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Costantino: Il fondatore
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E-book218 pagine2 ore

Costantino: Il fondatore

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La figura di Costantino e la «questione costantiniana» sono da secoli al centro di un ampio dibattito. Nonostante la presenza di documenti e fonti primarie in merito al cosiddetto «primo imperatore cristiano», la loro interpretazione da parte degli storici moderni è spesso difforme e contrastante e la discussione sull’attività e le caratteristiche del figlio di Costanzo Cloro è sempre accesa.

Il saggio della professoressa Maria Carolina Campone affronta alcuni nodi significativi a partire da un’analisi testuale e filologica delle testimonianze storiche in nostro possesso, facendo chiarezza, attraverso un ricorso puntuale alle fonti in lingua greca e in lingua latina, su taluni punti troppo spesso unanimemente sottoscritti da parte della critica, superando vulgate acriticamente accettate e aggiungendo un ulteriore tassello alla comprensione di una figura fondamentale nel vasto processo di sincretismo che segnò il passaggio dal mondo greco-ellenistico e romano a quello cristiano.
LinguaItaliano
Data di uscita26 ott 2022
ISBN9788893721752
Costantino: Il fondatore

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    Anteprima del libro

    Costantino - Maria Carolina Campone

    LA CRISI DEL III SECOLO

    Nell’affrontare i problemi legati alla difficile congiuntura economica, politica e sociale del III secolo, val la pena ricordare la scelta dei curatori del dodicesimo volume della nuova edizione della Cambridge Ancient History, i quali lo hanno intitolato The crisis of empire, aderendo così, in maniera chiara, alla visione tradizionale del periodo e rigettando talune tendenze revisionistiche presenti in buona parte della storiografia¹.

    Il III secolo, caratterizzato dalla dinastia dei Severi e dall’ascesa di Diocleziano, è travagliato da una complessa crisi, determinata da diversi fattori, scatenantisi quasi simultaneamente: l’aumento della pressione barbarica ai confini, cui si accompagnano secessioni e disordini interni, la grave instabilità politica culminante nella lunga fase di anarchia militare e l’insostenibilità del tradizionale sistema economico sono elementi determinanti per comprendere la contrapposizione fra autorità politica e potere militare, intervenuta a rompere pericolosamente un equilibrio, garantito sino ad allora dalle enormi ricchezze che affluivano, a seguito delle campagne militari vittoriose.

    Nel momento in cui la spinta espansionistica romana iniziò a essere contenuta e le spese militari furono destinate soprattutto alla difesa dei confini, l’esercito, che era stato sino ad allora un fattore determinante per la crescita economica, iniziò ad avere un peso sempre maggiore a scapito dell’equilibrio politico².

    I cambiamenti che ne derivarono sia sul piano dei rapporti interni sia su quello economico-sociale e poi religioso furono tali che con l’espressione crisi del III secolo si designa ancor oggi una fase che segna lo spartiacque fra l’Antichità e il Medioevo.

    L’assassinio di Alessandro Severo nel 235, durante una campagna contro gli Alamanni, è considerato l’inizio di un periodo particolarmente travagliato, durante il quale la pressione congiunta dei barbari lungo le frontiere settentrionali e dei Sasanidi in Oriente provocò la diffusa sensazione di accerchiamento fra i sudditi dell’impero³.

    La necessità di ricorrere alla forza per assicurare la sussistenza della compagine statale provocò il lungo periodo di anarchia militare, caratterizzato da almeno tre conflitti, uno esterno, causato dalle invasioni barbariche; uno interno, caratterizzato dalla tensione fra l’aristocrazia senatoria e i comandanti militari; uno endemico all’esercito, fra generali, imperatori ed usurpatori.

    D’altro canto, la mancanza di conflitti esterni era destinata a incidere negativamente sull’economia latifondistica, basata sulla manodopera schiavile, ulteriormente messa in crisi dall’aumento dei prelievi fiscali destinati a finanziare la spesa militare⁴, con una duplice conseguenza: da un lato, molti proprietari furono costretti ad abbandonare le loro terre e a lavorare alle dipendenze altrui; da un altro, vasti territori rimasero incolti e disabitati e finirono con l’essere assegnati a foederati, popolazioni barbariche stabilitesi entro i confini dell’impero⁵.

    La conseguente urbanizzazione non fece che aggravare la situazione, creando masse di nullatenenti con capacità di acquisto nulle o irrilevanti, che finivano per inflazionare ulteriormente il mercato economico, già messo a dura prova da una crisi monetaria strettamente collegata alla situazione socio-politica⁶.

    I cambiamenti sociali furono accompagnati, a loro volta, da una progressiva crisi religiosa, che ebbe come conseguenza l’importanza sempre crescente di culti dalle spiccate caratteristiche soteriologiche ed escatologiche, che, rispetto alla religione tradizionale, messa in crisi anche dalle correnti filosofiche dell’ellenismo, offrivano una risposta più aderente alla contingenza storica e alle attese individuali.

    Una svolta decisiva si ebbe con l’elezione al soglio imperiale di un ufficiale illirico, Diocleziano (244-313), il quale, consapevole delle difficoltà insite nella gestione di un impero tanto vasto, decise di condividerne il governo con un suo commilitone, Massimiano, e, nel contempo, onde evitare l’incertezza legata al passaggio di potere, scelse un suo successore, Galerio, sollecitando il suo collega, cui aveva affidato le regioni dell’Occidente, a fare altrettanto. Nasceva così la tetrarchia, che prevedeva un potere gestito da due Augusti (Diocleziano e Massimiano) e due Cesari (Galerio e Costanzo Cloro).

    La suddivisione dell’impero, lo spostamento e il raddoppiamento delle sedi imperiali, la riorganizzazione dell’esercito e dell’amministrazione civile, la riforma monetaria, prendendo atto delle trasformazioni avvenute, permisero di arrestare la crisi, consentendo di assicurare pace e sicurezza all’impero⁷.

    LE FONTI

    La figura di Costantino viene presentata in maniera assai contrastante dalle fonti antiche, tanto che le si può raggruppare in due filoni distinti, uno a lui favorevole, facente capo a Lattanzio, Eusebio di Cesarea e agli autori di cinque panegirici che ne esaltano le gesta; un altro, che, a diritto, è stato definito profano più che pagano¹, costituito da autori il cui racconto diverge in maniera sostanziale da quello degli autori del primo gruppo.

    Giuliano (331-363), il retore Libanio (314-394), l’Anonymus de rebus bellicis, l’Historia Augusta, Eunapio (345-420), Zosimo (VI sec.) sono l’espressione di una propaganda ostile a Costantino, che tende ad attribuirgli quei difetti –avidità, accidia, lusso- che una lunga tradizione storiografica considerava emblema del tiranno nemico della libertà e della giustizia.

    In generale, le fonti di parte profana non hanno un atteggiamento univoco nei confronti dell’imperatore, specie per quel che attiene le guerre civili. Anche se nessuno dei suoi rivali è presentato in maniera positiva, i conflitti che videro Costantino schierato contro di loro non sono interpretati come momenti positivi del suo regno. Aurelio Vittore, che scrive intorno al 360 il Liber de Caesaribus, pur descrivendo Massenzio con i tratti tipici del tiranno, attribuisce la responsabilità dello scontro con Licinio a entrambi i contendenti.

    Sul fronte opposto, il resoconto di Eusebio di Cesarea (265-340) è stato variamente interpretato e messo seriamente in discussione da una corrente storiografica di matrice burckhardtiana, che l’ha considerato sostanzialmente inattendibile, corrente che è stata abbondantemente smentita, nelle sue conclusioni, dall’attento lavoro filologico e interpretativo di Mazzarino.

    Di certo il vescovo palestinese, nell’accingersi a scrivere del sovrano, si dovette misurare con un compito assai complesso, sia perché si trovò nella necessità di passare sotto silenzio alcuni episodi a dir poco imbarazzanti per un principe considerato cristiano, come, solo per fare un esempio, la morte di Crispo e Fausta; sia per le tendenze filoariane del protagonista dell’opera, che mal si accordavano con le posizioni assunte dal Concilio di Nicea.

    Resta tuttavia il dato di fatto per cui la Vita Constantini fornisce notizie importanti, che trovano un riscontro indiretto in altre fonti, come nel caso dell’Oratio ad sanctorum coetum.

    Nel valutarne la portata, occorre tener presente un elemento in genere trascurato dalla critica: l’opera va infatti contestualizzata nel genere letterario di riferimento che, nonostante il titolo, non va inteso come una biografia sic et simpliciter, ma piuttosto come un exemplum, genere letterario fiorito in età ellenistica, volto a mettere in rilievo le pràxeis (imprese) e l’ethos (carattere) di un personaggio², che aveva finito con l’influenzare anche quello biografico e che comportava, per sua stessa natura, una selezione e interpretazione degli eventi da parte dell’autore.

    Parimenti ritenuto inattendibile è il De mortibus persecutorum di Lattanzio (250-317), in cui le finalità stesse dell’opera, che non ha intenti di tipo storico o storiografico, oltre che l’educazione retorica dello scrittore, tendono a presentare gli avvenimenti sotto una luce ovviamente di parte.

    In effetti, nell’approccio alle fonti antiche, non bisogna dimenticare che la retorica, oltre a far parte dell’istruzione di base di ogni autore colto di età imperiale e bizantina, al punto da divenire una sorta di forma mentis e costituire, dunque, uno strumento imprescindibile nella stesura di qualsiasi opera, rappresentava un’arma efficace per affrontare con diplomazia argomenti complessi o imbarazzanti, funzionando spesso come una sorta di filtro nei confronti della realtà.

    Sull’influenza di Lattanzio nella svolta ideologico-religiosa di Costantino si è scritto tanto, avanzando anche l’ipotesi che egli componesse il suo De mortibus persecutorum a Nicomedia, nell’orbita di Licinio, piuttosto che a Treviri, in quella di Costantino, giacché sarebbe infatti Licinio³, a detta di alcuni, il vero eroe positivo dell’opera. Tale ipotesi, tuttavia, non sembra accettabile, tenendo conto del testo nella sua interezza, se non altro perché, nei capitoli finali, viene descritto il comportamento del rivale di Costantino, che, dopo aver ottenuto il potere, si era macchiato di diversi crimini, in maniera non consona a un imperatore cristiano⁴.

    A ben guardare, il pamphlet, che dimostra nell’autore uno spirito sostanzialmente conservatore, porta alle estreme conseguenze quell’identificazione fra gli imperatori persecutori e i malvagi, sostenuta già da Melitone di Sardi. Lattanzio divide gli imperatori in due categorie, quelli che hanno aiutato il cristianesimo e quelli che l’hanno combattuto, sviluppando il testo secondo due linee interpretative, il trionfale cammino della Chiesa e l’esaltazione degli imperatori filo-cristiani. Nel far ciò, egli si muove con una grande libertà, manipolando probabilmente le sue fonti, secondo principi estetici e regole lontane dal nostro concetto di verità, ma connaturate, invece, al genere letterario di riferimento⁵, a proposito del quale andrebbe tenuto presente anche il modello degli exitus virorum illustrium richiamato, e contrario, sin dal titolo⁶, e di tanti racconti biblici.

    L’episodio dell’uccisione di Valeria nel finale dell’opera fa supporre che il De mortibus persecutorum sia stato composto non fra il 313 e il 316, come generalmente si sostiene⁷, ma fra il 325 e il 326, nel periodo in cui occorreva distogliere l’attenzione pubblica dall’omicidio di Fausta e Crispo, che rischiavano di compromettere l’immagine di Costantino, attribuendo al suo rivale una responsabilità simile. Nel testo, la crudeltà dimostrata da Licinio nello sterminio di vari membri della famiglia imperiale sembra far da contraltare alla pietas che Costantino rivendicava come sua caratteristica almeno a partire dal 306⁸, sicché l’opera, più che essere una violenta espressione di radicalismo antipagano, sembrerebbe anche il raffinato messaggio dell’entourage imperiale. Non a caso, Lattanzio getta più di un’ombra sulla figura di Licinio⁹, il cui ritratto coincide, per molti versi, con quello delineato da Eusebio.

    In generale, il problema delle fonti costantiniane andrebbe correttamente inquadrato non tanto in relazione a quella che, da Grégoire in poi, è nota come questione costantiniana, ma piuttosto nell’ambito dello sviluppo storico della letteratura antica. Così, ad esempio, si è sottolineata l’artificiosità dei componimenti di Optaziano Porfirio, poeta e senatore romano morto negli anni Trenta del IV secolo, inventore dei versus intexti, citati a esempio di una poetica adulatoria, tralasciando il dato di fatto per cui quell’artificiosità non era dovuta a cortigianeria, ma era uno degli effetti della ricerca formale risalente a Teocrito, padre della technophaegnìa, e che l’adulazione era una nota caratteristica di una certa tendenza storiografica della tarda antichità, tanto più evidente nella poesia, genere in cui non è lecito attendersi l’obiettività dello storico.

    Una fonte in parte sopravvalutata, ma sostanzialmente mai approfondita, per la ricostruzione delle vicende legate al primo imperatore cristiano è costituita da alcuni dei dodici panegirici che compongono il corpus rinvenuto nel XV secolo da Giovanni Aurispa¹⁰.

    Alla base di questi discorsi celebrativi, c’è uno specifico contesto intellettuale e sociale, che prevedeva la scelta deliberata e consapevole di particolari mezzi di espressione per veicolare un preciso messaggio in un determinato momento storico. Il panegirista svolgeva un compito che andava ben al di là del semplice sfoggio di abilità retorica, poiché spesso, oltre che retore di professione, era un funzionario di corte, che, in occasione della recitazione stessa, svolgeva un ruolo pubblico. In tal senso, oggi non si interpreta più tale genere letterario come uno strumento di propaganda imperiale o mezzo di comunicazione ‘discendente’, dall’imperatore e dalla corte verso la classe politica, i militari e i cittadini, ma piuttosto come mezzo riconosciuto e autorizzato di comunicazione tra l’imperatore e i suoi sudditi.

    Tutto ciò, più che una semplice scelta stilistica ed estetica, determina il tipo di informazione contenuta in tal genere di discorsi, volta a codificare una determinata immagine del princeps, condivisa con l’uditorio e resa attraverso il frequente ricorso a figure retoriche dalla doppia efficacia, uditiva e visiva, miranti all’incisività della comunicazione; al mito, attraverso il quale, con opportune rielaborazioni, il poeta stabilisce un legame identitario con l’uditorio, di cui condivide il repertorio culturale; a loci communes della storia romana utilizzati per veicolare un messaggio morale; a iperboli a tratti grottesche; ad associazioni di parole paradossali e a opposizioni inattese¹¹.

    Proprio il nesso stringente tra forma e contenuto fa sì che essi possano essere utilizzati per la ricerca storica a patto che si tengano presenti tali caratteristiche atte a veicolare messaggi politici e contenuti attuali, attraverso una comunicazione sofisticata.

    LA VITA

    Le vicende biografiche di Costantino sono per sommi capi note. Il futuro imperatore nacque a Naissus (odierna Niš), nell’Illirico, l’attuale Serbia, il 27 febbraio del 272 o del 273, da Costanzo Cloro ed Elena. Secondo l’Historia Augusta¹, suo padre era figlio di Flavio Tito Eutropio, un nobile proveniente dalla Dardania settentrionale, nella provincia della Mesia Superiore, e di Flavia Claudia Crispina, figlia di Bruzia Crispina e abiatica dei due fratelli e imperatori Claudio il Gotico e Quintillo, anche se tale parentela sembra essere un’invenzione costantiniana, volta a nobilitare le origini della famiglia².

    Poco o nulla sappiamo della sua giovinezza, se non che proprio durante l’adolescenza gli fu affibbiato il soprannome dispregiativo Trachala, collo di toro³, allusione probabile al suo carattere altezzoso o, secondo altri, viscido⁴, o anche a una caratteristica fisica riconoscibile anche dalla ritrattistica.

    A partire dal 293, anno in cui il padre entrò a pieno titolo a far parte del sistema tetrarchico, Costantino fu educato a Nicomedia presso la corte di Diocleziano, sotto il quale prese avvio la sua carriera militare, divenendo tribunus ordinis primi, grado con cui seguì, sul finire del 296, l’imperatore nella spedizione in Egitto contro l’usurpatore Domizio Domiziano e il suo luogotenente Aurelio Achilleo⁵.

    Come egli stesso ebbe a ricordare, prese parte alla spedizione di Galerio contro i Sasanidi⁶, per poi tornare al servizio di Diocleziano al seguito del quale lasciò l’Egitto nell’estate del 302⁷. Fra il 303 e il 305 tornò a militare nelle file di Galerio, combattendo contro i Sarmati sul confine danubiano⁸. Negli stessi anni, Diocleziano scatenò la persecuzione contro i cristiani, un provvedimento poco comprensibile, dal momento che veniva a turbare una pace religiosa sino ad allora assicurata⁹.

    Il 1° maggio del 305, Diocleziano, secondo il disegno previsto dal progetto tetrarchico, abdicò, spingendo il suo collega Massimiano a fare lo stesso passo. I nuovi Augusti, Galerio e Costanzo Cloro, scelsero a questo punto i loro Cesari, nominando, rispettivamente, l’uno, il nipote Massimino Daia e l’altro, Flavio Severo, un ufficiale di alto rango, che aveva militato tra le sue file¹⁰.

    In questo frangente, Costantino lasciò in tutta fretta Nicomedia, raggiungendo il padre in Britannia¹¹, con quella che a molti parve una fuga precipitosa, giustificata, peraltro, tanto dal desiderio di sfuggire al controllo di Galerio quanto probabilmente anche dalla non facile situazione dei territori orientali, in cui, essendo la Chiesa locale già ben organizzata, alle tensioni politiche si aggiungevano quelle religiose¹².

    Il sistema ideato da Diocleziano iniziò a mostrare subito le sue implicite debolezze, poiché aveva automaticamente escluso dalla successione coloro che, per consanguineità, potevano sentirsi legittimati ad avanzare pretese ereditarie: Massenzio, figlio di Massimiano e genero di Galerio, e Costantino. Questi si distinse in alcune campagne militari contro i Pitti¹³, arrivando a oltrepassare il vallo di Adriano¹⁴, che, sin dalla sua costruzione, segnava il confine fra la provincia romana e il resto dell’isola, dividendo di fatto quest’ultima in due parti. Tutto ciò gli procurò il sostegno delle truppe, guidate dal generale germanico Croco, che, alla morte del padre, avvenuta il 25 luglio 306 nei pressi di Eburacum (odierna York), lo proclamarono Augusto d’Occidente,

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