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Artù: Leggenda e storia
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E-book137 pagine2 ore

Artù: Leggenda e storia

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Info su questo ebook

Nel caos che seguì l’abbandono della Britannia da parte dei Romani (V secolo d.C.), orde di barbari provenienti dalla Germania e dall’Irlanda sbarcarono a ondate nell’isola seminando morte e distruzione. Fra le nebbie della leggenda emerse un giovane condottiero di origini romane, Artorio, che la leggenda farà universalmente conoscere come Artù.
Comandante militare di eccezionale talento, Artù condusse le sue armate in un lungo ed estenuante conflitto contro i Sassoni riuscendo a riportare su di essi una schiacciante vittoria nella battaglia del monte Badon e concedendo all’isola quasi mezzo secolo di pace.
Rispondendo all’appello del morente Impero Romano d’Occidente, Artù combatté a lungo anche in Gallia, seppur con minore successo, per finire poi, anziano, tradito dal parente Mordred e ferito mortalmente nella battaglia di Camlann. La sua scomparsa fu subito seguita da voci e leggende che lo volevano dormiente nella misteriosa isola di Avalon in cui nove maghe cercavano di risanare la sua eterna ferita, nell'attesa del risveglio in un imprecisato futuro per porlo come eterno baluardo della Britannia.
Attorno alla figura storica, di cui le fonti più antiche ci tramandano solo stringate ma affascinanti notizie, si intessé nei secoli una fitta rete di figure, leggende e racconti che lo storico medievale Goffredo di Monmouth e il poeta francese Chrétien de Troyes resero note e immortali: la Tavola Rotonda, il mago Merlino, i nobili Cavalieri di Camelot, la spada Excalibur, l’infedele Ginevra, la fata Morgana…
Mirko Rizzotto, avvalendosi delle varie fonti, cerca di fendere queste dense nebbie e di consentire al lettore di gettare uno sguardo sul “vero” Artù, l’uomo il cui ipotetico ritorno impensieriva realmente i sovrani normanni medievali d’Inghilterra.
LinguaItaliano
Data di uscita26 ott 2021
ISBN9788893721448
Artù: Leggenda e storia

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    Anteprima del libro

    Artù - Mirko Rizzotto

    L’ARTÙ DELLA LEGGENDA

    In una fredda e scura mattinata dell’anno di Nostro Signore 1191, fra le fitte nebbie che avviluppavano le maestose muraglie della cattedrale di Glastonbury, annerite dal fuoco di un incendio divampato sette anni prima, era possibile udire il suono monotono e ripetuto di alcune pale che fendevano il terreno dell’antico cimitero annesso al tempio cristiano.

    Due giovani monaci benedettini, all’interno di una tenda rizzata per proteggere lo scavo da un’eventuale pioggia, lavoravano con solerzia, ansimando e di tanto in tanto tergendosi il sudore dalla fronte con le ampie maniche del loro saio, mentre all’esterno un terzo, il più anziano, reggeva una torcia che guizzava nella fioca luce dell’alba, carezzandosi di tanto in tanto pensosamente la fluente barba grigia.

    I monaci erano ansiosi e preoccupati: un terribile e incontenibile incendio aveva devastato impietosamente la loro cattedrale, distruggendo per sempre le preziose reliquie dei santi che essa custodiva, e che erano il motivo del cospicuo flusso di pellegrini che giungeva fin laggiù ogni anno, facendo dell’abbazia un centro economico di tutto rispetto.

    La situazione, pensò l’anziano monaco, aggrottando le sopracciglia, era seria: i confratelli avevano tentato in passato – e a dire il vero, piuttosto goffamente – di proclamare il ritrovamento di improbabili reliquie: prima era stata la volta del presunto corpo di San Patrizio, cosa per cui erano stati ripresi aspramente dai vescovi d’Irlanda, dove i veri resti del missionario britanno-romano riposavano da secoli; poi era toccato ad un fantomatico rinvenimento delle ossa di San Dunstano, che giacevano però a Canterbury, non ottenendo infatti altro risultato che attirarsi strali e fulmini dal primate di quella chiesa. In entrambi i casi i frati di Glastonbury erano stati costretti ad un’umiliante quanto patetica ritrattazione e presentazione di scuse.

    Nel frattempo, mentre il lavoro di pala dei monaci proseguiva, il loro anziano confratello notò che, man mano che il sole si alzava, la nebbia si diradava, lasciando intravedere i numerosi meli che crescevano tutt’intorno a loro, persino dentro all’area cimiteriale e accanto alla Lady Chapel, la cappella che si ergeva a fianco del corpo principale dell’abbazia.

    In passato, ricordava, Glastonbury era conosciuta dai pagani Celti che abitavano la zona come Avalon o anche Isola delle Mele, zona consacrata ad una delle divinità femminili delle acque che pullulavano nella zona. Ancora adesso, nei sotterranei della cattedrale, sgorgava una fonte che si diceva curativa e che aveva attirato frotte di pellegrini.

    Certo, Glastonbury non era una vera e propria isola. Si trattava di una collina erbosa circondata dalle campagne, rivi, fossi e paludi, e a volte – non spessissimo, a dire il vero – potevano verificarsi temporanei allagamenti che davano alla collina l’aspetto di un’isola che si ergeva sulle acque sottostanti. Magari, al tempo dei druidi, poteva accadere che qualcuno di essi attraccasse all’isola giungendo a bordo di zattere o di imbarcazioni dalla chiglia piatta, perché no?

    Comunque, ad essere onesti, ciò non lo interessava più di tanto. L’abate, dopo il fallimento dei precedenti tentativi di rinvenire delle reliquie cristiane, gli aveva parlato di un’antica leggenda. La storia narrava che il mitico re Artù, colui che aveva sconfitto più volte i Sassoni circa seicento anni prima, fosse stato portato morente, dopo uno scontro contro un guerriero ribelle, il famigerato Mordred, sull’isola di Avalon, dove nove curatrici lo avrebbero soccorso, cercando di lenire il suo dolore e di salvargli la vita. Comunque fosse andata, fatto sta che Artù non era stato più veduto, ma si era a poco a poco sparsa la voce che fosse ancora vivo, laggiù ad Avalon, pronto a tornare in attesa che la Britannia avesse ancora bisogno di lui. Artù, si diceva come una litania fra i contadini inglesi, che fu re in passato e che sarà di nuovo re in futuro.

    Fatto sta che dopo la scomparsa di Artù i Sassoni di origine germanica avevano avuto la meglio sui Britanno-romani, confinandone i discendenti in Galles e facendosi signori d’Inghilterra.

    Poi, recentemente, erano arrivati dalla Francia i Normanni, che avevano imposto il loro dominio su tutta l’isola. Sassoni e Britanno-romani si ritrovarono così assieme sotto il giogo straniero ed insieme avevano cominciato a vagheggiare il ritorno di Artù. Molti di essi ci credevano davvero: la fama dell’antico re e condottiero era più verde che mai, e c’era il concreto rischio che esplodessero focolai di rivolta e tumulti, pericolosi per la stabilità del potere normanno.

    Il più preoccupato di tutti, gli aveva rivelato l’abate, era proprio il re Enrico II Plantageneto; egli voleva stroncare una volta per tutte la diceria secondo cui Artù fosse ancora vivo ed avesse più diritti al trono di lui, un re straniero. Era necessario trovare il corpo di Artù, esponendolo in pubblico e dimostrando a tutti come fosse senz’ombra di dubbio defunto, senza più possibilità di tornare in vita e tantomeno regnare sugli Inglesi. Correva voce che la mitica isola di Avalon fosse in verità Glastonbury; ebbene, se i monaci avessero rinvenuto laggiù il cadavere di Artù avrebbero colto due piccioni con una fava: i pellegrini sarebbero tornati ad affluire come e più di un tempo per vedere con i loro occhi i resti di colui che un tempo aveva fatto tremare i Sassoni invasori, ed inoltre re Enrico sarebbe stato sicuro di aver sradicato la credenza nel ritorno in vita di Artù, così pericolosa per la stabilità del potere normanno sull’isola.

    Un clangore sordo risvegliò il vecchio monaco dalle sue elucubrazioni. Fratello, abbiamo trovato qualcosa!, gli disse eccitato uno dei monaci, con il volto arrossato per lo sforzo fisico e l’euforia. L’anziano scostò un lembo della tenda con palpabile impazienza e corse a vedere.

    Era vero. I badili avevano trovato qualcosa di duro e resistente; una volta rimosso il terriccio che la ricopriva emerse una sorta di rozza e grande bara ricavata da un unico tronco di quercia inglese, ampia abbastanza per contenere un corpo umano e – forse – dei ricchi corredi funebri. A quanto pareva, la leggenda secondo cui Artù dormiva un sonno secolare ad Avalon, in attesa che la sua ferita si rimarginasse, aveva probabilmente qualcosa di vero… sempre che la tomba fosse stata la sua, naturalmente. Glastonbury era abitata secoli prima che Artù nascesse, prima ancora addirittura che i Romani conquistassero la Britannia, dunque chi poteva dire cos’avrebbero trovato, finché il sepolcro non fosse stato aperto ed esaminato?

    Sembra molto antico, osservò uno dei monaci più giovani, al che il confratello anziano annuì, dando l’ordine di chiamare subito l’abate, come egli stesso aveva raccomandato, nel caso avessero trovato qualcosa.

    L’abate Enrico di Sully fu lì nel giro di pochi minuti, ansimando trafelato per la corsa dai suoi alloggi al cimitero, privo dei suoi paramenti e delle vesti cerimoniali, con addosso solo una tunica di lana grigia ed un bastone nella mano destra. Lo seguivano di corsa tre nobili inviati appositamente laggiù da re Enrico, anch’essi in tenuta da notte a malapena celata da dei tabarri in feltro e volti più assonnati che stupiti. I monaci avevano nel frattempo liberato completamente la bara o cofano in legno dal terriccio, svelandone l’intera lunghezza, che superava di molto i due metri.

    L’avete trovato?, chiese l’abate deglutendo nervosamente, mentre il monaco che era venuto con lui gli copriva premurosamente le spalle con un mantello. È lui?.

    Abbiamo trovato una tomba proprio nel punto preciso in cui la tradizione dice che Artù riposi in una sorta di grotta sotterranea, in attesa di svegliarsi. Abbiamo atteso il suo arrivo, Santità, per aprire insieme il cofano, rispose il frate anziano.

    L’abate si limitò ad annuire nervosamente, facendo un cenno concitato di assenso col capo e biascicando un Procedete, prima di entrare nella tenda ed accasciarsi sul piccolo scranno portatile che un altro monaco, appena sopravvenuto di gran carriera, gli aveva portato. Era evidente che il nervosismo lo divorava. I tre nobiluomini di corte che lo avevano seguito fecero lo stesso, visibilmente tesi e concentrati.

    A dispetto dell’ansia del loro superiore, i monaci lavorarono con calma, cercando di forzare con spranghe in ferro il punto in cui le due sezioni del tronco di quercia – proprio come la valva di una conchiglia – erano state unite con piccoli inserti in metallo, ormai arrugginito. Era necessario evitare di rovinare accidentalmente il cofano ed il suo prezioso contenuto, altrimenti avrebbero vanificato tutto il loro duro lavoro.

    Dopo un tempo che parve a tutti infinito (ma che durò solo pochi minuti, dato che il sole era ancora debole sopra di loro, non riuscendo a dissipare del tutto la nebbia) l’ultimo elemento metallico cedette, e il monaco anziano annunciò: È libero. Possiamo sollevare il coperchio.

    Nel frattempo si era radunato attorno allo scavo un capannello di monaci. Senza attendere neanche un cenno, i sei più nerboruti saltarono subito dentro la fossa, afferrando le estremità del coperchio e tendendo i muscoli, pronti a sollevarlo. Ad un vigoroso assenso del loro confratello più anziano essi, con grandissimi sforzi, riuscirono dapprima a smuovere, poi a sollevare il gigantesco coperchio, alzandolo e depositandolo al di fuori della fossa. L’abate si alzò con gli occhi sgranati, affacciandosi per meglio osservare. Un pensiero assurdo era passato nella sua mente durante l’attesa: e se in qualche modo le leggende fossero state vere, e se Artù dormisse e non fosse morto? Cosa avrebbe fatto? E, soprattutto, come avrebbe agito re Enrico?

    Ciò che vide scacciò ogni pensiero dalla sua mente. Tutt’intorno a lui anche gli altri monaci tacquero ed il silenzio si fece palpabile, rotto solo dal raro cinguettio di qualche uccello campestre.

    All’interno della bara giacevano, uno accanto all’altro, due scheletri. Uno di essi aveva un’altezza eccezionale e, vicino lui, riposava un secondo scheletro di altezza media. Il teschio di quest’ultimo era incorniciato da lunghi capelli di un oro ancora brillante, acconciati in una bellissima treccia. Tuttavia, al contatto con l’aria esterna, si dissolsero sotto gli occhi attoniti dei presenti in uno sbuffo di polvere grigiastra. I monaci trovarono ed estrassero dalla sepoltura una croce in piombo alta circa trenta centimetri, che riportava una dicitura latina. Esaminatala, l’abate vi lesse:

    Hic iacet sepultus inclitus rex Arturius in insula Avallonia cum uxore sua secunda Wenneveria

    (Qui giace sepolto il celebre re Artù, nell’isola di Avalon, assieme alla sua seconda moglie Ginevra).

    Dunque era vero: Avalon corrispondeva

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