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Storia segreta dei templari
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E-book532 pagine7 ore

Storia segreta dei templari

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Chi erano realmente i Templari?

Tra storia e leggenda, le vicende del più celebre ordine cavalleresco

Da secoli si continua a parlare e a scrivere dei Templari, un mito che sembra non cessare di affascinare il pubblico. Qual è la ragione di questo sorprendente interesse, che ha attraversato le epoche più diverse?

Forse il fatto che, come scrive Umberto Eco nel Pendolo di Foucault, «i Templari c’entrano sempre». Insomma, sono diventati origine e fine di ogni mistero, nefandezza, impresa eroica. Ma chi erano veramente? Quali motivazioni li animavano? Di quali saperi occulti erano a conoscenza? E quali simboli li legavano in un’eterna fratellanza? Dalle loro origini lontane ai tanti ordini che hanno tentato di emularli, dai membri più illustri alle accuse di eresia, dai simboli del Tempio all'alfabeto segreto, questo libro racconta storie note dell’Ordine insieme a episodi meno conosciuti, ma non per questo meno significativi. Senza tralasciare, ovviamente, la cosiddetta “leggenda nera”, il lato più oscuro dei Templari. Uomini che il re di Francia, Filippo il Bello, tentò di distruggere, condannandoli al carcere o al rogo, raggiungendo però il risultato opposto: quello di consegnare le loro vicende al mito.

Eroi, imprese, simboli e curiosità di uno dei misteri più antichi e affascinanti della storia dell’Occidente.

Le origini e l’ascesa

Una multinazionale del Medioevo

I personaggi: aspetti e vicende curiose

Il declino, la caduta, le accuse, il processo

La leggenda nera. Le degenerazioni e il mito

Le curiosità

Gli emuli

Enzo Valentini

scrittore e giornalista storico, si occupa da trent’anni della storia dell’Ordine del Tempio. Oltre agli interventi per conferenze e convegni, è autore di libri sull’argomento e di articoli per riviste specialistiche. Dal 1985 è segretario nazionale della Libera Associazione Ricercatori Templari Italiani (LARTI).
LinguaItaliano
Data di uscita30 mag 2014
ISBN9788854170049
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    Anteprima del libro

    Storia segreta dei templari - Enzo Valentini

    Le origini e l’ascesa

    Anno 1120. Porto di Giaffa.

    Dopo mesi di navigazione attraverso il mare Mediterraneo, i pellegrini franchi avevano finalmente raggiunto la penultima tappa del loro interminabile viaggio: dopo sarebbe stata la volta di Gerusalemme!

    La fatica e la stanchezza erano ormai dimenticate, sovrapposte dall’emozione di vedere i Luoghi della Passione del Cristo, bastava solamente superare quelle poche miglia che li separavano dalla Città Santa. Il breve tratto di strada, una volta infestato da feroci briganti infedeli, era ora tranquillo e sicuro grazie a quegli strani cavalieri che controllavano il cammino, senza stancarsi mai e senza chiedere nulla in cambio…

    Tutto era iniziato una ventina di anni prima, appena dopo la conquista di Gerusalemme e della Terrasanta.

    Il pellegrinaggio armato: l’antefatto

    Per meglio comprendere le motivazioni che furono alle origini dell’Ordine del Tempio è necessario conoscere quel periodo centrale della storia medievale, di circa due secoli, comunemente conosciuto come epoca delle crociate, e soprattutto gli avvenimenti che lo precedettero.

    Le origini dell’epopea crociata possono essere fatte risalire al 1071 quando in Armenia, presso la fortezza di Manzikert, il potente ma disorganizzato esercito bizantino venne sconfitto dai turchi selgiuchidi di Alp Arslan, provenienti dalle steppe orientali: nel volgere di poco più di quattro secoli, nonostante i continui arrivi di spedizioni europee in soccorso dell’impero bizantino, nel 1453 i turchi di Maometto II arriveranno a conquistare l’Anatolia e la penisola balcanica, insediandosi nella capitale Bisanzio, ribattezzata col nome di Istanbul.

    Quella di Manzikert fu la prima di una lunga serie di disfatte subite dall’impero bizantino, in seguito alle quali i turchi selgiuchidi riuscirono a conquistare, lentamente ma inesorabilmente, tutta l’Anatolia, fin quasi sotto la capitale Bisanzio. Nonostante ciò, intorno alla fine del XII secolo, la situazione si era stabilizzata in leggero favore dell’impero, che però scarseggiava di soldati, potendo contare quasi esclusivamente sulle truppe mercenarie; ma queste erano composte da elementi di tribù orientali, da esuli anglosassoni e normanni, da compagnie di avventurieri occidentali in servizio temporaneo, sulla cui fedeltà non si poteva fare affidamento.

    L’imperatore Alessio I Comneno, pur trovandosi su posizioni religiose in parte contrastanti con quelle della Chiesa di Roma, pensò quindi di domandare al pontefice uomini e mezzi, giustificando la richiesta con il sostegno portato ai fratelli cristiani d’Oriente e la liberazione dei luoghi santi. Dal canto suo, Urbano II accolse con entusiasmo la proposta, che permetteva un avvicinamento delle due chiese, romana e ortodossa; inoltre costituiva una valvola di sfogo per gli innumerevoli cavalieri erranti, privi di occasioni per combattere, se si escludevano i tornei o le scaramucce locali.

    Fu così che il 27 novembre 1095, durante il concilio di Clermont Ferrand, Urbano lanciò un accorato appello, riportato dal cronista Fulcherio di Chartres, benché egli non fosse presente all’evento:

    È urgente, in effetti, che voi vi affrettiate a marciare in soccorso dei vostri fratelli che abitano in Oriente, ed hanno gran bisogno dell’aiuto che voi avete, già altre volte, promesso loro. I turchi e gli arabi si sono precipitati su di loro, come molti di voi avrete inteso raccontare, ed hanno invaso le frontiere della Romania (l’impero bizantino), fino a quel luogo del mar Mediterraneo, chiamato Braccio di San Giorgio, estendendo sempre più le loro conquiste sulle terre dei cristiani, sette volte li hanno già vinti in battaglia, e ne hanno presi ed uccisi un gran numero, ed hanno rivoltato da cima a fondo le chiese e razziato tutti i paesi sottomessi alla dominazione cristiana. […] È per questo che vi chiedo e vi scongiuro, non nel mio nome, ma nel nome del Signore, voi araldi di Cristo, di esortare con frequenti proclami i franchi di ogni rango, gente a piedi e cavalieri, poveri e ricchi, ad impegnarsi a soccorrere gli adoratori di Cristo, mentre si è ancora in tempo, e di cacciare dalle regioni sottomesse alla nostra fede la razza empia dei devastatori. Questo, io lo dico a quelli di voi che sono presenti qui, ma lo invierò agli assenti, è Cristo che lo ordina. Quanto a quelli che partiranno per questa guerra santa, se essi perdono la vita, sia durante la strada sulla terra, sia attraversando i mari, sia combattendo gli idolatri, tutti i loro peccati saranno rimessi in quel momento preciso; questo favore così prezioso, io lo accordo loro in virtù dell’autorità della quale sono investito da Dio stesso. […] Quali crudeli rimproveri ci farà il Signore, se voi non soccorrerete coloro che, come noi, hanno la gloria di professare la religione di Cristo?¹

    Alle parole del pontefice l’assemblea fu presa da un’emozione tale che un gran numero di persone dichiarò, al grido di «Deus le volt!», di voler partire e di impegnarsi a convincere altri a seguirli; l’esaltazione di obbedire a un comando di Cristo, supportata anche dalla possibilità della remissione dei peccati, proseguì nei giorni successivi e molti si prepararono alla partenza cucendo sopra i propri abiti croci di ogni foggia:

    Che ammirabile e dolce spettacolo erano per noi tutte quelle croci splendenti di seta, d’oro o di stoffa, o di qualsiasi altra materia, che, per ordine del suddetto papa, i pellegrini, una volta che avevano fatto voto di partire, si cucivano sulla spalla dei loro mantelli, delle loro casacche e delle loro tuniche!²

    Nel racconto di Fulcherio ci sono tutti gli elementi che identificheranno le crociate per i duecento anni successivi: la croce sull’abito dei pellegrini e dei soldati, l’entusiasmo di liberare i Luoghi Santi dalla minaccia musulmana, la coscienza di essere al servizio di Dio, il grido di battaglia «Deus le volt!». Non si parla però di crociata, termine che verrà utilizzato a partire dal XIII secolo, ma piuttosto di pellegrinaggio armato, un’impresa guerriera collettiva che andrà a sostituire i precedenti pellegrinaggi spirituali e pacifici dei singoli individui.

    L’appello del papa superò ogni più rosea aspettativa, suscitando un moto entusiastico al limite del fanatismo, che coinvolse tutte le classi della società medievale, dai nobili ai popolani, ognuno spinto da motivazioni diverse: chi preso da sincero fervore religioso, chi da smania di ambizione e di ricchezza. Questa impazienza, specialmente nei cavalieri erranti che vedevano nella crociata un’occasione per rifarsi una vita nelle nuove terre da conquistare, dette vita a spedizioni non ufficiali, che raccolsero gli strati più bassi della popolazione, spesso sobillati da predicatori e agitatori vicini agli ambienti pauperistici dei patarini.

    Una di queste imprese, denominata crociata dei poveri o dei pezzenti, si raccolse intorno a Pietro d’Amiens, o l’Eremita, un trascinatore di folle che

    in pubblico portava una tunica di lana e sopra questa un mantello di panno grezzo che gli arrivava ai calcagni, aveva le braccia e i piedi nudi, mangiava poco pane o non ne mangiava affatto, e si nutriva di vino e di pesce³.

    Suo compagno nella spedizione era Gualtieri Senza Averi, che dal soprannome sembrerebbe uno dei tanti cavalieri erranti in cerca di fortuna. Entrambi, nell’aprile 1096, raggiunsero Colonia, dove Pietro si fermò per la predicazione; gli uomini di Gualtieri, invece, partirono verso il sud e da subito, per necessità di approvvigionamento di viveri, iniziarono a depredare villaggi e paesi della penisola balcanica, scontrandosi con le guarnigioni bizantine: a seguito del saccheggio nei dintorni di Belgrado molti crociati furono uccisi e altri bruciati vivi in una chiesa. È solo con la scorta militare inviata dall’imperatore, che Gualtieri e i suoi riusciranno ad arrivare a Costantinopoli, senza provocare altri danni o incidenti.

    Dal canto suo, superato senza problemi il confine meridionale del regno di Ungheria, Pietro raggiunse i dintorni di Belgrado: forse per l’esperienza vissuta dai compagni di Gualtieri, o forse per una discussione a causa di un paio di scarpe in vendita, gli uomini di Pietro assalirono il sobborgo di Zemun, rifornendosi di provviste e trucidando quattromila persone. Il cammino in direzione di Sofia sarà punteggiato da incendi, scaramucce, assalti a fortificazioni: giunti nella città bulgara i crociati di Pietro avevano perso un quarto dei loro compagni, senza avere ancora raggiunto la Terrasanta.

    I due tronconi dell’infausta spedizione si riunirono finalmente a Costantinopoli, ma l’8 agosto furono subito trasportati sulla sponda asiatica del mar di Marmara, nel campo fortificato di Civetot, da un imperatore che cercava di sbarazzarsi di questa masnada di gente rissosa, disobbediente e pericolosa, soprattutto inutile per contrastare gli invasori turchi. La valutazione di Alessio venne confermata dalle discussioni presto insorte fra crociati tedeschi e italiani contro quelli francesi, litigi che portarono alla divisione del comando e a un suo indebolimento sul piano militare; la bramosia di saccheggio, inoltre, li spinse a gareggiare tra loro su chi riusciva a fare più conquiste e bottino.

    I francesi arrivarono perfino a razziare le campagne nei dintorni di Nicea, diventata qualche anno prima capitale dei conquistatori turchi; invidiosi del successo, gli altri superarono la città e si insediarono nel castello di Xerigordon, facendone una base di partenza per ulteriori incursioni nell’Anatolia. Il 29 settembre, stanco di quelle scaramucce, il sultano inviò un grosso contingente che assediò il castello, tagliando ogni rifornimento d’acqua; dopo una settimana, durante la quale furono costretti a bere il sangue dei cavalli o la loro stessa urina per sopravvivere, i crociati si arresero: chi abiurò ebbe salva la vita, gli altri furono uccisi.

    Giunta la notizia che il nemico si stava avvicinando a Civetot, i francesi decisero di dare battaglia, lasciando indietro solo vecchi, donne e bambini; ad appena tre miglia dal campo, però, i ventimila crociati caddero in una imboscata tesa dai turchi in una stretta valle. Dopo un coraggioso quanto inutile tentativo di reazione, i franchi si dettero alla fuga verso l’accampamento, dove vennero decimati: i tremila superstiti di questa seconda disfatta riuscirono a trovare riparo tra i ruderi di un vecchio castello in riva al mare, in attesa della flotta imperiale che fortunatamente li porterà in salvo a Costantinopoli.

    Dei due comandanti crociati, Gualtieri Senza Averi era morto in combattimento a Civetot, mentre Pietro, salvatosi perché era a Costantinopoli, rimase ad attendere la spedizione ufficiale, con la quale raggiungerà poi Gerusalemme. Tutto ciò si compiva nell’ottobre 1096: dopo soli sette mesi terminava così, miseramente, la crociata dei pezzenti.

    L’altra spedizione popolare, quella dei tedeschi, si risolse invece in maniera peggiore.

    Prima di partire da Colonia per Costantinopoli, Pietro l’Eremita aveva lasciato al suo discepolo Gottschalk l’incarico di fare nuovi proseliti: evidentemente la sua predicazione fu molto convincente, dal momento che raccolse un esercito di oltre diecimila uomini e un altro uguale si formò al comando del frate laico tedesco Volkmar; ma il più formidabile era quello che si era posto sotto la bandiera del conte Emich di Leisingen, signorotto violento e brutale, che asseriva di avere sul corpo le stimmate a forma di croce. I comandanti delle tre armate, però, prima di intraprendere il viaggio in Oriente, pensarono bene di sistemare qualche faccenda locale: l’annuncio della crociata, infatti, se da un lato aveva stimolato il fervore cristiano, dall’altro aveva risvegliato sentimenti di odio religioso verso qualsiasi infedele; i primi a farne le spese furono gli ebrei, da sempre considerati colpevoli della morte di Cristo, ma odiati anche e soprattutto a causa della loro ricchezza e del loro mestiere di usurai.

    Agli inizi di maggio 1096 l’esercito di Emich raggiunse la città tedesca di Spira, dove vennero uccisi solo dodici ebrei perché il vescovo locale riuscì a salvare gli altri. Ma il peggio avvenne nella tappa successiva, a Worms, dove l’arcivescovo aveva fatto chiudere le porte e accolto gli ebrei nel suo palazzo. La città venne assediata ma, per il tradimento di uno degli assediati, fu subito conquistata: nonostante le offerte di denaro, i crociati razziarono, uccisero e incendiarono per due giorni, alla fine dei quali risultava massacrato circa un migliaio di ebrei. A Colonia, invece, grazie all’intervento dell’arcivescovo, uccisero solo un uomo e una donna e dettero fuoco alla sinagoga.

    Nel frattempo, mentre il grosso della spedizione si dirigeva in Ungheria, a Magonza una parte se ne distaccava per andare a purgare le città di Treviri e di Metz; successivamente, alla fine del giugno 1096, si diressero nella valle della Mosella dove, in soli quattro giorni, trucidarono gli ebrei di Neuss, Wevelinghofen, Eller e Xanten.

    Volkmar, invece, giunto a Praga a fine maggio e compiuto il suo dovere di castigatore di giudei, si era avviato verso il regno di Ungheria, accolto con benevolenza dal re Coloman, purché i suoi uomini non causassero altri incidenti e stragi. Purtroppo, nell’attuale città slovena di Nitra, i crociati ripresero la loro abitudine al saccheggio e al massacro, così da provocare la reazione dei soldati del re, che ne uccisero molti, catturando e disperdendo gli altri; di Volkmar si perse ogni traccia durante i combattimenti.

    Dal canto suo il sacerdote Gottschalk, dopo aver sterminato gli ebrei di Ratisbona, era entrato in Ungheria; anche in questo caso re Coloman si era dimostrato ben disposto nei suoi confronti, concedendo facilitazioni per il rifornimento di viveri e mezzi. La natura predatoria dei crociati, però, si era subito manifestata con razzie e devastazioni delle campagne e i contadini avevano reagito con le armi, appoggiati in questo dai soldati del re; i crociati erano stati subito disarmati e confinati in un villaggio isolato. Poiché, nonostante ciò, i disordini proseguivano, Coloman decise di usare le maniere forti: il suo esercito piombò a sorpresa sul villaggio, trucidando tutti gli uomini di Gottschalk, che morì insieme con loro.

    Ma per gli ungheresi la vicenda non era ancora terminata: alcune settimane più tardi si profilò all’orizzonte il potente esercito di Emich di Leisingen: però questa volta, sulla base dell’esperienza vissuta con Volkmar e Gottschalk, Coloman bloccò ogni strada di accesso al regno. Gli inevitabili scontri, benché a livello di scaramucce, si concentrarono nei pressi del guado su uno dei bracci del Danubio, che i crociati riuscirono a superare, andando ad assediare la vicina fortezza di Wiesselburg (l’attuale Moson). La città stava per capitolare quando improvvisamente, forse per l’annuncio dell’arrivo di Coloman con una moltitudine di uomini, gli assedianti furono presi dal panico: la guarnigione ungherese, colta l’occasione favorevole, effettuò una sortita che travolse e sbaragliò completamente il nemico. Si salvarono solo in pochi: Emich e i compagni tedeschi tornarono in patria, mentre altri cavalieri si arruolarono nelle successive spedizioni.

    Anche questa strana crociata, come l’altra dei pezzenti, si concludeva in maniera poco onorevole.

    Cenni sulla prima crociata

    Con questi infelici precedenti si stava intanto preparando la crociata ufficiale, quella dei nobili, i quali erano riusciti a definire un piano operativo; questo consisteva nel dividere i differenti eserciti in diversi gruppi, ognuno in partenza da vari punti dell’Europa: dalla Francia settentrionale partì Ugo di Vermandois, fratello del re Filippo I; sempre dal nord proveniva Roberto II Courteheuse, duca di Normandia e figlio di Guglielmo il Conquistatore; dalla Bassa Lorena, al confine tra Francia e Germania, si mosse Goffredo di Buglione, con il fratello Baldovino di Boulogne e il cugino Baldovino di Le Bourg, che tanta parte avranno nelle vicende d’Oltremare, e forse anche con Hugues de Payns e Goffredo di Saint-Omer, in direzione di una meta che avrebbe cambiato radicalmente la loro vita e quella di innumerevoli altri cavalieri; dal sud della Francia proveniva Raimondo di Saint-Gilles, conte di Tolosa, al comando di quella nobiltà occitana che, circa un secolo più tardi, verrà combattuta come eretica nelle crociate contro gli albigesi; l’ultimo gruppo era quello di Boemondo I d’Altavilla, conte di Taranto, che con i suoi normanni si muoveva dall’Italia meridionale.

    Come racconta Guglielmo di Tiro:

    Tutti preparano i cavalli, le armi, gli equipaggiamenti e si mandano l’un l’altro messaggi di invito a partire. Si accordano con cura e preventivamente sul momento in cui ognuno dovrà partire, sui punti di convegno e sulle strade più sicure e nel contempo più facili per le quali avanzare. Poiché quelle migliaia di viaggiatori non avrebbero potuto trovare in un solo paese tutto quanto occorreva, decisero saggiamente che i prìncipi più potenti guidassero ognuno per proprio conto le legioni di cui disponevano e seguissero itinerari diversi⁴.

    Ugo di Vermandois scese in Italia e, passando da Roma, raggiunse il porto di Bari, dove si imbarcò alla volta di Durazzo, sull’attuale costa albanese; accompagnato da un inviato dell’imperatore nell’ottobre del 1096, arrivò a Costantinopoli, facendo un largo giro che passava per Filippopoli (Plovdiv), in Bulgaria. Goffredo di Buglione, invece, ricalcò in parte l’itinerario di Pietro l’Eremita, seguendo la stessa strada percorsa dall’imperatore Carlo Magno quando, secondo la leggenda, si era recato in pellegrinaggio a Gerusalemme. Attraverso le valli del Reno e del Danubio, Goffredo giunse al confine ungherese, che riuscì a superare solo offrendo a re Coleman ampie garanzie di non belligeranza; era stato obbligato anche a consegnare in ostaggio suo fratello Baldovino, con moglie e figli, fino a quando non avesse lasciato il regno. I crociati proseguirono per tutta la penisola balcanica, toccando una Belgrado ancora deserta dopo il passaggio dalle armate di Pietro; solo un episodio di saccheggio, immotivato quanto improvviso, interruppe la tranquillità del viaggio sulle coste del mar di Marmara. Sistemato l’incidente per via diplomatica, Goffredo riuscì ad entrare a Costantinopoli alla fine di dicembre.

    L’imperatore Alessio, memore dei disordini provocati dalla precedente spedizione di Pietro, fece accampare le armate occidentali fuori le mura cittadine: la sua intenzione era quella di trasferire al più presto i crociati in Anatolia, non prima di aver fatto giurare Ugo e Goffredo che le future conquiste, operate in Terrasanta, sarebbero state fatte in nome dell’impero di Bisanzio.

    Il giuramento ebbe luogo quasi tre mesi più tardi, il giorno di Pasqua del 1097: in questo lasso di tempo, però, si erano avvicendate trattative diplomatiche, scontri, scaramucce, incendi e perfino un tentativo di assalto della città da parte dei franchi.

    I primi crociati avevano appena attraversato il mar di Marmara, quando ai primi di aprile si presentò l’esercito di Boemondo, giunto a Costantinopoli dopo essere sbarcato a Durazzo e aver percorso l’antica via Egnazia, razziando bestiame e spogliando di viveri i villaggi che incontrava.

    Dopo una breve sosta e il giuramento di Boemondo, che preferiva ingraziarsi l’imperatore piuttosto che opporglisi, le truppe normanne vennero portate al di là del Bosforo, proprio lo stesso giorno dell’arrivo di Raimondo di Saint-Gilles.

    Il conte di Tolosa, lasciata la Francia meridionale e superato il nord Italia, era disceso lungo la costa dalmata, in un viaggio difficile per le condizioni del clima e del territorio; inoltre aveva dovuto fronteggiare gli assalti di popolazioni ostili. A Durazzo la spedizione era stata raggiunta dai soldati dell’imperatore e, sotto stretta vigilanza, aveva proseguito lungo la via Egnazia; il controllo dei bizantini, però, aveva infastidito i provenzali, che si erano spesso scontrati con la propria scorta, al punto che due nobili franchi erano stati uccisi e il vescovo di Le Puy era stato catturato. A Tessalonica, invece, i crociati avevano incendiato e razziato la città che, per aver già consegnato tutte le vettovaglie a Boemondo, non poteva soddisfare le richieste di Raimondo.

    Quest’ultimo, nel frattempo, lasciate le sue truppe intente al saccheggio, era corso a Costantinopoli chiamato per prestare il giuramento di vassallaggio nei confronti di Alessio Comneno, cosa che fece dopo una lunga trattativa e ottenendo una parziale modifica della formula.

    Mancava solamente Roberto Courteheuse che, partito dalla Normandia insieme a suo cognato Stefano di Blois, era sceso in Italia, attardandosi nel sud fino alla primavera del 1097; poi, da Brindisi, aveva attraversato l’Adriatico per sbarcare a Durazzo e, seguita la via Egnazia in compagnia della scorta imperiale, era arrivato a Costantinopoli nel maggio dello stesso anno. Come il viaggio si era svolto in piena tranquillità, anche il giuramento di Roberto, di Stefano e degli altri nobili ebbe luogo senza alcun problema o incidente.

    Espletate le formalità diplomatiche, gli ultimi arrivati raggiunsero gli altri crociati che, nel frattempo, avevano deciso di conquistare la potente città di Nicea, capitale del sultano Kilij Arslan. Dopo aver posto l’assedio per circa un mese e aver subìto ingenti perdite di uomini, il 19 giugno 1097 i capi cristiani decisero di sferrare l’assalto finale; con loro somma sorpresa, però, videro sventolare sugli spalti le insegne dell’imperatore: i turchi, nella notte, si erano arresi ai bizantini, considerati padroni migliori dei nuovi conquistatori franchi.

    Ricevute da Alessio Comneno notevoli quantità di oro e pietre preziose, a compensazione del mancato saccheggio, Goffredo ripartì in direzione sud-est. A Dorileo, grazie a errori commessi dai turchi e a un coordinamento dei cristiani, la spedizione riuscì a sbaragliare il nemico, catturando numerosi emiri e i loro tesori: questa disfatta da parte turca costituì per i franchi il lasciapassare per la Terrasanta.

    Dopo una sosta a Iconio, abbandonata dagli abitanti, il difficile superamento delle aspre montagne dell’Antitauro e una dura marcia verso sud, alla metà di ottobre 1097 i crociati scesero nella pianura del fiume Oronte, dove era situata Antiochia: una metropoli per l’epoca, con una cinta difensiva lunga dodici chilometri protetta da oltre trecentosessanta torri, dislocate su tre livelli. Proprio per questa sua potenza, dopo quattro mesi, gli assedianti erano ancora sotto le mura della città, attanagliati dalla mancanza di viveri, al punto da essere arrivati a mangiare ogni sorta di erba, gli animali da trasporto e perfino i topi.

    Boemondo era intenzionato a ottenere per sé la signoria di Antiochia; benché Raimondo e altri nobili fossero contrari, si raggiunse comunque un compromesso: egli avrebbe potuto tenere la città qualora fosse riuscito, come poi sarebbe avvenuto, a piantare le sue insegne sugli spalti nemici. Spinto da tale allettante obiettivo, il normanno riuscì a corrompere un capitano di Antiochia, di nome Firuz, il quale accettò di aprire le porte cittadine: solo grazie a questo tradimento, il 3 giugno 1098, le truppe franche riusciranno a penetrare all’interno della città, saccheggiandola e massacrandone tutta la popolazione, mentre gli uomini di Boemondo erano impegnati a innalzare i propri vessilli.

    Il nuovo principato di Antiochia, sotto il controllo di Boemondo sarà il primo possedimento occidentale in Terrasanta: insieme alle future contee di Edessa e di Tripoli, rispettivamente di Baldovino di Fiandra e dei discendenti di Raimondo di Tolosa, nonché col successivo regno di Gerusalemme, governato da Goffredo, formerà i cosiddetti Stati franchi d’Oriente, dei territori coloniali ante litteram ma privi di una madrepatria di riferimento.

    Antiochia era stata appena conquistata che i franchi furono obbligati a trasformarsi da assedianti in assediati: anche se in ritardo l’esercito di Kerbogha, atabeg di Mosul, aveva circondato la città, impedendo qualsiasi via di fuga. Fortunatamente, per rialzare il morale dei crociati, intervenne un evento miracoloso, quanto mai propizio: un pellegrino provenzale, tale Pietro Barthélemy, affermò di aver sognato che la Santa Lancia, con la quale Gesù Cristo era stato ferito al costato, si trovava sotto il pavimento della chiesa di San Pietro. Effettivamente, tra lo stupore di testimoni di specchiata fede, il pellegrino recuperò la sacra reliquia, infondendo nuova energia morale e spirituale negli assediati: la controffensiva franca di qualche giorno più tardi travolse le truppe musulmane, costringendo Kerbogha a rifugiarsi ad Aleppo.

    Salvata Antiochia grazie all’intervento divino, la spedizione crociata riprese la marcia, dividendosi in due tronconi: Goffredo proseguì lungo la costa, mentre Raimondo e Boemondo si diressero verso l’interno della regione, con l’intenzione di prendere la città di Maarat an-Numan, situata in posizione strategica. L’assedio durò solo pochi giorni, tanto che l’11 dicembre 1098 i franchi erano già all’interno delle mura, impegnati a massacrare gli abitanti e alla ricerca del bottino: le fonti arabe, esagerando, ma forse non troppo, parlano di centomila persone uccise in tre giorni.

    Anche qui, come era successo per il possesso di Antiochia, si accesero nuovamente i dissapori tra Boemondo e Raimondo, ognuno deciso a imporre la propria supremazia sull’altro; nel frattempo le truppe accampate a Maarat, messe alle strette dal freddo dell’inverno e a corto di viveri, erano costrette a cibarsi di carne umana. Questo episodio di cannibalismo, forse il più terribile di tutta l’epopea crociata, così viene raccontato da Raul de Caen, cronista al seguito di Tancredi d’Altavilla, cugino di Boemondo:

    L’alluvione ha portato con sé una terribile fame così come ha marcito tutto il grano conservato nel campo. Non è stato portato più grano da altre parti e la vittoria è ritardata. Il grano galleggia e la fame aumenta. È una vergogna riferire ciò che ho sentito ed ho imparato dagli autori di questa vergogna. Poiché ho sentito che hanno detto di essere stati costretti a mangiare carne umana per la mancanza di cibo. Adulti presi fra i gentili (pagani) erano messi in grosse pentole per cucinare ed i loro ragazzi infilati in spiedi ed arrostiti. Mentre li divoravano, i Cristiani sembravano bestie feroci, come cani che arrostivano uomini⁵.

    Appianate le divergenze con Boemondo, Raimondo prese la strada verso sud e a fine gennaio 1099 giunse sotto la cittadella curda di Hisn al Akrad, che diventerà in seguito la fortezza ospedaliera del Crac des Chevaliers. La guarnigione curda, sapendo che i nuovi arrivati erano in cerca di vettovaglie, per evitare l’assedio lasciò uscire dalla porta principale una gran quantità di bestiame, subito inseguito dai crociati che avevano abbandonato i preparativi per l’assalto. Dal canto loro, vista la confusione che regnava nel campo cristiano, con i soldati persi dietro a pecore e vacche, gli occupanti organizzarono una rapida sortita e arrivarono fino alla tenda di Raimondo, che rischiò anche di essere catturato. Intenzionati a cancellare la vergogna del tragicomico episodio, il giorno seguente i guerrieri franchi si prepararono alla conquista della rocca, ma la trovarono deserta, perché era stata abbandonata durante la notte, con tutti i viveri e un bottino considerevole.

    Riunitasi nuovamente ad Arqa nel maggio 1099, la spedizione crociata al completo conquistò la città costiera di Tortosa, dove l’Ordine del Tempio edificherà poi uno dei suoi castelli più potenti. La marcia dei franchi procedeva trionfalmente perché molti governatori musulmani erano in conflitto tra di loro; per questo preferivano arrendersi ai nuovi venuti piuttosto che ai vecchi nemici. Lo stesso emiro di Tripoli si affrettò a pagare un’ingente somma di denaro, a rilasciare trecento prigionieri cristiani e a fornire cavalcature per l’esercito, purché la città venisse risparmiata; si vociferò anche che fosse disposto a farsi cristiano qualora i franchi avessero sconfitto i fatimidi. Si tratterà comunque di una breve tregua perché qualche anno più tardi, nel 1109, Tripoli verrà conquistata dai crociati, diventando la capitale dell’omonima contea in Terrasanta.

    Ai primi di giugno del 1099, dopo lunghi anni di viaggio, dure privazioni, tra fame e sete e aspri combattimenti, i crociati erano arrivati finalmente alla penultima tappa del loro percorso: l’altura dove si trovava il villaggio di Nabi Samwil, con la tomba del profeta Samuele.

    Dalla sua sommità essi poterono vedere così, per la prima volta, la tanto desiderata Gerusalemme: la gioia fu tale che la collina venne chiamata il Monte della Gioia, Montjoie o Mons Gaudii, nomi con cui sarà poi conosciuta da tutti i viaggiatori, armati o meno, diretti in Terrasanta.

    La presa della Città Santa

    Passato il momento dell’emozione, si tornò subito alla fase operativa: il 7 giugno 1099 venne posto l’assedio alla Città Santa, ma fu chiaro da subito che non sarebbe stata presa in tempi brevi. Il motore religioso, che aveva animato i pellegrini armati nel corso del viaggio, continuò a motivare gli assedianti, i cui comandanti cristiani si recarono in pellegrinaggio al Monte degli Ulivi, dove un vecchio asceta comandò loro di lanciare l’attacco decisivo, perché quella era la parola di Dio.

    La mattina seguente i crociati, incitati dalle parole dell’eremita, si lanciarono all’assalto delle mura di Gerusalemme, riuscendo anche a superare le difese del lato settentrionale. Ma le scale e le macchine d’assedio non erano sufficienti per proseguire nella conquista e così, dopo ore di combattimento, gli assalitori furono costretti a ripiegare.

    Evidentemente la parola di Dio, senza il dovuto supporto di mezzi militari, era insufficiente.

    Passarono così settimane dedicate alla costruzione di torri d’assedio, mangani, trabucchi, catapulte, utilizzando, in mancanza di legname, anche gli alberi delle navi genovesi alla fonda nel porto di Giaffa.

    La lentezza dei lavori, il caldo soffocante del vento di scirocco, la considerazione di essere arrivati a vedere la Città Santa senza poterci entrare, provocarono numerose defezioni tra le fila dell’esercito. Per arginare questo stillicidio di uomini, ma forse anche per la notizia che un forte contingente di musulmani era partito dall’Egitto per liberare Gerusalemme, il 6 luglio i principi cristiani decisero di lanciare l’ultimo assalto.

    Il clero però volle che i crociati si purificassero nell’anima e si mortificassero nel corpo prima di entrare nella città di Cristo, perché solo così, nel tempo di nove giorni, sarebbero riusciti nel loro intento. Per tre giorni venne osservato un rigorosissimo digiuno, poi l’8 luglio si mosse la solenne processione intorno alle mura della città: i vescovi e i prelati, con croci e reliquie, i nobili, i soldati, i semplici pellegrini, sfilarono a piedi nudi sotto gli occhi divertiti e meravigliati dei musulmani affacciati agli spalti. La carica mistica ricevuta fu come nuova linfa nei cuori dei crociati che, nel giro di pochi giorni, riuscirono a completare la costruzione delle loro macchine.

    Nella notte tra il 13 e il 14 luglio cominciò l’assalto conclusivo, e per tutto il giorno seguente l’impegno fu quello di spostare le grandi torri di legno verso la cinta muraria, cercando di evitare che venissero incendiate dal fuoco greco o distrutte dal lancio delle catapulte musulmane.

    La mattina del 15, da una delle torri i crociati riuscirono a passare sugli spalti del lato settentrionale, conquistando un settore delle mura. Questa piccola testa di ponte permise ad altri soldati di arrampicarsi sulle scale di legno, entrare all’interno e aprire le porte cittadine, premettendo l’ingresso del resto dell’esercito rossocrociato.

    Iniziava così la conquista della Città Santa, conquista che avvenne, però, con modalità lontane dal sentimento cristiano e dallo spirito di purificazione che aveva motivato la spedizione voluta da papa Urbano II a Clermont: i franchi si riversarono tra le vie della città saccheggiando le case, uccidendo e violentando chi incontravano, musulmani o cristiani, senza distinzione.

    L’orrore della razzia è nelle parole del chierico e cronista Raimondo di Aguilers, cappellano del conte Raimondo di Tolosa:

    Per le strade e le piazze si vedevano mucchi di teste; mani e piedi tagliati; uomini e cavalli correvano tra i cadaveri. Ma abbiamo ancora detto poco: veniamo al Tempio di Salomone, nel quale i saraceni erano soliti celebrare le loro solennità religiose. Che cosa vi era avvenuto? Se diciamo il vero, non saremo creduti: basti dire che nel Tempio e nel portico di Salomone si cavalcava col sangue all’altezza delle ginocchia e del morso dei cavalli. E fu per giusto giudizio divino che a ricevere il loro sangue fosse proprio quel luogo stesso che tanto a lungo aveva sopportato le loro bestemmie contro Dio⁶.

    Il massacro continuò ininterrottamente per due giorni, fino a quando non si trovò più musulmano da trucidare, né luogo da depredare, né oggetto da razziare. Secondo lo storico arabo Ibn alAthir scrive che dalla Cupola della Roccia, ossia la moschea di Omar posta sulla Spianata del Tempio, i franchi

    predarono più di quaranta candelabri d’argento, ognuno del peso di tremilaseicento dramme, e un gran lampadario d’argento del peso di quaranta libbre siriane; e dei candelabri più piccoli centocinquanta d’argento e più di venti libbre d’oro, con altre innumerevoli prede⁷.

    Poi, l’ebbrezza della vittoria cominciò lentamente a scemare e molti crociati decisero di aver compiuto il voto di liberare il Santo Sepolcro, fatto al momento della partenza della spedizione.

    Iniziarono così le prime partenze, i primi rientri in patria. Rimasero solo coloro che avevano considerato la crociata come un’occasione per rifarsi una nuova vita in quella lontana terra di conquista, come molti nobili, oppure coloro che in patria avevano conti da regolare con la giustizia, come ladri, malfattori, omicidi. Questa riduzione giornaliera di uomini determinò un problema di non facile soluzione: senza soldati non si poteva garantire il mantenimento dei territori conquistati con tanta fatica. Le poche milizie al soldo dei signori rimasti, infatti, riuscivano appena a difendere pochi castelli e le città più importanti, mentre il resto della Terrasanta rimaneva in mano musulmana. Le strade, soprattutto, erano infestate da bande di predoni che assalivano le carovane di mercanti, impedendo così i collegamenti tra i vari presìdi cristiani.

    Un percorso importante, e pericoloso al tempo stesso, era quello che da Gerusalemme arrivava al porto di Giaffa, grande scalo marittimo dove attraccavano le navi provenienti dall’Europa. Questo itinerario, all’altezza di Ramleh, incrociava quello dell’antica Via Maris, che collegava Il Cairo, in Egitto, con Damasco, in Siria. In particolare, il tratto da Ramleh alla Città Santa era costellato di molte grotte, nelle quali si nascondevano i briganti pronti a uscire al momento opportuno.

    Altro punto critico era la località di Lydda (oggi Lod), a circa sei miglia dal porto di Giaffa. Le sue numerose sorgenti costituivano una piacevole occasione di sosta per viaggiatori e pellegrini, che potevano anche visitare la tomba di san Giorgio, uccisore del drago e patrono della cavalleria.

    Però le carovane in transito si trovavano spesso alla mercé degli egiziani della vicina città di Ascalona: una situazione del genere andava risolta al più presto.

    Ci pensarono alcuni cavalieri franchi che, sotto il comando di Hugues de Payns, decisero di disporre un servizio di pattuglia lungo la strada, scortando e proteggendo convogli e carovane. Per dare al loro gruppo una veste ufficiale, ma anche organizzativa, essi si strinsero in una fratellanza militare, con lo scopo dichiarato di «difendere per quanto possibile i percorsi e le strade maestre, con particolare riguardo per la sicurezza dei pellegrini, contro le imboscate di ladri e assalitori»⁸.

    Iniziava così la sua attività il primo nucleo di cavalieri, i futuri templari, che riscosse subito il favore dei cristiani in Terrasanta, i quali vedevano in loro una maggiore sicurezza negli spostamenti e la garanzia di una vita migliore.

    Le origini a Gerusalemme

    La costituzione della piccola confraternita era nata dall’idea di alcuni cavalieri di continuare a servire l’ideale crociato della prima spedizione, ossia liberare e difendere i Luoghi Santi e coloro che vi si recavano in visita. Molti dei cavalieri che avevano partecipato alla prima crociata, dopo essere rientrati in patria, erano poi tornati nuovamente in Terrasanta spinti dalla necessità morale di completare il voto crociato espresso anni prima.

    Lo stesso Hugues era tornato più volte in Oriente fino al 1114 quando, dopo aver sistemato la sua situazione patrimoniale e familiare in Champagne, si era stabilito a Gerusalemme, insieme al suo signore di sempre, il conte Ugo di Champagne, che successivamente si era fatto templare.

    L’attività principalmente militare e guerriera, però, era mitigata dalla considerazione di compiere una missione altamente spirituale, ossia quella di difendere i luoghi che avevano visto la Passione e la Morte di Gesù Cristo. Nella considerazione di seguire questo alto ideale i templari avevano ripreso la teoria della guerra giusta, formulata dal vescovo Agostino d’Ippona che, nel IV secolo, aveva scritto:

    Giuste sono le guerre che vendicano le ingiustizie, quando un popolo o uno Stato, al quale deve essere fatta guerra, non ha punito le iniquità dei suoi o non ha restituito quel che è stato sottratto attraverso queste ingiustizie⁹.

    Il concetto del combattimento, non come motore della guerra di conquista, ma come raggiungimento della pace, già sviluppato da Agostino, era stato successivamente ripreso con la grande riforma della Chiesa dell’XI secolo, voluta da papa Gregorio VII. A seguito di ciò molti cavalieri si erano uniti in fraternitates, che si prefiggevano di garantire la pace durante le sempre più numerose tregue imposte dai vescovi per portare la tranquillità in varie zone d’Europa. Questi cavalieri, abbandonando l’aristocrazia da cui provenivano, si mettevano al servizio di Pietro, ossia della Santa Sede, divenendo così miles Petri, al contrario dei monaci, ossia coloro che agivano all’interno della Chiesa stessa, che nell’alto Medioevo venivano invece chiamati miles Christi. Entrambi i termini facevano comunque riferimento a un combattimento, materiale e spirituale, contro il male e il peccato, sotto qualunque forma questi si manifestassero.

    Su queste forti basi spirituali e morali, la nuova cavalleria di Hugues nasceva con l’intento di volersi distinguere dalla massa dei brutali e violenti guerrieri che avevano conquistato Gerusalemme pochi anni prima. Una nuova cavalleria che, proprio per la missione da svolgere, doveva prevedere non solo l’esercizio delle armi per combattere fisicamente il male impersonato dai musulmani, ma anche, e soprattutto, quello delle preghiere per contrastare il male su un piano spirituale.

    Per questo motivo l’iniziale fratellanza militare si trasforma quasi subito in una confraternita laica, costituita da cavalieri che si adeguano alle regole dei canonici del Santo Sepolcro, e che fanno voto di castità, povertà e obbedienza nonché quello di difendere i Luoghi Santi e le strade che a essi conducono.

    Le origini di questa affascinante avventura ci vengono tramandate dal vescovo di Acri, Jacques de Vitry, che descriveva la Terrasanta della fine del XIII secolo:

    Alcuni cavalieri amati da Dio e ordinati al suo servizio rinunciarono al mondo e consacrandosi al servizio del Cristo, si strinsero in una professione di fede e con voti solenni, pronunciati davanti al patriarca di Gerusalemme, a difendere i pellegrini contro briganti e predatori, a proteggere le strade e a combattere per il Re Sovrano, vivendo come canonici regolari, nell’obbedienza, nella castità e nella povertà. I più importanti tra loro erano due uomini venerabili e amici di Dio, Hugues de Payns e Godefroy de Saint-Omer. All’inizio furono solo nove a prendere una così santa decisione. Vestendo gli abiti che i fedeli davano loro in elemosina per nove anni servirono in abiti secolari. Il re, i suoi cavalieri e il signore patriarca pieni di compassione per questi uomini

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