Lo Strano Caso del Dottor Jekyll e del Signor Hyde
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Info su questo ebook
Uno di questi è Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde. Ispirato forse a un caso di cronaca avvenuto in Connecticut, Robert Louis Stevenson dichiarò che iniziò a scriverlo dopo avere sognato alcune sue scene. Centrato sul tema del doppio, fondamentale in molte opere dello scrittore inglese, il libro incontrò subito un grande successo di pubblico e critica. A partire dai loro “nomi parlanti” Jekyll (“Je kill”, “io uccido”) e Hyde (dal verbo inglese “to hide”, “nascondere”, ciò che è sepolto e tenuto segreto nell’oscuro del cuore) diventarono in breve tempo figure simboliche indimenticabili e universali, prestandosi a innumerevoli interpretazioni critiche.
Ma al di là di ogni tipo di possibile teoria che queste due straordinarie figure ispirano, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde è prima di tutto un libro che si legge d’un fiato, da cui è impossibile staccarsi, immedesimandosi con lo sguardo sperduto e atterrito dell’avvocato Utterson che introduce il lettore nella storia. Un capolavoro di tensione, profondità, immaginazione, atmosfere, che rendono questo breve romanzo uno dei più grandi libri della storia della letteratura.
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Anteprima del libro
Lo Strano Caso del Dottor Jekyll e del Signor Hyde - Robert L. Stevenson
LA STORIA DELLA PORTA
Il signor Utterson, l’avvocato, era un uomo dal viso austero, mai illuminato da un sorriso; freddo, spiccio e impacciato nel parlare; riservato nel sentimento; slanciato, dinoccolato, ombroso, tetro eppure in qualche modo amabile. Agli incontri tra amici e quando il vino era di suo gusto, un qualcosa di estremamente umano gli lampeggiava nello sguardo; qualcosa, in verità, che non trovava mai modo di esprimersi a parole e che si rivelava non solo tramite quelle espressioni silenziose del volto dopocena, ma più spesso e con più forza nelle azioni della sua vita. Era severo con se stesso; beveva gin quando era solo, per mortificare un’inclinazione per i vini d’annata; e benché ne fosse appassionato, non varcava la soglia di un teatro da vent’anni. Ma nei confronti degli altri era di comprovata tolleranza; a volte stupendosi, quasi con invidia, della grande forza di anime impegnate nei propri misfatti; e, in casi estremi, incline ad aiutare più che a rimproverare.
«Tendo all’eresia di Caino» era solito dire. «Lascio che mio fratello se ne vada al diavolo come meglio crede.» Quest’indole gli riservava spesso la sorte di essere l’ultima conoscenza rispettabile e l’ultima benefica influenza nella vita di chi era caduto in disgrazia. E a tali persone, fintanto che gli erano vicine, non faceva percepire nemmeno l’ombra di un cambiamento nel proprio atteggiamento.
Non c’è dubbio che lo sforzo riuscisse facile al signor Utterson, perché egli era più che mai riservato e perfino la sua amicizia sembrava fondarsi su una simile universale disposizione alla benevolenza. È segno di uomo modesto accettare il cerchio delle proprie amicizie bell’e pronto dalle mani del caso; e così era per l’avvocato. I suoi amici erano persone del suo stesso sangue o che aveva frequentato a lungo; i suoi affetti, come edera, crescevano con il tempo, senza implicare alcuna idoneità. Tale, senza dubbio, era il legame che lo univa al signor Richard Enfield, suo lontano parente, uomo di una certa fama in città. Era per molti un mistero cosa questi due riuscissero a trovare l’uno nell’altro, o quali argomenti potessero avere in comune. Chi li incontrava durante una passeggiata domenicale raccontava che non dicevano nulla, parevano singolarmente annoiati e salutavano con evidente sollievo la comparsa di un amico. Nonostante ciò, i due uomini davano grande valore a quelle camminate, le reputavano la punta di diamante di ogni settimana, e non solo accantonavano occasioni di divertimento, ma resistevano perfino al richiamo degli affari per poterne godere senza interruzioni.
Capitò durante una di queste camminate che si trovassero a passare per una traversa di un affollato quartiere di Londra. La via era piccola e si sarebbe detta tranquilla, benché durante la settimana fosse luogo di floridi scambi. Gli abitanti erano tutti agiati, all’apparenza, e tutti, emulandosi l’un l’altro, speravano di sembrarlo ancor di più e si sforzavano di metter via il sovrappiù delle loro rendite per spendere in civetterie; perciò lungo quella strada le facciate dei negozi sorgevano con aria invitante, come file di venditrici sorridenti. Perfino di domenica, quando celava le proprie migliori attrattive ed era relativamente poco battuta, la strada spiccava in contrasto con lo squallido vicinato, come un fuoco in una foresta; e con le persiane tinteggiate di fresco, le targhe d’ottone ben lucidate e la pulizia e la spensieratezza generali, catturava immediatamente l’occhio del passante, compiacendolo.
A due porte dall’angolo, sul lato sinistro della strada, guardando a est, l’infilata degli edifici era interrotta dall’ingresso di una corte; e proprio in quel punto un certo palazzo sinistro incombeva sulla strada con il proprio timpano. Era un edificio di due piani; non mostrava finestre, soltanto una porta al piano più basso e una cieca facciata dal muro scolorito su quello superiore; e portava in ogni tratto i segni di una squallida e prolungata trascuratezza. La porta, che era priva di campanello come di battente, era scheggiata e scrostata. I vagabondi si trascinavano nell’andito e accendevano i fiammiferi sui pannelli; i bambini giocavano al negozio sui gradini; uno scolaro aveva saggiato il proprio coltello sulla modanatura; e per quasi una generazione nessuno si era presentato a scacciare questi casuali visitatori o a porre rimedio ai loro danni.
Il signor Enfield e l’avvocato erano sull’altro lato della traversa; ma quando furono all’altezza dell’ingresso, il primo alzò il bastone da passeggio e lo indicò.
«Avete mai fatto caso a quella porta?» chiese; e quando il suo compagno ebbe risposto di sì aggiunse: «È legata, nella mia mente, a una storia molto strana».
«Davvero?» disse il signor Utterson, con un leggero cambiamento di tono. «E quale?»
«Be’, andò così» riprese il signor Enfield. «Stavo rientrando a casa da non so che posto in capo al mondo, erano circa le tre di un nero mattino invernale, e stavo attraversando una parte di Londra dove non c’era letteralmente nulla da vedere al di fuori dei lampioni. Strada dopo strada, dormivano tutti… Strada dopo strada, tutte illuminate come per una processione e tutte vuote come una chiesa… finché alla fine non mi ritrovai in quello stato d’animo per cui si tende l’orecchio e si inizia a sperare intensamente di scorgere un poliziotto. All’improvviso vidi due figure: un piccoletto che marciava verso est a un buon passo e una bambina di forse otto o dieci anni che correva più veloce che poteva lungo una traversa. Bene, signore, i due com’era prevedibile si scontrarono all’angolo; e allora accadde il fatto orribile, poiché l’uomo calpestò con tutta calma il corpo della bambina e la lasciò a terra urlante. Sembra niente a sentirla raccontare, ma fu atroce a vedersi. Quello non somigliava a un uomo; era come una furia indemoniata. Lanciai un grido, mi misi all’inseguimento, acciuffai il mio gentiluomo e lo ricondussi là dove si era già formato un gruppetto attorno alla bambina urlante. Lui rimase perfettamente gelido e non oppose alcuna resistenza, ma mi lanciò uno sguardo talmente terribile che mi fece sudare come se stessi correndo. Le persone che si erano radunate erano i familiari della bimba; e ben presto fece la sua apparizione il dottore, il quale era stato mandato a chiamare. Bene, per la bambina non c’era pericolo, più che altro era spaventata, secondo il sega-ossa; e questo era quanto, si sarebbe potuto pensare. Ma si aggiunse una curiosa circostanza. Io avevo preso a disprezzare a prima vista il mio gentiluomo. E così pure la famiglia della bambina, cosa del tutto naturale. Ma ciò che mi colpì fu l’atteggiamento del dottore. Era il solito speziale bell’e fatto, di età e colorito indefiniti, con un forte accento di Edimburgo, e più o meno della stessa sensibilità di una cornamusa. Bene, signore, reagì come noi altri: ogni volta che guardava il mio prigioniero vedevo che il sega-ossa bruciava e sbiancava dal desiderio di ucciderlo. Sapevo cos’aveva in mente, proprio come lui sapeva cos’avevo io nella mia; e visto che l’omicidio era fuori questione, facemmo il meglio che si potesse. Dicemmo all’uomo che potevamo e avremmo di certo sollevato un tale scandalo per quanto accaduto che il suo nome sarebbe stato infangato da un capo all’altro di Londra. Se aveva amici o una reputazione gli facemmo capire che li avrebbe perduti. E per tutto il tempo, mentre strillavamo tutto questo, rossi di rabbia, tenemmo le donne lontane da lui come meglio potevamo, perché erano feroci come arpie. Non ho mai visto un crocchio di volti così sfigurati dall’odio. E nel mezzo stava l’uomo, di una freddezza quasi