non sorprende che la condizione della donna, almeno in epoca greca, fosse di gran lunga migliore rispetto ad altri periodi storici. Secoli e secoli di rivendicazioni alla ricerca di diritti, di pari opportunità, quando nell’antica Neapolis tante cose erano già acquisite. Anzi: spesso e volentieri erano le donne a suggerire le leggi e le regole del vivere civile, con tutti gli onori del caso. Ciò non avveniva per tutte le donne, s’intende, ma per le venerabili sacerdotesse delle dee pagane sì. Figure rispettate e amate, protagoniste dell’invidiabile vita che si svolgeva nella polis baciata dal sole.

    Testimonianza lampante della loro presenza è il tempio di Demetra, uno dei principali del nucleo abitativo, ubicato secondo alcuni storici dove oggi sorge la chiesa di San Gregorio Armeno, nell’omonima strada. Stuzzicante pensare che lì dove si svolge la vita monastica femminile – grazie all’impegno quotidiano di quelle suore volgarmente chiamate capa ’e pezza in napoletano – operavano sacerdotesse candidamente vestite, intente a offrire alla Dea Madre, colei che garantisce benessere materiale agli uomini e regole di convivenza civile, libagioni di grano. Quello stesso grano con cui, per esempio, oggi sono costituiti dolci come la pastiera o la sfogliatella, nati all’interno dei monasteri e per i quali è facile intuire un’antichissima origine.

    Le storie di queste sacerdotesse – tre su tutte, sottratte all’oblio della storia – sono venute alla luce negli ultimi anni grazie alle scrupolose ricerche della studiosa Francesca Barrella, medico con la passione per l’antichità che ha scandagliato l’imponente collezione

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