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Il re ne comanda una
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E-book302 pagine4 ore

Il re ne comanda una

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Info su questo ebook

Stelio Mattioni ha «il potere di farci entrare in un mondo tutto suo, che è il segno dello scrittore vero» scrisse Roberto Bazlen, che volle con sé l’autore alla casa editrice Adelphi negli anni Sessanta. E il mondo di questo romanzo è la casa dove Tina trova rifugio assieme alle sue due bambine quando abbandona il tetto coniugale: un microcosmo conflittuale, perfettamente chiuso, che assume presto la forma di un harem governato da un dispotico padrone che sottomette in maniera sfuggente, ma ineludibile, la corte di donne che lo abita, e dove tutto ruota attorno alla chiave di una stanza, simbolo di un complesso rito di competizione erotica e rinuncia alla propria libertà.
Nella prima edizione del libro (1968), Mattioni fu presentato come un «favolista irreprimibile», che «trasforma qualunque vicenda nella geometria della favola». Ed è così: l’autore parte da un contesto ordinario – una casa, un giardino inospitale, un laboratorio misterioso – e poi pian piano lo smantella, lo deforma per mezzo delle convulse spinte passionali dei personaggi, dei loro sogni sottesi, delle ambizioni mal riposte, delle voglie di rivalsa o di autodistruzione, impedendoci alla fine di stabilire se stiamo leggendo una favola grottesca o se grottesco è il mondo reale e l’autore lo ha soltanto messo a nudo.
Prefazione di Alcide Pierantozzi.
LinguaItaliano
EditoreCliquot
Data di uscita16 mar 2019
ISBN9788899729257
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    Il re ne comanda una - Stelio Mattioni

    Biblioteca

    6

    Stelio Mattioni

    Il re ne comanda una

    Prefazione di Alcide Pierantozzi

    Titolo: Il re ne comanda una (1968)

    Autore: Stelio Mattioni

    Questo libro è pubblicato secondo accordi presi con i legali detentori dei diritti di pubblicazione.

    Progetto grafico di Cristina Barone

    Illustrazione di copertina di Riccardo Fabiani

    www.riccardofabiani.com

    isbn: 9788899729257

    Prima edizione: marzo 2019

    © 2019 Cliquot edizioni – Roma

    www.cliquot.it

    cliquot@cliquot.it

    Prefazione

    Mattioni è stato uno scrittore molto apprezzato in vita, poi totalmente dimenticato da tutti.

    Dovrebbe essere l’eccezione che conferma la regola secondo la quale un grande scrittore viene riconosciuto tale solo dopo morto, ma questa, fortunatamente, è una regola che non esiste. A ben guardare, sono molti di più i casi in cui è avvenuto il contrario.

    Roberto Bazlen, che l’aveva conosciuto a Trieste all’inizio degli anni Sessanta, lesse alcuni suoi testi e lo caldeggiò in Einaudi, dove fece uscire una raccolta di racconti ormai introvabile, Il sosia. Poi lo portò con sé in Adelphi.

    Bazlen era rimasto colpito dalla sicurezza della sua mano, dalla bellezza del suo italiano, perché è questa la prima cosa che risalta dalle sue pagine: Mattioni scrive divinamente. La sua lingua è schietta, come quella di un thriller di oggi, ma non troverete una parola fuori posto, una metafora poco efficace, un dialogo noioso, non troverete nemmeno un passaggio confuso.

    Basta leggere le prime due pagine di questo libro per capire come si costruisce il setting di una scena che funziona. C’è una donna sul tram con le figlie, e quando dice al controllore che le chiede i biglietti che la bambina più piccola non è tenuta a pagare, perché ha tre anni, l’altro risponde: «Tre anni? Con quel muso da vecchietta?». È il primo di molti elementi inquietanti che fanno da sfondo alla storia di questa donna triestina che se ne va di casa per sfuggire alle grinfie di un marito violento e alcolizzato.

    Il problema è che va a infilarsi in un ambiente ancora più angusto e spaventoso, presso il palazzo di un misterioso creditore di suo marito, dal quale lei e le figlie sembrano destinate a non uscire mai più.

    Come anche in Vita col mare, e soprattutto in Sisina e il Lupo, è dalla loro posizione subalterna che le donne di Mattioni rivelano il loro potere incatenante sul maschio, molto spesso chiamato padrone; ma sarebbe troppo facile leggere in questo una riflessione di carattere politico. Mattioni osserva sempre l’inosservato osservabile, perciò è come se ci suggerisse di guardare due volte alle spalle dei personaggi che mette in campo.

    Mi è capitato spesso di consigliare i suoi romanzi ai ragazzi delle scuole di scrittura creativa, ma anche a molti amici sceneggiatori di cinema. Volete imparare come si organizza il setting di una scena? Volete imparare a raccontare cose che spaventino davvero? Leggete Il re ne comanda una. «Questo qui è uno scrittore misterioso sul serio» diceva di lui Calvino.

    La prima volta che Tina arriva al palazzo di Lui, si lascia incantare dal numero incalcolabile di stanze e di vani, e dalla corte di personaggi, donne soprattutto, che lo abitano da chissà quanto tempo, sentendosi in qualche modo al sicuro. «Da domani del padrone dovrà occuparsi lei» le dice una vecchia serva. «Come sa e come può; e naturalmente, Lui troverà da ridire su tutto quello che farà. Perché non immagina nemmeno quanto gli piaccia essere ubbidito a bacchetta, anche nei minimi particolari. Lo chieda agli altri, e vedrà». L’improvvisa carica sessuale contenuta nell’avvertimento trascina il lettore, da questo punto in poi del romanzo, in una dimensione grottesca che sembra seguire un rituale magico preciso, un rapporto di eterno scambio tra la femmina e il maschio imposto da un’autorità perversa, a tratti risibile, che continuamente viene messa in discussione, ma che rischia sempre di fare scacco.

    Questo libro ci perturba e inquieta anche per come Mattioni è in grado di aumentare il carico dell’ironia, che a volte diventa comicità sguaiata.

    Come nel Mine-Haha di Wedekind, è dalla reclusione che le donne devono passare per raggiungere la libertà, anche se l’impressione che si ha leggendo Il re ne comanda una è di rincorrere un’avventura, sì, ma sempre sotto la protezione di una legge. Che non è la legge del maschio, ma è quella del dio.

    A questo punto fa sorridere immaginarsi i fogli dattiloscritti di Mattioni accanto a quelli di Nietzsche, nella stessa valigia di Roberto Bazlen.

    Con Nietzsche la cultura europea, che Mattioni assorbe dalla posizione privilegiata di Trieste, la smette di considerare indiscutibile il riparo-palazzo della tradizione occidentale. Ed è come se Mattioni avesse compreso tutto lo squilibrio metafisico della sua epoca, e lo raccontasse senza mai descrivere niente. Lo stesso accade nelle fiabe, dove per dire una cosa importante non la si dice mai. Ci si limita ad accennarla.

    Alcide Pierantozzi

    Stelio Mattioni

    Il re ne comanda una

    I

    Tina non distolse gli occhi scuri dal tram, finché non lo vide sparire dietro la curva. Allora afferrò saldamente Millina, prese la valigia e imboccò via Roma, soffermandosi appena all’incrocio ad esplorare, ancora furibonda. La via lunghissima e stretta appariva malamente illuminata e deserta.

    «Ha detto proprio una nana» si sfogò ad alta voce. «È il colmo!» La sua voce risonò nella notte.

    Millina al suo fianco sbandava ubriaca di sonno, Pupetta la seguiva leggera come una canna, facendo ondeggiare il gonnellino.

    «Passa avanti» le ordinò, senza voltarsi. «Dicono di tua sorella che è una nana, e tu non solo non ti scomponi, ma addirittura ti diverti, ridi…»

    Poco prima, sul tram, era sorta una discussione a proposito del biglietto per la piccola, e Tina non si era ancora rassegnata ad averlo dovuto alla fine pagare. Col bigliettaio, a Sant’Anna, era andata liscia. Il bigliettaio aveva osservato Millina che si era fermata accanto alla ruota del freno a mano, e aveva chiesto:

    «La bambina non paga?».

    «Non vede che è piccola?» lei aveva ribattuto. E quello si era limitato a fissarla con occhi imbambolati.

    Ma col controllore, più tardi, in via dell’Istria, era andata diversamente. Il controllore le aveva rivolto la stessa domanda, non si era accontentato della stessa risposta, e anzi s’era dato subito tanto da fare a chiarire il proprio punto di vista ch’era quasi sembrato che da un biglietto di corsa semplice dovessero dipendere le sorti dell’azienda tranviaria, o quelle della giustizia stessa.

    «È bassa, ma ha la sua età; si vede. Vogliamo controllare?»

    «Che controllare, se non ha mai pagato!»

    «Non è una ragione sufficiente. La faccia andare alla misura e vediamo.»

    Millina dormiva.

    «Non pretenderà che la svegli per una cosa del genere, spero.»

    «Paghi il biglietto e non sarà necessario.»

    «Io no, che non lo pago. Non l’ho mai fatto e non vedo perché oggi, per lei, dovrei fare un’eccezione. Una bambina di tre anni…»

    «Tre anni? Con quel muso di vecchietta?»

    Non era stata un’offesa perché Millina ne aveva quasi sei, ma Tina, che voleva risparmiare le cinquanta lire e diventava una furia ogni qual volta le toccavano le sue bambine, si era arrabbiata ugualmente.

    «Vecchietto sarà lei: lei e i suoi parenti prossimi; se poi s’illude di potermi offendere impunemente, perché io… Non pago e basta.»

    «Scenda, allora. Bigliettaio!»

    Erano arrivati col tram in piazza Goldoni, e per Tina, scendere in quel momento, non avrebbe significato altro che attraversare a piedi mezza città, trascinandosi dietro le bambine e la valigia. E fosse bastato. Attraversare la città con alle spalle il pericolo incombente di una motoretta scatenata al loro inseguimento, e che da un momento all’altro poteva raggiungerle e fermarle. No no: non doveva scendere, non voleva essere fermata. E non perché temeva di trovarsi faccia a faccia con suo marito, ma perché, allontanatasi da casa senza alcuna spiegazione, che cosa avrebbe potuto dirgli su due piedi, fra l’inevitabile pianto delle figlie e la gente curiosa?

    «Abbiamo pagato regolarmente il biglietto e non scendiamo.»

    «Lei e l’altra; ma questa? Vuole che scarichiamo lei sola?»

    «Una bambina!»

    «Che bambina e bambina: se non è una nana, poco ci manca. Questa, fra qualche anno, anche bassa di statura com’è, di sicuro si trova il fidanzato.»

    Pupetta era scoppiata a ridere.

    «Non si vergogna di parlare a questo modo di mia figlia? Ho dei testimoni e…»

    Ma in verità, sul tram, a quell’ora così tarda non c’erano che loro, e perciò Tina non aveva potuto fare nient’altro che sfogarsi a tirare i capelli a Pupetta, che continuava a ridere come un’incosciente.

    Aveva dovuto svegliare Millina, portarla con gli occhi chiusi al controllo dell’altezza, vedere che superava il metro di almeno mezza testa, e sborsare le cinquanta lire del biglietto. Non senza pensare furiosamente al modo di fargliela pagare, a quello sbirro. Gli aveva intimato:

    «Mi dia la sua matricola».

    E lui s’era messo a ridere.

    Sì, perché quello non sapeva che fra poco qualcuno si sarebbe finalmente occupato di lei. Qualcuno che era qualcuno, finalmente. Mica un marito come Franco! Franco, quando era ubriaco, e lo era quasi sempre, si poteva prendere a schiaffi e a pedate.

    La notte, intorno, si adagiava stanca sul suo letto di tegole e selciato. E stanca appariva anche la città di portarla. Poiché in quella sua parte, che di giorno era percorsa da un fiume continuo di gente e di macchine, alle dieci di sera sparivano tutti chiudendo porte e finestre, e la città, anch’essa, sarebbe volentieri sparita, dalle lampade in su, in un cielo dalle porte di piombo, ma non poteva, e allora, intrappolata e indecisa, s’ingrugnava, solitaria. E Tina, che non sapeva, sentendo tutto il peso di quella solitudine, lo scambiava per una minaccia.

    Tina non si era mai trovata sola in giro a quell’ora, tantomeno così lontana da casa e in quella parte della città, e perciò allo scoprire che lì non era come aveva sempre creduto, si sentiva ancora più inquieta. Da lassù, in periferia, da Sant’Anna, si era da tempo abituata a considerare il centro tutto un richiamo festoso, animato, di luci e di colori; ma che festa era quella poi se, proprio la sera in cui lei aveva pensato di ubbidire al suo richiamo, si era come spenta e svuotata, quasi che tutti l’avessero abbandonata per fuggire altrove? Faceva caldo, poteva darsi che la gente fosse andata per qualche ora in collina, magari a Sant’Anna, dove sui poggi c’erano delle osterie con giardino, dove si respirava un po’ meglio perché c’erano gli alberi, i prati e le finestre spalancate, ma… Possibile che tutti avessero avuto la medesima idea? Guardava i vetri chiusi dei balconi, impolverati, le saracinesche abbassate, gli angoli ai crocicchi come sentinelle, le prospettive delle laterali segate, dirette verso altre facciate di case mute e lontane, e non si sentiva tranquilla. E se invece a quell’ora la gente fosse fuggita, o tenesse sbarrate porte e finestre perché in giro, a ogni istante, si rischiava di scontrarsi con un nemico invisibile e micidiale? Lei non temeva nulla e nessuno, di solito. Ma quando ci si sente soli, e intorno a noi c’è qualcosa di strano e impalpabile che non si riesce ad afferrare, allora è come… Reagì:

    «Chi ti ha insegnato a camminare in quella maniera schifosa?» gridò a Pupetta, che la precedeva di qualche passo ancheggiando nel gonnellino.

    «Ma ma-amma!» protestò Pupetta, strascicando come il solito le parole.

    «Tirati su i capelli.» Li portava sciolti fin oltre le spalle. «Ti rifarò le trecce, altro che comprarti le calze di seta!»

    «Uffa, ma-amma!» fece Pupetta. «Me le avevi prome-esse.»

    «Se fossi stata promossa. Ma tu? Asina, a tredici anni ancora in prima. Scarpe basse e calze corte finché non avrai finito la scuola.»

    Aveva alzato la voce, si guardò in giro temendo di aver attirato l’attenzione di qualche malintenzionato ma, a perdita d’occhio, non si vedeva nessuno. Millina continuava a dormire in piedi. Allora si fermò.

    «Guarda che via è questa» chiese a Pupetta.

    «Via Galatti.»

    «Mi sembrano tutte uguali, queste vie. Dove sarà via Valdirivo?»

    «Più avanti. Vuoi che vada a vede-ere?»

    «No. Se ti muovi dal mio fianco…»

    Davanti a loro si apriva una piazza deserta, tra facciate austere di alti edifici governativi, con due giardinetti laterali e in mezzo una fontana sulla quale dei grossi figuri di pietra, nudi e forzuti, sorreggevano con grande dispendio di forze una bianca conchiglia. In giro, non un sussurro d’acqua o di foglie.

    «Mi fanno impressione» fece Pupetta, arricciando il naso. Tina la raggiunse con uno schiaffo:

    «E allora non guardare». Osservava in tralice quelle nudità esagerate, e si sentiva a sua volta intimidita.

    «Ma ma-amma!» protestò ancora Pupetta.

    Allo schiaffo, Millina si era svegliata.

    «Mamma, dove andiamo?» esordì. Tina le accarezzò la testa:

    «Presto siamo arrivate».

    «Dove? Perché non ritorniamo a casa? Ho sonno…»

    «Ha so-onno» ghignò Pupetta. «Non si è neanche accorta che stiamo fuggendo. Che stupida.»

    «Tu» la sgridò nuovamente Tina «sta’ zitta. Bestia! Lascia in pace tua sorella».

    «È vero che stiamo fuggendo?» piagnucolò Millina, mezzo addormentata.

    «Ma no; è che ho trovato un lavoro e devo… e dobbiamo…»

    Tina, sempre più scoraggiata, si strinse al fianco la piccola e, raccolta la valigia, riprese il cammino, questa volta senza più voglia di parlare. Era chiaro che le bambine si stavano facendo grandi. Sentiva gli occhi brillanti di Pupetta su di sé e le veniva da piangere. Ma in fondo che cosa doveva spiegare? E a che pro? Quelle due bambine erano sue figlie, e ai figli non si deve rendere conto di nulla. I figli devono solo ubbidire.

    Attraversarono la piazza, trovarono via Milano che non differiva per nulla da via della Geppa o da via Galatti, e arrivarono in via Valdirivo. Più oltre, continuando, avrebbero potuto incontrare via Torrebianca, via Machiavelli, via Rossini, chissà quante altre vie tutte uguali, ma loro non proseguirono, si fermarono proprio in via Valdirivo. In via Valdirivo 16.

    Entrando, tuttavia, sbagliarono direzione, la presero da destra, mentre il sedici era a sinistra.

    «Guarda bene: dev’essere una casa bassa, con al primo piano un poggiuolo in ferro battuto, e sopra il portone una testa.»

    «Che testa?» chiese Pupetta stordita. Millina camminava e dormiva.

    «Una testa. Una testa d’uomo coi baffi.»

    «Che uomo?»

    Tina accelerò il passo, trascinandosi dietro le figlie.

    Che testa, che uomo. Ecco cosa voleva dire essere madre di due figlie insensibili come mattoni. Che testa? Che uomo? E pensare che si trovava in mezzo alla strada, per loro. Piangeva. E pensare che aveva sacrificato tutta la sua vita, per loro. Ah, ma d’ora in poi avrebbero visto! Erano delle ingrate, non altro, e quindi era ora di finirla: d’ora in poi voleva avere anche lei la sua parte. Che, era di ferro lei?

    Ritornarono sui loro passi, tutte sudate, e Millina, che aveva dovuto svegliarsi, si guardava intorno senza capire.

    «Ecco, è qui» avvertì Pupetta, arrestandosi.

    «Il sedici?» domandò Tina, tirando su con il naso.

    «Sì.»

    C’era una testa d’uomo sopra il portone, sotto il poggiuolo di ferro, ma altre ne sporgevano dai portoni delle case di fronte, da sopra i magazzini, da sotto altri poggiuoli, e tutte sembravano talmente uguali mentre guardavano avanti a sé con degli occhi senza pupilla, che Tina domandò un’altra volta.

    «Ma è proprio il sedici, questo? Sei sicura?»

    «Si-ì» rispose Pupetta. Tina si trattenne a stento dal darle un altro schiaffo.

    «Guarda se c’è la targhetta col suo nome.»

    «Che nome?»

    Tina esitò. La umiliava il non saper far tutto da sé, e più ancora di dover confessare a sua figlia, come fosse un peccato, che conosceva il nome di quell’uomo.

    «Guarda, non c’è un nome?» insistette. «Leggi.»

    Provava il portone, ma il portone era chiuso.

    «Or-lan-do» sillabò Pupetta.

    La casa era buia e silenziosa, la strada deserta, ma al suono di quel nome qualcosa come un grosso autocarro sembrò passare all’impazzata, e Tina, con il batticuore, fu costretta a sedersi. Andò a sedersi sul bordo del marciapiedi con la testa fra le mani e, non sapendo neanche lei per qual ragione, si mise a pensare alle faccende di casa.

    Ancora sei rate da pagare: tre per la macchina da cucire, due per la radio, una per i mobili di cucina. Regolato l’affitto, restava la bolletta del gas. Ma Franco l’avrebbe pagata? Da quando aveva trovato il modo di mettersi in sovvenzione quando voleva, era lui che di solito s’incaricava dei conti, ma spesso, invece di saldarli, si fermava per strada, all’osteria. Vino e carte. In sovvenzione, col venti per cento in meno, e di ritorno dall’osteria a notte inoltrata e senza un soldo, a svegliarla ancora, a pretendere che stesse alle sue voglie imprecise, o che andasse a scopare la cucina. A gridare:

    Questa casa è un porcile. Alzati, su! Non mi sono sposato con te per vederti dormire.

    E lei allora a picchiarlo di santa ragione, gridando, mentre le bambine piangevano per lo spavento e i vicini protestavano.

    Ancora sei rate da pagare, più il debito grosso. E tutto questo, dopo quindici anni di matrimonio tirati avanti coi denti.

    Ricordava fra l’altro di aver lasciato a mollo una parte della biancheria, e si crucciava pensando che nessuno l’avrebbe lavata e che, in acqua, col tempo, sarebbe andata in malora.

    «Mamma, che hai? Stai male?»

    Accarezzò la testa di Millina. A lavare la biancheria avrebbe mandato Pupetta, perché lei non avrebbe potuto far altro che pensare a pagare, e a pagare il più presto possibile. Ma pagare come e perché, se, per ben meno di un debito così grosso, aveva tribolato tutta la vita?

    «Che hai? Che hai?» insisteva Millina. La prese fra le gambe, in grembo. «Perché non ritorniamo a casa? Ho sonno.»

    «Ora dobbiamo andare da un signore» le sussurrò. Ma non aveva voglia alcuna di levarsi dal marciapiedi.

    Quel signore era venuto per Franco, non lo aveva trovato in casa, e in seguito era ritornato, ma sempre in sua assenza, per parlare con lei. Per parlare dei quattrini che gli dovevano, si capisce, mai d’altro, ma anche in modo che dovesse capire tutto il resto. E insistendo tanto, che un giorno, vedendo che lei non si moveva, si era perfino deciso a farle una proposta precisa. Le aveva detto: In via Valdirivo 16, una casa bassa con una testa sopra il portone, sotto un poggiuolo di ferro. Venga da me quando vuole. Anche di notte, se vuole. Troveremo il modo di risolvere questa faccenda.

    Sempre serissimo, s’intende, senza lasciar trapelare nulla delle sue intenzioni, ma in modo da farle capire l’antifona anche se non voleva. Proprio così. Perché, altrimenti, avrebbe continuato a dare a Franco dei soldi, e poi sarebbe venuto a dirglielo ogni volta ripetendo la medesima frase? In via Valdirivo 16, una casa bassa con una testa sopra il portone, sotto un poggiuolo di ferro.

    La strada deserta, incassata fra gli alti muri delle case, pareva di ferro. Lo stesso colore, la stessa freddezza metallica. L’asfalto, illuminato dall’alto, non rivelava una macchia, una carta.

    E lei era lì, con le bambine, in condizioni da doversi decidere: o su, o a casa di nuovo. A casa impossibile. Ma anche su…

    «Suono?»

    Trasalì, si volse e vide Pupetta con il dito alzato.

    «No» scattò «tu no. Che ti viene in mente?». E perché non lo facesse, balzò in piedi e andò a scrollarla con tutta la sua forza: «Sempre pronta a fare ciò che non si deve, invece di studiare. Ma di chi sei figlia, tu, per essere nata così storta? Finirò per metterti in collegio dalle suore». L’aveva afferrata per i capelli, infuriata.

    «Ma ma-amma, mi fai male!»

    «Io t’ammazzo; capisci?»

    «Sì, ma lasciami: mi fai male.»

    «Non devi fare nulla di testa tua. Hai capito che non devi?» Le scrutava il viso fanciullesco, arrossato e, trovandole gli occhi asciutti e sulla bocca una smorfia di dolore, a poco a poco si calmò.

    «Devi ubbidirmi, a tutti i costi. E specialmente d’ora in poi. D’ora in poi, tutte e due dovrete comportarvi come si deve, perché saremo fra gente estranea.»

    «Ma ma-amma, cosa ho fatto di male? Volevo suonare il campanello.»

    «Lo so» fece Tina, con un brivido. «Ma d’ora in poi non dovrete far più nulla senza il mio permesso; perché non saremo più a casa nostra.» Le afferrò per le spalle, le guardò: «Mi raccomando a voi, se mi volete bene». Le baciò: «Mi raccomando…».

    Andò a premere il pulsante, con forza, e nella casa si udì uno squillo in lontananza.

    «Mamma, potrò andare subito a letto?» chiese Millina.

    Pupetta ghignò: «Che marmotta. Io credo che questa notte non riuscirò a chiudere gli occhi, per la novità. Sai che questa è la prima volta che dormiamo fuori casa? Ti rendi conto?».

    «E papà?» chiese ancora Millina.

    Allo squillo non era seguito alcun rumore, e Tina premette di nuovo il campanello. Una, due, tre volte di seguito, in modo da svegliare tutti, ma… Sopravvenne un silenzio sbigottito.

    «Sta’ a vedere che non c’è nessuno e che dovremo andare all’albergo» fece Pupetta.

    «All’albergo no» protestò Millina «io non ci vengo all’albergo. Voglio andare a casa, ho sonno».

    «Volete tacere?»

    Si udiva un ronzio e una voce che, dal di dentro, stava chiedendo qualcosa. Tina avvicinò l’orecchio al portone.

    «Chi è?» chiedeva qualcuno da molto lontano.

    «Amici» rispose. Le bambine si erano fatte attente.

    «Ma chi? Mi deve dire il suo nome.»

    «Tina.»

    «Va bene. E poi?»

    Disse il proprio cognome.

    «Che cosa vuole a quest’ora?»

    «Parlare col signor…»

    «Come?»

    «Orlando!» gridò Tina.

    «Non è poco» fece la voce di là. «Qual è il motivo?»

    Tina non rispose. Non trovava che cosa rispondere. O almeno non sapeva come farlo in poche parole, dalla strada, a voce alta, affidandosi all’eco, rivolgendosi a qualcuno che non conosceva. Ma che cosa si voleva da lei, per farla entrare? Il signore era già al corrente di tutto.

    Riprese la voce, insistente:

    «E allora?».

    Tina si fece forza: «È necessario, il motivo?».

    «Ma certo! Non lo sa che…?» Una pausa. «E allora? Che cosa devo riferire?»

    «Gli dica… che sono qui per il debito.»

    «Ah, se è per un debito, ritorni domattina.»

    «No» fece Tina.

    «Come no. Si rende conto che questa non è l’ora per venire a trattare di affari col padrone? Ritorni domattina.»

    «No!» ripeté Tina.

    «Ma… io non so che dirle.»

    «Senta… Lui è a conoscenza di tutto. Gli dica che sono venuta come eravamo d’accordo.»

    «Se ha un appuntamento, è un’altra cosa. Ma ce l’ha davvero? Non mi faccia…» La voce esitava. «Sa che ora è? Non può proprio rimandare?»

    «È impossibile. Glielo dica.»

    «Va bene, aspetti.»

    Cessato il ronzio, Tina si staccò dal portone con la febbre, decisa a entrare. Non aveva alternative. Da qualche parte, ovunque, ci poteva essere una motoretta che la stava cercando, che da un momento all’altro poteva arrivare urlando, magari travolgerla con furia. Impossibile rischiare che la raggiungesse. Che cosa sarebbe accaduto, se si fosse trovata di fronte a suo marito? Scrutò la strada deserta, in su e in giù, ansiosamente: non si vedeva nessuno. Eppure… Le teste di pietra, qua e là sporgendo dai muri, continuavano a guardare avanti a sé, assenti. O avevano visto già troppo, o mai nulla. Doveva. Doveva. Tina affrontò col petto, con le mani, il portone chiuso.

    «Ho paura» fece Millina, tremando.

    «Di che? Finché sei con tua madre, non devi temere.»

    «E papà?»

    Pupetta taceva.

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