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Il monastero
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Il monastero
E-book515 pagine6 ore

Il monastero

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Info su questo ebook

Bestseller in Spagna

«Un degno erede di I pilastri della Terra e La cattedrale del mare.» La Vanguardia

Spagna, XIV secolo. Il monastero cistercense di Santa María de Veruela è stato costruito in modo da ricordare una Città Celeste: un riflesso del Regno dei Cieli. Tuttavia i monaci che lo abitano sono spesso vittime delle umane passioni: ambizione, desiderio, vendetta. Durante la sanguinosa guerra tra i regni di Castiglia e di Aragona, il giovane Bizén, assistente del notaio reale, viene incaricato di portare a termine una missione: recuperare i resti dell’infante Alfonso, sepolto in una delle tombe del monastero. Al suo arrivo, però, scopre che all’interno del monastero si è consumato un orrendo delitto: uno dei monaci è stato brutalmente assassinato in circostanze misteriose, proprio davanti alla sepoltura dell’infante. Bizén viene dunque incaricato dall’abate di individuare il colpevole, ma si ritroverà ben presto coinvolto nelle oscure trame che i monaci tessono l’uno all’insaputa dell’altro. Dovrà risolvere l’indagine al più presto, se vuole aver salva la vita…

Un thriller storico ricco di suspense
Ambientato tra le mura di uno dei monasteri medievali più affascinanti della Spagna

Hanno scritto dei suoi libri:
«Il miglior romanzo storico dell’anno.»
Novelas Històricas

«Per chi ama il Medioevo, questo libro è come una macchina del tempo.»
El Mundo

«Un’incantevole immersione in un’altra epoca.»

Luis Zueco
È nato a Saragozza, in Aragona. È uno scrittore, uno storico, un fotografo e un ingegnere industriale. Collabora con diverse associazioni culturali spagnole ed è vicepresidente della Asociación de Amigos de los Castillos de Aragón. Ha scritto tre romanzi. Il monastero è il primo pubblicato dalla Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita6 giu 2019
ISBN9788822735140
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    Anteprima del libro

    Il monastero - Luis Zueco

    PRIMO GIORNO

    I MONACI

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    1

    Il Mattutino

    Monastero di Santa María de Veruela,

    28 ottobre dell’anno 1366

    Fratello Saturio fu il primo a svegliarsi al suono dell’orologio meccanico. Dormiva in una stanza comune insieme agli altri monaci, a eccezione dell’abate. I letti si riducevano a un semplice scheletro di legno sul quale era posto un pagliericcio, al giaciglio di un monaco anziano seguiva quello di uno più giovane e così via. Dormivano vestiti e cinti in modo da potersi alzare rapidamente all’ora del Mattutino, dopo la mezzanotte.

    Quella mattina fratello Saturio aveva faticato a svegliarsi. Si sentiva stordito e indolenzito dopo un sonno profondo, non dormiva così da anni. Nonostante l’inusuale lentezza, voltandosi verso i fratelli, notò che tanti di loro si stavano stiracchiando e che qualcuno era ancora a letto.

    Fratello Saturio era il monaco addetto all’erboristeria. Aveva la carnagione scura, il naso prominente e le movenze lente, non per via della stanchezza bensì delle radicate abitudini del suo lavoro. Dopo tutti quegli anni dedicati alla cura attenta delle piante, agli innesti praticati e a tutti i semi che aveva collezionato, era diventato un uomo paziente. Il passare del tempo e la rigida regola benedettina che disciplinava la vita del monastero avevano placato il suo spirito, una volta energico e ribelle.

    Era orgoglioso del suo lavoro accanto al decano Esteban, insieme erano riusciti a migliorare i vitigni presenti nei terreni del monastero che, a detta dei monaci, stavano dando ottimi risultati. Persino l’abate era entusiasta di quel nuovo vino ottenuto dalla coltivazione dell’uva Garnacha.

    Pur vivendo ormai da molti anni ai piedi del Moncayo, Saturio non si era ancora abituato alla vita del monastero. Ne percorreva le ampie gallerie, circondate da capitelli scolpiti con maestria, sempre fedele al voto del silenzio. Ora finalmente riusciva a trarre beneficio dai digiuni e dagli esercizi per tenere sotto controllo il proprio corpo, pratiche che nei primi tempi gli erano risultate insopportabili, ma c’erano ancora degli aspetti della vita monastica ai quali non riusciva a adattarsi.

    Amava svegliarsi presto e andare in chiesa quando c’era ancora poca luce perché le mura biancastre di Veruela sembravano avere vita propria. Il silenzio veniva interrotto a intermittenza da tutta una serie di rumori tipici di un edificio di simili proporzioni: i fruscii provenienti dalle finestre, lo scricchiolio del tetto, il cigolio delle porte e una nutrita varietà di animaletti che vagavano per le volte, le gallerie, i sotterranei e i corridoi. Quel luogo sembrava avere infiniti angoli e infinite stanze. Fratello Saturio era solito chiedersi se una costruzione del genere non fosse un affronto alla volontà divina, se quelle volte di pietra che coronavano la chiesa non rappresentassero un simbolo di vanità agli occhi del Creatore.

    In fondo, l’uomo non doveva essere umile? Un vero cristiano non aveva bisogno di tutta quell’ostentazione, doveva bastargli la parola del Signore. E allora perché costruire chiese tanto imponenti? Perché ammassare così tante ricchezze? Gesù sulla Terra non ne aveva avuto bisogno.

    Quei pensieri tormentavano la sua vita all’interno del monastero ma non osava condividerli mai con nessuno perché sembrava che quelle mura avessero occhi e orecchie.

    Si alzò e si diresse verso una finestra che serviva ad areare il dormitorio comune.

    Anche oggi si alzerà la nebbia, pensò.

    Abbandonando la protezione delle coperte percepì il freddo pungente. Il monastero era situato nella parte alta della valle, in piena montagna e gli inverni lì erano molto rigidi. Spesso nevicava e soffiava un vento gelido, ma la nebbia era un fenomeno insolito.

    Come la detesto, disse il monaco fra sé e sé.

    E non aveva tutti i torti. Ogni giornata trascorsa senza sole faceva aumentare l’umidità e il freddo penetrava fino alle ossa. La temperatura non variava durante il giorno, e attraverso quella sorta di corazza che avvolgeva la valle, facendola sembrare di pietra, non riusciva a filtrare nemmeno un raggio di sole.

    Proseguì in direzione della scala. Raggiunse in fondo al dormitorio il letto di fratello Bartolomé il quale, con il suo russare, rompeva il silenzio che tutti i monaci erano obbligati a osservare. Era l’unico ancora addormentato, e la cosa lo stupì.

    Con indosso la sua veste bianca e lo scapolare nero tipico dell’ordine cistercense, Saturio aprì una porticina e scese lungo la scala che portava alla chiesa. Quella rampa veniva utilizzata solo durante le ore notturne per non perdere tempo al risveglio e arrivare in orario per le preghiere del Mattutino.

    I gradini erano alti e si faceva fatica con così poca luce. Non appena l’ebbe imboccata, il freddo gli salì su per i piedi come fosse un liquido che fuoriusciva dal pavimento. A quell’ora il tempio era un immenso ghiacciaio immerso nella più assoluta oscurità. A malapena si intravedevano le numerose iscrizioni sulle pareti che erano state tinte di bianco e decorate con delle linee rossastre tipiche della policromia delle murature in pietra. Accanto alla scala c’era l’orologio meccanico, l’ultimo costoso acquisto del monastero: un ingombrante cubo di legno finemente dipinto e contenente al suo interno ingranaggi, pulegge e cilindri. Quel marchingegno affascinava tutti i monaci, segnava l’ora sia di giorno che di notte, ma poiché a fine giornata restava indietro di qualche minuto, al sorgere del sole era necessario ricalibrarlo.

    Fratello Saturio sentì dei passi dietro di sé.

    «Accendete le candele», ordinò il priore Antón, al quale non piaceva arrivare secondo alla recita delle preghiere.

    Il monaco annuì. Il priore era un monaco tranquillo che godeva di enorme rispetto e considerazione all’interno del monastero.

    Mentre avanzava in penombra lungo la navata centrale, il monaco erborista sentì l’enorme peso di quel tempio concentrarsi sulle sue spalle come fosse Atlante. Deglutì, faceva fatica a riempire i polmoni di quell’aria gelida. Avanzò a piccoli passi lasciandosi sulla destra la sagrestia e sulla sinistra la porta del chiostro, continuò lungo la navata fino all’inizio del deambulatorio dove, durante le occasioni speciali, come il vicino Ognissanti, venivano esposte le preziose reliquie conservate nel monastero, il vero tesoro di Veruela.

    Giunto sull’altare sentì uno strano odore e pensò che dopo la funzione sarebbe stato opportuno capire da dove proveniva. Capitava che qualche gatto, che di solito gironzolava nell’orto, sgattaiolasse all’interno lasciandosi dietro resti di cibo o feci che fratello Saturio si affrettava a ripulire. Aveva la responsabilità di tutti quei gatti, erano otto, ognuno con un nome, e la maggior parte di loro gli obbediva. C’era solo un ribelle, Nube, con gli occhi chiari e il pelo bianco. Ma Caco, il gatto dal pelo marrone, era quello che il monaco apprezzava di più, non solo perché rincorreva i topi che si avvicinavano al suo semenzaio, ma anche perché era il più affettuoso e miagolava per richiamare la sua attenzione. Aveva deciso di dargli quel nome per via di una leggenda locale secondo la quale più di mille anni prima un vecchio eroe chiamato Ercole aveva visitato quelle terre e vi aveva incontrato il gigante Caco, che si era preso gioco di lui, rubandogli un gregge di pecore.

    Poco dopo giunse un altro monaco, un uomo dalle folte sopracciglia, con i capelli bianchi come la neve, curvo e un po’ sovrappeso. Si trattava di fratello Timoteo, responsabile delle costruzioni presenti nelle tante proprietà di Veruela, dai terreni alle chiese, passando per castelli e palazzi. Nella congregazione lo chiamavano l’Architetto e spesso lo si poteva vedere intento a realizzare schizzi di edifici su pergamena, prendere le misure con strani strumenti che aveva imparato a conoscere grazie ai testi che i monaci custodivano nello scriptorium, o a dirigere lavori in uno dei tanti possedimenti del monastero. Era praticamente sordo, si diceva per via di una caduta da un’impalcatura quando lavorava a Roma, prima di giungere a Veruela.

    «Vado ad accendere i ceri», disse fratello Saturio, desideroso di un po’ di luce.

    «Come dite?». Timoteo gli si avvicinò per sentire meglio.

    «Che voglio fare luce», disse fratello Saturio, consapevole di dovergli parlare molto da vicino, ripetendo le cose più volte.

    Il monaco procedette verso sinistra e tastò il muro di pietra con le mani, fino a raggiungere il ripiano di un tavolo dove c’era una pietra focaia. La prese tra le dita e la sfregò contro il candelabro. Al secondo tentativo ottenne una scintilla con la quale accese i ceri posizionati a illuminare la scala, di modo che il resto dei monaci potesse percorrerla agevolmente. Poi prese una candela, si avvicinò all’Architetto e accese un altro paio di ceri per illuminare l’ingresso del chiostro.

    Quella luce sembrava una stella solitaria in una notte nuvolosa, ma a poco a poco venne circondata da altre stelle. Durante il Mattutino la chiesa non veniva illuminata completamente, solo la via sacra fino al coro, dove si celebrava la funzione. Saturio accese altri due grossi ceri vicino alle Sacre Scritture e attese l’arrivo degli altri fratelli.

    Questi giunsero in chiesa uno a uno nel più assoluto silenzio e con il volto stanco camminarono lentamente fino a raggiungere il coro. Una volta lì, i membri della comunità intonarono i loro cantici e riempirono l’immenso tempio di Santa María de Veruela, che sembrava vivere di vita propria ogni volta che i monaci cantavano, come se la pietra fosse in grado di vibrare al suono delle loro voci.

    Quando il priore considerò concluse le preghiere, i monaci si alzarono all’unisono. Il priore spense i due grandi ceri posti all’inizio del coro e s’incamminò per primo lungo la via sacra della navata centrale verso la porta del chiostro che i monaci Saturio e Timoteo si accingevano ad aprire. Caco sgattaiolò all’improvviso e li guardò impassibile.

    «Che ci fa qui quell’animale?», sbraitò Julián, il monaco più irascibile. «Non può stare nel monastero».

    Il decano Esteban fece per catturarlo ma il gatto riuscì a schivarlo grazie alla sua grossa pancia e ai movimenti lenti del religioso, e fuggì lungo la navata.

    «Prendetelo!», gridò il priore.

    Tutti i monaci iniziarono a rincorrere il gatto che prima s’infilò sotto la veste dell’Architetto e poi, con agilità, evitò fratello Ramiro, il farmacista. A quel punto si fermò di fronte al più giovane dei monaci, miagolò e indietreggiò fino a nascondersi tra due candelabri. I monaci Saturio e Timoteo gli andarono dietro e lo circondarono, Caco li guardò e, quando i due stavano per acciuffarlo, scartò prima a destra e poi a sinistra. Beffandosi di loro, se la svignò lungo la navata laterale, protetto dall’oscurità che inondava quella parte dell’immensa chiesa.

    «Non si vede niente», si lamentò l’Architetto, abituato a lavorare alle volte del tempio piuttosto che a correrci sotto.

    «Bisogna trovare quell’animale». Un altro monaco cercava di catturarlo nella penombra.

    «Caco è più sveglio di voi», disse ridendo il decano Adolfo, il monaco più anziano che, appoggiato al suo bastone si godeva la scena. «Correte, correte!», diceva al resto dei monaci.

    «Fratello Adolfo». Il priore lo guardò con espressione di rimprovero.

    I monaci, con le vesti bianche sollevate, cercavano di catturare quel gatto indiavolato ma senza successo. Con i candelabri accesi i tanti sepolcri e altari presenti nelle navate laterali creavano un mare di ombre.

    Mentre tutti i monaci erano intenti a rincorrere il gatto, Hugo, il più giovane di loro, era l’unico rimasto immobile accanto al deambulatorio.

    «Hugo, cosa fate lì fermo?». Fratello Saturio richiamò la sua attenzione. «Dovreste essere il primo a inseguire quel gatto, su!».

    Ma il monaco non si mosse.

    Il priore Antón notò che aveva lo sguardo fisso su un punto preciso della chiesa. Osservò per un attimo quel giovane con la testa rasata e l’aspetto gracile e notò un’espressione preoccupata sul suo viso. Gli andò vicino.

    «Fratello Hugo, che succede?»

    «Da quella parte», disse Hugo, indicando l’altare.

    Il priore si voltò e fece un paio di passi nella direzione indicata dallo sguardo del giovane. C’era qualcosa che nella penombra sporgeva dal pavimento.

    «Che cos’è?». Il priore si sforzò per guardare meglio. «Fate luce qui!».

    Uno dei monaci sopraggiunse con una grossa candela.

    «Ecco, avete trovato il gatto?»

    «Non lo so», disse il priore emettendo un lungo sospiro.

    Né lui né l’altro monaco riuscirono a fare un passo avanti. Fu fratello Timoteo che alla fine s’incamminò da quella parte con un grosso cero in mano e giunse a pochi passi dall’altare. Illuminò la zona, immediatamente si fece il segno della croce, poi indietreggiò e guardò terrorizzato il resto dei monaci.

    «Che succede?». Il priore era preoccupato e inoltre non vedeva molto bene da così lontano.

    «Non ci sente», gli ricordò fratello Bartolomé, indicando l’orecchio.

    «Timoteo!», gridò più forte. «È sempre più sordo…».

    Fratello Timoteo si inginocchiò senza proferire parola.

    «Che fate?». Il priore andò verso di lui. «Fratello, perché…? Santa Vergine!», esclamò, facendosi il segno della croce.

    «Che succede, priore?». Il decano Esteban si avvicinò subito. «Che succede?», insistette, non ricevendo risposta.

    «C’è un uomo a terra». Il priore indicò un corpo inerme sul pavimento. «Ed è morto!».

    Non era ancora l’alba quando Atilano attraversò il semenzaio, passando per i vigneti all’interno del monastero fino a raggiungere le mura orientali. Doveva sbrigarsi, stava albeggiando. Il suo compagno, il Guercio, apparve da dietro la fucina spingendo un carro contenente un ingombrante fagotto.

    Il Guercio era più esile e magro e si muoveva con maggiore disinvoltura. Raggiunse rapidamente il punto in cui lo aspettava Atilano.

    «Ti ha visto qualcuno?»

    «No, Atilano, non c’era nessuno, proprio come ci è stato detto», rispose.

    «Andiamo». Atilano spinse il carro con energia preceduto dal Guercio, che intanto correva in direzione delle mura.

    «Dov’è quel monaco?», chiese Atilano.

    «Vorrei saperlo anch’io».

    «Sono qui», e apparve fratello Prudencio, «perché avete tardato tanto?»

    «Non era così semplice», rispose il Guercio.

    «Stai sempre a lamentarti. Forza, che possono ancora vederci!».

    In quel preciso istante si udì un suono simile all’ululato di un lupo.

    «Santo Dio!». Il Guercio infilò la mano sotto il mantello e si incurvò per guardare un pezzo di pergamena che teneva cucito lì, lo baciò tre volte e sussurrò una specie di supplica.

    «Merda, Guercio! Finiscila con queste stupidaggini», lo rimproverò Atilano.

    «Non sono stupidaggini».

    «Ci scopriranno! Che aspetti?». Il converso era molto nervoso e non smetteva di guardarsi intorno.

    I due uomini oltrepassarono il portone che il converso gli aprì.

    «Andate!», intimò loro fratello Prudencio.

    «Non mi fido per niente di quello», mormorò il Guercio.

    «Io nemmeno».

    «Non ce ne va una dritta…», disse il Guercio stringendosi nelle spalle. «Tu almeno puoi dire che ti ha visto un uomo con un occhio solo… io neppure quello…», disse, indicandosi l’occhio mancante.

    «Ancora con le tue stupidaggini», Atilano fece finta di dargli uno schiaffo, «non so perché perdo tempo con te».

    «Perché nessun altro ti dà retta».

    «Come ti permetti?», disse indignato. «Io sono Atilano e presto partirò per andare a combattere nel Mediterraneo, sarò conosciuto in Sardegna, Sicilia e ad Atene».

    «Per ora sei solo il custode delle reliquie nei giorni di festa e ti conoscono solamente in quelle quattro fattorie a due passi da qui».

    «Le cose cambieranno», mormorò Atilano stringendo i pugni.

    «Sì, ma poiché non sarà tanto presto, quando accadrà avrai i capelli bianchi e la spada ti farà da bastone», puntualizzò il Guercio.

    «Che dici! Io brandirò la mia spada contro eretici e infedeli».

    «Sì, contro conigli e pernici», sussurrò l’altro.

    «Si può sapere cosa stai bisbigliando?»

    «Niente, dicevo che mi piacerebbe essere tuo scudiero quando andrai a lottare contro gli infedeli, in sella a un asino…», e scoppiò a ridere.

    «Zoticone!». Atilano fece per colpirlo. «Perché pensi che stiamo facendo tutto questo? Con quello che ne ricaverò potrò procurarmi un cavallo, uno scudo e una maglia di ferro».

    «Quante cose, vero Atilano?»

    «Che ne sai, tu».

    «Ne so quanto te, siamo cresciuti insieme».

    «Basta con le chiacchiere, non abbiamo tempo da perdere».

    I due uomini stavano spingendo il carro sulla soffice terra quando si udì un rumore.

    «Cos’è stato?». Il Guercio si guardò attorno spaventato. «C’è qualcuno, ci hanno scoperto!».

    «Vuoi stare zitto? Se continui a gridare ci scopriranno di certo», puntualizzò Atilano. «Gira verso il fossato, o devo fare tutto da solo?».

    Si udì nuovamente lo stesso rumore.

    «Forza!». Atilano gli fece segno affinché corresse.

    «Maledizione, è l’ultima volta che ti do retta».

    Un urlo rimbombò lì vicino, il Guercio tirò di nuovo fuori il pezzo di pergamena e iniziò a baciarlo ripetutamente.

    «Che fai? Sei un disastro!».

    «Sono gli spiriti della notte».

    «Non dire sciocchezze!».

    «Sì, sono loro».

    «Se così fosse, saremmo già morti. Guarda, è un uomo che sta gridando davanti alla porta del monastero».

    «A quest’ora? Non può presagire nulla di buono», e tornò a infilare la mano sotto il mantello.

    «Fai silenzio, Guercio», gli sussurrò Atilano, «smetti di lamentarti e spingi con forza, dobbiamo arrivare fino al mulino».

    2

    Il converso

    L’uomo che giaceva a terra nella chiesa aveva il viso rivolto verso il pavimento e indossava la veste marrone dei conversi, i monaci laici del monastero.

    Fratello Timoteo si chinò, con molta cautela gli prese la testa tra le mani e la girò con delicatezza. Non riusciva a credere ai suoi occhi, si fece il segno della croce e si tirò su portandosi la mano al petto.

    Il cadavere aveva gli occhi aperti e lo sguardo fisso come se guardasse il monaco. Presentava un lungo taglio sul collo simile a quello inferto ai maiali sgozzati, dal quale fuoriusciva ancora sangue. Era stato trapassato da una daga, il pugnale che gli aveva inflitto quella ferita mortale.

    «È…». Fratello Timoteo riuscì a stento a pronunciare il nome. «È Octavio, uno dei conversi!».

    I monaci si fecero il segno della croce mentre il priore si avvicinava al cadavere, disegnando una croce in aria.

    «Ma com’è possibile? Chi ha potuto fargli questo?».

    I presenti si accostarono con timore, spaventati dalla terribile scoperta.

    «Fratello Ramiro, siete voi il farmacista, vi prego di esaminare il corpo», gli ordinò il priore.

    Il farmacista toccò la mano destra del cadavere e la sentì rigida, subito dopo aprì la veste per verificare se avesse altre ferite, ma poté scorgere solo la pelle fredda e pallida. Guardò di nuovo quegli occhi spalancati, posò una mano sul volto del defunto e gli abbassò le palpebre.

    «Priore, nessuno può entrare in chiesa di notte, non avrebbe dovuto essere qui, è un converso… le porte sono chiuse per loro, per tutti!», intervenne il decano Esteban.

    «Lo so, non perdiamo la calma», disse il priore, cercando di tranquillizzare il resto della congregazione. «Chi è stato il primo di noi ad arrivare qui stamattina?»

    «Io, priore», rispose fratello Saturio, «voi stesso mi avete visto scendere le scale».

    «Non c’era nessun altro quando siete entrato in chiesa?»

    «No».

    «Ne siete certo?», insistette il priore.

    «C’era poca luce», si giustificò Saturio, «ma io non ho visto nessuno».

    Fratello Timoteo era ancora inginocchiato accanto al cadavere, scosso per l’accaduto. Un altro monaco si posizionò dietro di lui: era alto, con i capelli castani e lisci, il naso affilato come un coltello, lo sguardo sveglio e le guance infossate sotto gli zigomi. Poggiò la mano destra sulla spalla dell’Architetto e prese la parola.

    «È possibile che chiunque abbia commesso una tale atrocità sia ancora tra queste mura».

    Fratello Timoteo si voltò verso di lui, indicandosi l’orecchio.

    «Ho detto che chi l’ha ucciso può essere ancora qui dentro», ripeté il monaco per farsi sentire meglio.

    «Fratello Rogelio, non sappiamo cosa sia successo esattamente», intervenne il priore, con molta serenità.

    «Certo che no, ma quest’uomo ha un pugnale infilato nella gola. Dovremmo fare qualcosa e subito!».

    Il priore non rispose, si voltò e osservò gli altri monaci.

    «Controllate tutte le porte d’ingresso, quella dei conversi, quella dei fedeli, la porta della sagrestia, quella della camera mortuaria attraverso cui si arriva al cimitero e anche l’accesso al campanile», ordinò, «controllate ogni singola entrata».

    I monaci con le vesti bianche obbedirono senza fiatare, persino l’Architetto si diede da fare. Solo fratello Rogelio rimase accanto al priore.

    «Non dobbiamo trarre conclusioni affrettate».

    «Certamente, priore, ma non riesco a spiegarmi…». Fratello Rogelio sembrava confuso. «Che ci faceva un converso in chiesa e in piena notte?»

    «Lo scopriremo».

    «I nostri fratelli laici hanno il loro dormitorio con un accesso al coro della chiesa, dove vanno a pregare, ma le porte le chiudiamo noi dall’interno», insistette il monaco.

    «Non c’è bisogno che mi diciate quel che già so».

    «Se tutte le porte erano chiuse quando lo abbiamo trovato, come si spiega quanto accaduto?»

    «Non precipitiamo i fatti, angusto è il sentiero che conduce alla verità».

    «Priore», si avvicinò il più giovane, «la porta della sagrestia è chiusa».

    «Grazie, fratello Hugo».

    Il priore rifletté in silenzio. All’improvviso vide il più anziano tra i monaci salire le scale in direzione del dormitorio.

    «Fratello Adolfo, dove andate?»

    «Ho un bisogno impellente».

    «Adesso?»

    «Alla mia età è quasi un miracolo, devo cogliere l’attimo».

    Il priore si astenne dal dirgli altro, abbassò lo sguardo e vide che i monaci lo circondavano con espressione mesta in un’atmosfera di asfissiante costernazione.

    «Tutte le porte sono ben chiuse», affermò il decano Esteban, «abbiamo controllato la porta che dalla chiesa conduce al dormitorio dei conversi, quella che conduce al cimitero e anche l’ingresso principale. Nessuno poteva entrare o uscire da qui».

    «E allora continueremo a perlustrare tutto il tempio e lo faremo fino a quando non avremo scoperto cos’è accaduto stanotte qui dentro».

    Il priore camminò in direzione del cadavere, osservò con attenzione la scena del crimine, il sangue, la posizione del corpo e il pugnale infilato nella gola della vittima. Quest’ultimo richiamò in modo particolare la sua attenzione: era un’arma dorata, elegante, non facile da rimediare, soprattutto per un semplice converso come Octavio.

    I conversi erano i membri più giovani all’interno del monastero, si occupavano dei lavori manuali e delle altre attività così da permettere ai monaci di dedicarsi alla liturgia e allo studio. Il colore marrone della veste li distingueva dai monaci, la cui veste era bianca. Avevano un loro dormitorio, un loro refettorio e un loro coro all’interno della chiesa, posizionato vicino all’ingresso.

    Il priore alzò lo sguardo verso la statua della Vergine che presidiava l’altare maggiore, unica testimone di quanto accaduto.

    Nel frattempo, i monaci avevano terminato di controllare tutta la chiesa e uno alla volta si posizionarono in cerchio attorno all’altare. Erano in dieci, indossavano la loro ampia veste bianca, con pieghe longitudinali e maniche lunghe e larghe, sulla quale portavano una striscia di tessuto scuro: lo scapolare.

    «Non c’è nessun altro oltre a noi in chiesa», disse il decano Esteban.

    «Avete cercato bene?»

    «Sì», rispose questi prontamente, «abbiamo cercato dovunque, le porte sono chiuse e la sagrestia, il campanile e la camera mortuaria sono vuoti».

    «E dunque, come è riuscito a scappare l’uomo che ha ucciso questo nostro fratello?», chiese il priore. «Come hanno fatto l’assassino e la vittima a entrare?»

    «Alla chiesa si può accedere solo dal nostro dormitorio, attraverso la scala», puntualizzò padre Adolfo che era appena tornato.

    I monaci cambiarono espressione, molti di loro si fecero il segno della croce e altri si portarono le mani al petto, in segno di dolore.

    «Ma, fratello Adolfo», il priore si voltò costernato verso di lui, «cosa state insinuando?»

    «Quello che avete sentito, credo di essere stato molto chiaro».

    In quel preciso istante qualcuno bussò alla porta dei conversi, interrompendo il priore. I monaci si guardarono, sobbalzando.

    «Forse l’assassino ha dimenticato qualcosa», sussurrò l’anziano Adolfo.

    «Santo Dio! Moderate le parole», sbottò fratello Julián.

    Bussarono nuovamente.

    «Vado io», disse il decano Esteban, avanzando lungo la navata laterale fino a raggiungere il coro dove si raccoglievano i conversi per la preghiera. Lì c’era la porta che comunicava con il loro dormitorio.

    «Chi è?», chiese, una volta raggiunto l’ingresso del chiostro.

    «Prudencio e Isidoro».

    Un mormorio si levò tra i monaci.

    «Perché vengono a quest’ora in chiesa, non sanno che è molto presto?», sussurrò fratello Rogelio al priore.

    «Non lo so», gli rispose questi.

    «Cosa facciamo, priore?», chiese fratello Timoteo.

    «Apritegli», ordinò il priore Antón, «forse loro sanno qualcosa».

    Il primo dei due a entrare fu fratello Prudencio: era bruno, con lineamenti marcati e una prominente mascella. Lo seguiva a ruota l’altro converso, un ragazzone di nome Isidoro, un’enorme figura umana accanto alla quale qualsiasi altra rimpiccioliva. Entrambi indossavano la veste marrone.

    «Venite qui», disse loro il priore.

    «Che succede?», chiese Prudencio. Aveva tutti gli occhi puntati su di sé e si avvicinò timoroso per poi inginocchiarsi di fronte al priore.

    «Alzatevi. Perché vi presentate in chiesa a quest’ora? È ancora presto per voi».

    «Lo so, priore, perdonateci. Abbiamo sentito delle voci e ci è sembrato strano, abbiamo pensato che fosse successo qualcosa».

    «In che senso?»

    «Non so, ultimamente i fratelli sono molto impressionabili», rispose Prudencio, «alcuni di loro dicono di aver visto un’ombra aggirarsi di notte per il chiostro».

    «Che idiozia è questa?»

    «Lo so, lo so», Prudencio abbassò il capo, «ma sono molto guardinghi… la notte dei Morti è vicina e…».

    «Basta, non voglio sentir parlare di queste cose, abbiamo altre priorità al momento», disse sospirando. «Dov’è il vostro compagno Octavio?», chiese.

    «Non l’ho visto al risveglio».

    «Quando l’avete visto l’ultima volta?»

    «Credo per la Compieta, durante il Mattutino stavo pregando», rispose Prudencio con voce tremante. Evitava gli sguardi degli altri monaci e sembrava nervoso per il modo in cui era stato accolto. «Volete che andiamo a cercarlo?»

    «Non serve». Il priore guardò Isidoro e chiese: «E voi? Avete visto Octavio, oggi?».

    Il gigantesco converso scosse il capo.

    «Ne siete certo?», insistette il priore.

    Isidoro negò di nuovo, spaventato da tutte quelle domande.

    «Fratello Octavio si è comportato in modo strano ultimamente?»

    «No, non mi pare, sapete meglio di me quanto sia dedito al lavoro», rispose Prudencio.

    Ci fu silenzio.

    «Ma è accaduto qualcosa, priore?», chiese con voce tremante.

    «Dio sa tutto e mentire nella sua casa è uno dei peccati peggiori, ma uccidere è motivo di condanna eterna!», intervenne fratello Julián.

    «Perché mi dite questo?»

    «Stanotte è accaduto qualcosa di terribile, fratello Octavio è morto», disse, indicando con la mano destra il corpo che giaceva a terra. I due conversi guardarono in quella direzione e all’inizio sembrarono non comprendere la scena. Prudencio fece qualche passo avanti e alla vista del corpo cadde in ginocchio, al contrario di Isidoro, che non fece una piega.

    «È Octavio!», esclamò sconvolto Prudencio.

    «Purtroppo sì», confermò il priore. «Cos’è accaduto?»

    «Io… non lo so…».

    «Che ci faceva qui Octavio in piena notte?», insistette il priore. «Chi lo ha ucciso? Voi dormivate con lui, dovete sapere la verità».

    «Confessate o patirete tra le fiamme dell’inferno!», esclamò fratello Julián, il più nervoso.

    «Non lo so, io non so nulla, ve lo giuro», bisbigliò Prudencio tra le lacrime.

    «Dio, nella sua immensa misericordia, può perdonarvi, ma per ottenere il suo perdono dovete pentirvi e confessare. Chi ha ucciso Octavio? Siete stato voi, Prudencio?», chiese il priore.

    «No, mio signore, non ho fatto nulla di male. Non sono stato io».

    «Mentite!», si sentì gridare.

    «Fratello Julián, astenetevi dal dare giudizi, chiaro?»

    «Sono innocente, lo giuro su Dio, la Vergine Maria e i santi apostoli. Credetemi, non l’ho ucciso io», insistette il converso, piagnucolando.

    «Se è così, allora chi è stato?»

    «Giuro di non saperlo, lo giuro».

    «E voi?», disse il priore rivolgendosi a Isidoro. «Neppure voi sapete nulla?»

    «No, no», rispose questi, portandosi le mani alla testa, come per tapparsi le orecchie.

    Anche Isidoro si inginocchiò ai piedi del priore che non smetteva di agitarsi e sfregarsi le mani. Dietro di lui, gli altri religiosi rimanevano in silenzio, turbati da quanto stava accadendo.

    Il priore osservò nuovamente i due conversi e scosse il capo. Poi, si voltò verso i suoi fratelli e ne scrutò i volti.

    «Come è riuscito Octavio a entrare in chiesa?»

    «Il male è penetrato all’interno del monastero prima del previsto», sussurrò l’anziano fratello Adolfo. «Mancano ancora quattro giorni e il maligno ha già inviato qui uno dei suoi». Poi, guardandoli negli occhi esclamò: «Siamo tutti in pericolo! Questo è solo l’inizio».

    «Non dobbiamo credere a convinzioni tanto pericolose», disse il priore, cercando di mantenere la calma.

    «Il monastero di Veruela ormai è corrotto, risplende di ricchezza quando fuori i poveri muoiono di fame», disse il vecchio monaco. «Le mura di questo tempio sono ricoperte d’oro ma i figli della Chiesa continuano a essere nudi. Santo Dio, dal momento che non vi vergognate di tanto sfarzo, perlomeno non rimpiangetene le conseguenze».

    «Fratello Adolfo! Non tollererò altre simili insinuazioni», lo riprese duramente il priore.

    «Ma a cosa servono in queste sale tutti quei mostri, tanta bellezza amorfa e tanta deformità artistica?», continuò l’anziano. «A cosa servono quegli esseri immondi, quei fieri leoni, quegli orribili centauri, quelle maschere con il corpo d’animale e volto umano?».

    In quel momento si udì un forte rumore provenire dalla porta comunicante con il chiostro.

    «Chi può essere a quest’ora?», chiese il decano Esteban, rivolgendosi al priore.

    Bussarono di nuovo alla porta principale della chiesa.

    «Dovreste vedere chi è», suggerì sorridente l’anziano Adolfo tra lo stupore di tutti, «magari stavolta si tratta dell’assassino».

    «Adolfo! Non è il momento di scherzare, uno dei nostri fratelli è morto», lo rimproverò il priore.

    «Lo so e so anche che la regola vuole che il maestro si consideri responsabile dei crimini dei propri discepoli e che il Signore, tramite il Suo profeta, minacci i pastori chiedendo loro conto del sangue di coloro che sono morti nel peccato. Per questo credo che dovremmo parlare subito con l’abate».

    «Fratello Adolfo, l’abate è infermo, lo sapete bene».

    «E voi qui lo sostituite. Chi può avere il coraggio di rimproverare gli altri quando egli stesso si considera irreprensibile?»

    «Attenzione a ciò che dite…».

    «È possibile che la luce del mondo si sia tramutata in tenebra? Coloro che dovrebbero rappresentare per gli altri una guida», disse l’anziano monaco, «sono divenuti ciechi che guidano altri ciechi, vittime della superbia intrisa nelle loro azioni».

    «Calmatevi», disse il decano Esteban, cercando di mediare tra i due, «abbiamo già abbastanza problemi. Dovremmo aprire la porta dei fedeli e vedere chi è che bussa con tanta insistenza».

    «D’accordo, restate tutti qui». Il priore Antón fece un passo avanti. «Accompagnatemi, fratello Hugo», disse, cercando il più imberbe fra i presenti.

    Quest’ultimo sollevò la testa sorpreso e, un po’ titubante, seguì il priore, che si diresse verso la navata laterale, dopo aver dato un ultimo e preciso ordine: «Che nessuno si muova né si avvicini al cadavere».

    Fratello Hugo faceva fatica a stare dietro al priore, fortemente determinato. La sua figura slanciata era in contrasto con quella del giovane monaco, che camminava molto più ricurvo ed esitante.

    Il forte rumore tornò a rimbombare all’interno della chiesa.

    «Chi è?», chiese il priore.

    «Fratello Cipriano», si udì rispondere dall’altro lato.

    «Che vi succede? Perché avete lasciato incustodita la portineria?»

    «Abbiamo un visitatore ed è importante che lo riceviate».

    «A quest’ora? Aprite», ordinò il priore.

    Fratello Hugo lo guardò spaventato.

    «Aprite, ho detto. Si può sapere cosa state aspettando?».

    3

    Il notaio reale

    Il giovane Hugo obbedì subito. La pesante spranga scivolò lungo la parete grazie a dei paletti guida che ne facilitavano il movimento; Hugo tolse il chiavistello e aprì. Apparvero un monaco vestito di bianco e un uomo dall’aspetto esile, con la faccia pulita e lo sguardo fermo, che non aveva le sembianze di un religioso.

    «Fratello Cipriano, che succede? Avete lasciato incustodita la portineria?»

    «Chiedo scusa, priore», rispose il monaco, «è per via di questo straniero appena arrivato, dice di essere latore di un messaggio di vitale importanza».

    «E voi, chi siete?»

    «Bizén de Ayerbe, notaio del re».

    «Un notaio reale a Veruela e a quest’ora…». Il priore lo guardò dall’alto in basso. «Suppongo che avrete una buona ragione».

    «È così», disse Bizén, con tono piuttosto fermo, «sono notaio di sua altezza Pietro IV d’Aragona».

    «E a cosa è dovuta la vostra visita al nostro monastero?»

    «La mia compagnia è stata assalita a poche miglia da qui e io sono l’unico sopravvissuto».

    «Mi dispiace», disse il priore. «Questa è terra di confine, la metà dei castelli presenti è in mani castigliane e quelli che appartengono ancora al vostro re ora sono sotto la protezione di quel mercenario francese, tale Bertrand du Guesclin. Il nostro amato monarca lo ha nominato conte di Borja, che orrore!».

    «Orrore?», chiese il notaio reale.

    «Certo, fu il primo signore di Borja a donare le terre sulle quali è stato fondato questo monastero, più di due secoli fa. I suoi resti e quelli della sua famiglia riposano nel nostro chiostro, se sapesse di un simile affronto, si rivolterebbe nella tomba!».

    «Speriamo di no», ne convenne Bizén.

    «E dove eravate diretti quando siete stati assaliti?»

    «Proprio qui, a Veruela, priore. L’ho già detto al monaco portinaio: sono qui per portare un messaggio al vostro abate».

    «Dunque, mostratemelo».

    «Vi ripeto che è per l’abate di Santa María de Veruela», disse il notaio, poggiando la mano destra sul borsello, «deve leggerlo l’abate in persona, sono ordini reali».

    «Immagino sappiate che il re non esercita alcun potere all’interno di queste mura», disse il monaco alla sua destra.

    «E il papa? Perché ho anche due bolle papali con me».

    «Mi sembra uno strano momento per ricevere la visita di un emissario reale e pontificio», affermò il priore.

    «Non sempre è possibile scegliere il momento giusto».

    «Certamente». Il priore guardò il forestiero in maniera differente. «Notaio, da chi siete stati assaliti?»

    «Non saprei dirvi, non li ho visti in volto».

    «E che lingua parlavano?»

    «Le circostanze non mi hanno portato a conversare…».

    «Avevano uno stendardo particolare?», insistette il priore.

    «Nessuno».

    «Si direbbe che siate stati attaccati da un esercito di fantasmi», bisbigliò il monaco portinaio, «un esercito senza voce, né volto».

    «Magari li avessimo visti sopraggiungere».

    «Ascoltate, la vostra visita non giunge in un buon momento, ve lo dico con sincerità», disse il priore a voce bassa. «L’abate non può ricevere visite, se quei documenti sono tanto importanti dateli a me e io provvederò a farglieli recapitare, il più presto possibile. È il massimo che posso fare nelle circostanze attuali».

    Bizén abbassò lo sguardo e fece un respiro profondo.

    «Siete un notaio reale?», disse una voce dall’interno della chiesa. «Il vostro arrivo non poteva essere più opportuno».

    «Non è il momento, fratello Adolfo», sussurrò il priore.

    «Come dite?». Bizén fece un passo avanti.

    «È accaduto qualcosa di terribile, notaio», rispose l’anziano annuendo, appoggiato al suo bastone.

    «Fratello Adolfo… tacete», disse il priore, alterato.

    «Dunque è così», disse Bizén, senza nascondere il proprio stupore, «cos’è accaduto?»

    «È esattamente ciò che vorremmo sapere», borbottò il vecchio monaco.

    «Priore, devo tornare in portineria», disse fratello Cipriano. «È successo qualcosa di grave?»

    «Temo di sì, ma voi andate, l’ultima cosa che voglio è che l’ingresso del monastero resti incustodito».

    «D’accordo».

    «Devo vedere l’abate, più di una dozzina di uomini sono morti perché io potessi giungere fino

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