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Umiliati ed esaltati
Umiliati ed esaltati
Umiliati ed esaltati
E-book710 pagine11 ore

Umiliati ed esaltati

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Info su questo ebook

In questa storia è proposto al lettore un lungo viaggio nell'Italia dell'undicesimo secolo. Un tempo di accese dispute tra l'impero e il papato, che ebbe come paladina Matilde di Toscana, nota come la Grancontessa, guerriera per necessità, anima contemplativa per eccellenza, la quale dovette rinunciare al tanto bramato ritiro conventuale in nome di ciò che in quegli anni era considerato il bene collettivo.Con la spada in una mano e la croce nell’altra per meglio sopportare il fardello sulle sue spalle, viveva in un mondo in cui gli avidi nobili romani cercavano di innalzare e deporre pontefici a seconda dei loro interessi, attraverso intrighi e tradimenti.Eppure questo fu anche un periodo di gran sviluppo intellettuale e spirituale, in cui spiccarono figure come papa Gregorio VII, San Pier Damiani e Ugo di Cluny, ansiose di purificare la Chiesa, oltre che di crescita economica, con la rinascita delle città.A sud potremmo parlare degli albori delle crociate: Giuditta d'Évreux, nobildonna normanna, giungerà in una terra dove il suo promesso sposo, Ruggero d'Altavilla, condurrà una lunga campagna, sotto la benedizione papale, per ricondurre la Sicilia saracena alla cristianità.Questa è, in conclusione, un'opera corale che presenta diversi scenari e punti di vista, immergendo il lettore nel gioco di luci e ombre dell'era medievale.
LinguaItaliano
Data di uscita5 nov 2021
ISBN9791220367240
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    Anteprima del libro

    Umiliati ed esaltati - Marcello Salvaggio

    PARTE PRIMA – DAVIDE E GOLIA

    Ottobre 1059 – Maggio 1065

    I

    Una donna forte e virtuosa chi la troverà? Il suo pregio sorpassa di molto quello delle perle. – Proverbi 31:10

    Le sue compagne di cella si erano addormentate. Adevisa russava. Sibilla aveva il volto di una statua della Vergine.

    Aveva provveduto ad alimentare la lampada sotto il suo pagliericcio, colma d’olio. Portandosela con l’acciarino nascosto nell’abito, uscì, silenziosissimi i suoi passi sul pavimento e sui gradini, cauta a non fare rumore urtando contro qualcosa o inciampando sulla pietra o su qualche pezzo di legno. Insomma, doveva stare attenta soprattutto ai resti dei lavori di restauro dell’Abbazia di Saint-Wandrille di Fontenelle, che, dopo l’incendio quarantasette anni or sono, era stata riconsacrata molto prima del suo arrivo, ma ancora c’erano tratti da riformare.

    Si raccontava che la notte dell’incendio aveva avuto una parvenza d’Armageddon. Le raffiche di vento che soffiavano nell’oscurità avevano diffuso una nuvolaglia costellata di scintille, che si trasformavano in fiamme il cui morso era impietoso. Inerme la pompa della pietra, giacché le mura si reggevano su di una struttura legnosa. Le colonne che si diramavano all’insù nelle volte, alquanto solide in apparenza, aventi parimenti ossature di legno. Vittime però divorate con velocità diversa rispetto agli antichissimi libri, come un salterio di Sant’Arduino in pergamena fragilissima, al quale il fuoco si era appreso in tal modo che era divampato come un fascio di ramoscelli rinsecchiti. Fiammate si erano levate da messali e da un vangelo copiati dallo stesso santo, come se per i peccati commessi in quel luogo preferissero abbandonarlo a sé stesso – c’era chi a quell’epoca parlava di sodomia tra alcuni monaci, e di suore che fornicavano impiegando marchingegni diabolici –, il fumo riportandoli al loro scriba in Cielo.

    Opere ancor più vecchie ardevano all’istante, senza alcun tempo di respiro: si innalzavano lingue di fuoco balzate dalle bocche di diavoli famelici; lambivano i monaci che cercavano di salvarle, uno di essi costretto a ritrarre le mani che si erano ustionate, un altro dovendo levarsi la veste sfilandola dal capo, poiché era diventata combustibile per le fiamme.

    Dal soffitto di legno a volta del refettorio stramazzavano le travi avvampate. I rottami infuocati cadevano con un rovinio assordante. Le grida dei monaci andavano poi a sommarsi ai muggiti, grugniti e belati degli animali terrorizzati che spezzavano i loro legami. Travolgevano le porte e fuggivano dagli stabbi e dalle stalle. Non le piaceva nemmeno immaginare come si sarebbe sentita, se fosse vissuta a quei tempi, se avesse visto Rotgarius – il bel cavallino dalla criniera rossa nato da poche settimane, a cui aveva dato nome – incalzato dalle fiamme.

    Nondimeno ora era Giuditta che bruciava e talvolta si guardava indietro, fintanto che non arrivò all’altare della cappella delle suore, dinanzi al quale si inginocchiò e attese.

    Echeggiarono dei passi, ma non si volse di scatto come le era venuta la tentazione in un primo attimo. Aspettò che l’altra le si genuflettesse accanto.

    – Ci hai messo molto tempo, – le sussurrò.

    – Che potevo fare? Gisla non voleva addormentarsi! – Le fece cenno di silenzio; l’appena arrivata s’accorse di aver alzato la voce più del dovuto e si accostò alla sorella: – Potresti spiegarmi di cosa vuoi parlare che non possa essere ascoltato da nessun’altra persona?

    – Tempo fa, Emma, non te l’ho mai riferito perché mi sono sentita molto turbata in questi ultimi mesi, andavo a parlare con Roberto... ma mi arrestai, allibita, perché lo vidi che pregava insieme a un uomo bellissimo, – l’altra si accigliò, bisbigliò qualcosa di incomprensibile e mantenne le labbra socchiuse. Non era ancora il suo momento di parlare. – Pensai, alle prime, che fosse un angelo del Signore disceso per conversare con il nostro virtuoso fratello, ma non ebbi il coraggio di avvicinarmi di più onde contemplare quella luce. Mi nascosi. Ma da allora non cessai di pensare ad egli.

    – Giuditta, non ci posso credere! Proprio tu, che sempre mi sei sembrata la più forte e decisa tra noi due, colei che per prima avrebbe preso i voti... Ma chi era costui? Un uomo o un angelo?

    – Non era un angelo. È un prode cavaliere, Ruggero d’Altavilla. Quando domandai della sua identità a Roberto, mi rispose che era venuto a chiedergli consiglio e una benedizione per il suo viaggio in Italia, dove è andato per unirsi al fratello, che per coincidenza si chiama anch’egli Roberto.

    – Un Altavilla… Si sente parlare che siano diventati signori dell’Italia e la spada del papa.

    – Lo sai bene che prima non pensavo di sposarmi, giacché non credevo che avrei mai trovato un uomo degno di me, per davvero virtuoso. Ero sicura che soltanto Gesù mi avrebbe soddisfatta. Ma dopo aver visto quell’uomo, saputo della sua vita, delle sue gesta, del suo coraggio, ed aver riflettuto a lungo, sono giunta alla conclusione che c’è qualcosa di grande che mi aspetta in Italia. Ho financo fatto un sogno con un angelo simile a Ruggero. Sfoderava una spada che scompariva nella luce e diventava una croce abbagliante dinanzi ai miei occhi. Ed ora Roberto mi mantiene informata, sempre portando seco notizie sugli Altavilla.

    – Allora sa delle tue intenzioni.

    – Gliele ho confessate. Ma gli ho pure detto che mi sposerò soltanto se le notizie su Ruggero continueranno a convalidare le mie aspettative. Finora non mi hanno deluso.

    – Ma Ruggero lo sa?

    – No. E proprio per questo dobbiamo fare in fretta, prima che si trovi qualcun’altra. Quella volta non si avvide di me.

    – E vorresti dunque il mio consiglio a riguardo? – Emma si accigliò; sua sorella abbassò la testa e serrò le labbra. – Mi sembra che tu ti sia già decisa.

    – Infatti. Ma vorrei comunque ascoltare il tuo parere.

    – Perché dovrei essere più assennata di te? Ho sempre pensato fosse il contrario. Ero io quella che scoccava sguardi verso i ragazzi. Ed è da quando per la prima volta siamo entrate in un monastero che cerchi di convincermi che non vale la pena restare nel mondo, che nessun uomo è degno di una donna virtuosa. Questo tranne che negli ultimi tempi, è vero, non me n’ero accorta. Ma prima eri sempre tu a ricordarmi le notti in cui tuo padre portava a casa una nuova concubina e mamma doveva riceverla a testa bassa, – la sua povera sorella uterina aveva perso il padre in tenera età e aveva dovuto convivere con Guglielmo d’Évreux. – Sebbene fosse pur sempre lei a dare gli ordini ai servi e a imbandire le tavole nei banchetti, durante i quali lui infilava adagio le fettine di carne d’abbacchio, tagliate sottilissimamente, nelle bocche di quelle mignotte abituate a pezzi ben più grossi! Sapeva solo mangiare, con una foga simile all’ingordigia, e combattere. Versava a terra molto più sangue che vino. Ruggero sarà forse diverso da tuo padre?

    – Messer Guglielmo d’Évreux non era un uomo devoto, – le si incupì la voce. – Evitava di andare a messa e, allorquando era giovane e si ubriacava, talvolta diceva che l’arcangelo Michele, se fosse stato davvero così forte, sarebbe già sceso in terra per prenderlo per i capelli e trascinarlo in chiesa. Ruggero invece è partito verso l’Italia come pellegrino, si è recato innanzitutto al Monte Gargano, e intende schiacciare i filistei dei giorni nostri, – Emma dilatò gli occhi blu scuro, – i tiranni saraceni della Sicilia, onde glorificare la Chiesa e il Signore. Le terre occupate dagli agareni avranno poi bisogno di discendenza cristiana, affinché mai più tornino nelle loro mani, – strinse le dita intrecciate. – Roberto mi ha pure parlato per più di una volta di Tancredi d’Altavilla, e su come l’audacia e la pietà coesistano in armonia nella loro stirpe.

    – Che cosa ti ha raccontato?

    – Quand’era giovane, Tancredi era molto votato sia agli esercizi militari che a quelli della fede. Non di rado faceva penitenza. E nei suoi viaggi spesso cercava di trovare qualcuno che fosse stanco di subire soprusi e provava ad aiutarlo. Per di più, rendeva servigi a principi che abbisognavano delle sue armi e delle sue sollecitudini per combattere gente empia o vendicare offese ingiustificate. Una volta, allorché serviva il duca Riccardo, erano a caccia e avvistarono un singlare dalle zanne che somigliavano a spade. I cani cominciarono l’inseguimento, il duca e i cavalieri ostacolati però dalla densità della foresta. La belva si accorse che i cavalli si erano rallentati e si girò per difendersi dai levrieri. Aveva alle sue spalle un muro che le avrebbe protetto il didietro. Li squarciò con le sue affilatissime zanne, siccome non potevano contare sull’aiuto di nessun cacciatore. Tancredi fu il primo a riuscire a liberarsi dai rami aggrovigliati. Aveva lasciato indietro il cavallo e aveva proseguito a piedi. Testimone della strage dei cani, si affrettò a riscattarli. Sebbene la nostra tradizione determini che l’animale cacciato dovrebbe spettare alla lancia del signore, egli era premuroso di aiutare quelle creature di Dio. Il cinghiale allora, accantonando i levrieri lacerati, corse verso Tancredi, determinato a fare lo stesso con lui. L’Altavilla, che era assai possente, andò d’incontro al porco con la sua spada, ma non gli scagliò un fendente. Tenne l’elsa di fronte a sé e affondò la lama così profondamente in quel cranio duro, nella direzione del cuore, che nulla all’infuori della stessa elsa restò visibile all’esterno del corpo della bestia feroce, – una smorfia solcò il volto di Emma, arricciandole il nasino. – Ti sembra spaventoso? Dopo aver ucciso il cinghiale, Tancredi scappò prima che il duca scoprisse cos’era successo. Ma lasciò la spada ficcata nella testa della belva. Il duca, quando poi raggiunse il cinghiale morto, ordinò che fosse esaminato dal suo maestro di caccia e da altri suoi uomini di fiducia. Poscia che costatò il colpo magnifico che era stato dato, ne fu impressionato a tal segno da credere che stesse sognando. Chiese a chi appartenesse quella spada. Dichiarò che, per la bravura del colpo, avrebbe concesso il suo perdono al valoroso e, allorché seppe che era Tancredi, il duca e i suoi vassalli lo stimarono molto più di prima. In quei giorni, serviva il duca alla sua corte con dieci uomini sotto il suo comando; gli furono affidati altri dieci, e per di più gli fu consegnata una generosa somma d’argento, ma preferì donarla alla Chiesa.

    – Se tutto questo è vero...

    – Non credo che Roberto sia un bugiardo.

    Emma volse il viso a sinistra e lanciò uscire dalle labbra un soffio. Giuditta era pronta a dire altro, ma la sorella riprese per prima la parola:

    – Ti accompagnerò in Italia. Siamo figlie dello stesso ventre. Siamo state sempre insieme e continuerà a essere così, – si spense la fiamma moribonda di una delle candele dell’altare.

    – Non so come ringraziarti. Ma sapevo che mi avresti compreso e sostenuto, come hai sempre fatto.

    – Mi auguro però che proverai anche tu a comprendermi e sostenermi, quando mi troverò con un bel commilitone di Ruggero, – entrambe risero, ma i loro occhi ritrovarono il crocifisso sull’altare. Le risatine si interruppero, per prime quelle di Giuditta. – Ora è meglio che torniamo a dormire.

    Giuditta annuì con il capo. Si sistemò il velo e presero la via di ritorno verso le loro rispettive celle.

    ***

    Ruggero d’Altavilla si destò, insonnolito e con il mal di testa; era il primo a rimettersi in piedi. Sbocciava il sole. Si ricordò che, quando era sul punto di addormentarsi, il moccolo di candela che bruciava sul tavolo si stava spegnendo e mandava appena qualche scintilla di tanto in tanto. Era sopraggiunto il buio pesto in quel salone ingombro di donne di malaffare, che giacevano accanto ai suoi commilitoni, tutti stramazzati sul pavimento. Si vedevano qua e là pagliericci come il suo. Gli altri erano distesi sul legno.

    Quella sera avevano celebrato la conquista di Squillace. Comprensibile che i suoi militi – e anche lui – avessero voluto divertirsi in modo sfrenato una volta concluso l’assedio, il periodo più lungo quello in cui non avveniva nulla fuorché minacce da una parte e dall’altra, qualche pietra ogni tanto scaraventata dalle catapulte, seguito da una fase di scontri, più corta, ma lancinante, che li aveva sfiancati.

    Il tedio si era dissipato, ma il pericolo era aumentato, allorquando aveva ordinato la costruzione di una torre d’assedio al cospetto del portone della città. Dall’alto di quella colonna bellicosa, potevano scoccare frecce per colpire i difensori sulle mura; ed era grande abbastanza da poter accumulare dentro dei viveri, protetti durante la notte dai soldati che ivi trovavano riparo, sicché aveva permesso agli uomini che mettevano a soqquadro la zona – onde scovare i ladri che talora penetravano nell’accampamento –, oltre ad alcune guardie, di tornare a Reggio per riposarsi.

    Squillace era stata l’ultima fortezza della Calabria a resistere agli Altavilla. Ruggero aveva temuto di non riuscire a catturarla prima dell’arrivo dell’inverno. Ma il timore degli abitanti della città – di restare lì chiusi con la carestia che si sarebbe sommata al freddo – si era rivelato maggiore del suo. Cosicché avevano deciso di aprire il portone.

    Una volta entrato, la bile che gli era ribollita nel fegato durante i giorni recenti aveva trovato sfogo nell’orgia. Non sapeva più, anche per il troppo vino bevuto, con quante puttane aveva scopato quella sera. Si era comportato come un ragno della dissolutezza. Ne provò raccapriccio e si ricordò di quel che Roberto gli aveva detto a Melfi:

    – Dovresti sposarti, – i suoi occhi come sempre sprizzanti fuoco. – Possibile che non ci sia una donna degna di te in tutto il Mezzogiorno? Se io ne ho trovate due… – La ripudiata Alberada di Buonalbergo ancora gli suscitava compassione.

    – Sei Roberto il Guiscardo. Per te le cose spesso sono un po’ più semplici.

    – Questo lo dici, ma sai che non è la verità, – la fortezza longobarda di Scribla, che era stata affidata a Roberto dal loro fratello Drogone, l’allora conte di Puglia e Calabria, con la promessa che fosse un importantissimo punto strategico delle vie di transito tra Calabria, Campania e Puglia, si era presto dimostrata un presidio emarginato, accerchiato da paludi, dal quale non aveva potuto ricavare alcun vero beneficio. – Sai come sono arrivato in queste terre, – anche se dopo molto sarebbe cambiato, anche grazie alle nozze contratte.

    Per quanto riguardava le questioni matrimoniali, messer Arnolfo, il loro vecchio commilitone, aveva un’opinione identica a quella di Roberto. E Ruggero non ignorava affatto che un uomo della sua posizione – e con le sue ambizioni – non avrebbe potuto trascorrere tutta la vita senza sposarsi. Senza eredi. Se nemmeno Ermanno e Abelardo hanno ereditato i possedimenti del padre, figuriamoci i figli di qualche puttana!

    – Quel bastardo però l’aveva già una bella moglie, – bisbigliò tra sé e sé, con un ghigno sul viso. Roberto avrebbe potuto lasciargli Sichelgaita e restare con Alberada. Non che fosse innamorato della moglie del suo duca e fratello più grande… ma donne come Sichelgaita e Fredesenda, la loro indomita sorella, non si trovavano ovunque. Eppure prima o poi avrebbe dovuto trovarne una.

    Si grattò i capelli, che erano più disordinati del solito. Doveva tagliarli e lavarli, poiché erano cresciuti ben oltre la base del collo ed era da giorni che non li bagnava.

    Chissà se lo avrebbe beneficiato sradicare gli scismatici dalla città; e lasciare da parte le puttane: Dio lo avrebbe aiutato a trovare una donna valida.

    Avrebbe fatto erigere una cattedrale a Squillace.

    ***

    – Vattene pure. Se in passato mi fossi immaginato che da queste parti sarebbe stato talmente arduo preservare la pace e l’onore, avrei intrapreso anch’io la follia di viaggiare lontano! Il che da molti anni mi sono accorto che non è per niente una follia, bensì un’impresa da invidiare. Un grave errore invece restare nelle terre dei folli, dove governano i diavoli, – diceva Serlone d’Altavilla a suo figlio omonimo, che, appena compiuti i diciannove anni, gli aveva manifestato la sua gran voglia di andare in Italia a dare una mano ai suoi zii.

    – Grazie, padre. Ma penso che in Sicilia ci siano diavoli peggiori di quelli che abbiamo qua.

    – Almeno dai saraceni sappiamo cosa aspettarci. E v’è pure chi afferma che molti di loro siano onorevoli, di più dei greci, di più dei nostri da queste parti. Il tradimento, la fellonia, la pusillanimità e la violenza sfrenata, codarda e ingiustificata sono molto peggiori quando praticati da cristiani contro altri cristiani, – Serlone I, con una delle sue mani ossute poggiata sul tavolo in quercia, si passò veloce l’altra sui capelli radi.

    Serlone II, ritto in piedi, si ricordava di quando suo padre faceva quello stesso gesto una decina d’anni prima. Aveva una capigliatura bionda e folta, proprio come quella del figlio, che però preferiva una barba più corta, che non gli scendesse sotto il mento di più di un dito.

    Nonostante le sue parole, da tanti anni – anzi, da quando Serlone II era nato – il signore di Pirou e d’Hauteville viveva in relativa pace, senza coinvolgersi in gravi conflitti... Conflitti esterni. Poiché dimostrava di essere ancora in lite dentro di sé. Le cicatrici del suo spirito si erano riaperte e sanguinavano da quando gli era morta la moglie.

    Il figlio era testimone di quanto suo padre avesse amato sua madre. Quella perdita gli aveva fatto sanguinare il cuore a tal punto che gli avvenimenti lontani gli spumeggiavano dalla bocca come fossero successi il giorno prima; pure quelli creduti sepolti anni or sono.

    Invece allontanava o financo cancellava dalla memoria gli eventi recenti. Papà sta diventando vecchio. Questo pensiero lo affliggeva ed era il solo impedimento alla sua partenza verso il Mezzogiorno.

    In un passato lontano, quando il figlio non era nemmeno nato – quantunque ora gli sembrasse di aver vissuto quegli episodi in prima persona, giacché negli ultimi due mesi suo padre aveva ripetuto quel racconto un centinaio di volte –, il primo Serlone aveva ucciso un amico del duca Roberto, detto il Diavolo, per vendicare un’offesa subita. Quale fosse stata quell’offesa, neanche Serlone II lo sapeva di sicuro. Suo padre non aveva mai voluto dirglielo. Ma circolavano voci che l’uomo del duca avesse violato e ucciso una donna di cui suo padre era invaghito, il suo primo amore, prima di conoscere sua madre.

    – Invece di avviare una faida, avreste dovuto esporre a me l’accusa, onde potessi giudicare la malafede del mio vassallo, – a causa di quell’omicidio, Serlone I aveva dovuto affrontare la collera del duca Roberto, che non aveva voluto accettare alcuna giustificazione. – Ma purtroppo avete avuto fretta di risolvere il problema, – suo padre aveva conficcato un’ascia nel cranio di quell’uomo con tale bestialità che solo il manico era rimasto visibile, – e avete proceduto alla maniera degli antichi pagani.

    Timoroso di essere condannato a morte, Serlone era scappato dalla Normandia. E poscia era arrivato alle orecchie del duca che l’Altavilla aveva detto che non si aspettava giustizia da lui e che per questa ragione l’aveva compiuta con le sue stesse mani. Perché secondo le voci Serlone era del parere che Roberto il Diavolo esercitasse la rettitudine con i suoi amici e con nessun altro.

    Il duca era salito sulle furie a questa dichiarazione. Ma suo padre aveva sempre negato di aver pronunciato quel genere di accusa, quantunque la pensasse così. Era rimasto in silenzio e a testa bassa quando era stato al cospetto del suo signore. Forse in un momento di rabbia aveva lasciato sfuggire qualche brutta parola e non se n’era accorto, e qualcuno lo aveva tradito?

    Era comunque scappato in Bretagna. Spedita una richiesta di pace al duca Roberto, aveva ottenuto come risposta un coniglio decapitato e una daga con la lama chiazzata di sangue rinsecchito, dentro uno scrigno che in principio aveva creduto che contenesse reliquie per sigillare la riconciliazione.

    Poco dopo, il duca aveva messo sotto assedio Tillières, sul confine tra la Normandia e i territori del re dei franchi.

    Nel corso dell’assedio, un cavaliere franco usciva ogni giorno dalla fortezza per sfidare i militi normanni in singolar tenzone. Molti di essi uccisi in siffatto modo.

    Il duca, timoroso di ulteriori perdite, aveva deciso, dunque, di proibire loro di continuare ad accettare quella disfida. Per controbattere le proteste, aveva argomentato che non potevano accusarli di vigliaccheria, poiché era il loro capo a vietare loro di scontrarsi. Obbedire agli ordini del loro signore rappresentava qualcosa di più alto che replicare alle provocazioni di uno sconosciuto.

    Serlone però, quando era stato informato di quanto avvenuto, aveva dichiarato di considerare vergognoso quel comportamento, e si era diretto a Tillières. Voleva difendere l’orgoglio dei normanni. Lo accompagnavano due scudieri, niente di più, e si era messo ritto a cavallo davanti alle porte del castello, armato con il suo onore e la sua lancia.

    Non appena avevano saputo che era Serlone il cavaliere da poco arrivato, gli uomini del duca che lo avevano visto erano corsi ad avvertirlo:

    – Non lo uccideremo per l’ingiuria commessa contro di voi?

    – No. Lasciatelo stare. Morirà comunque, perché il cavaliere che lo affronterà è il più forte che io abbia mai visto, – c’erano coloro che sostenevano che Roberto avesse detto queste parole.

    Il prode cavaliere di Tillières, che era uscito dalla fortezza dopo aver ascoltato grida di sfida, aveva domandato a suo padre:

    – Chi siete? Se temete per la vostra vita, meglio che vi ritiriate.

    – Sono Serlone d’Altavilla.

    – Ho sentito parlare di voi. Avete ucciso un uomo a tradimento.

    – Lo uccisi guardandolo negli occhi perché era un villano, un piccolo diavolo più lercio del più lercio dei porci. In questo combattimento proverete sulla vostra pelle che non sono affatto un vigliacco.

    – I vostri occhi infatti mandano lampi e bagliori che non sono quelli di un pusillanime. Ebbene, accetto che mi affrontiate!

    Serlone aveva sistemato per l’ultima volta lo scudo, aveva messo la lancia in resta, dato di sprone e si era scagliato contro l’avversario come un centauro le cui narici diffondevano nell’aria fredda un fumo bluastro.

    Aveva percorso una distanza maggiore di quella del suo opponente, elevato lo scudo a miglior guardia e, seppure anche l’altro fosse ben protetto, aveva trovato una breccia nella sua difesa. Gli aveva colpito il petto e l’impatto aveva spezzato il frassino e proiettato il rivale all’indietro.

    Il cavallo di Serlone aveva proseguito con il galoppo, fino a quando non si era arrestato e si era impennato mulinando le zampe in aria.

    Nonostante fosse un bandito, Serlone aveva sentito i normanni che lo applaudivano e gridavano a squarciagola il suo nome. Aveva salvato il loro onore. L’avversario era stato sbalzato di sella dopo aver cercato di evitare la caduta aggrappandosi al didietro del cavallo.

    – La mia vita è vostra, messere. Salvate il vostro onore e quello dei vostri. Ho ucciso troppi di loro, – aveva detto l’avversario a terra, poscia che Serlone era sceso dal suo destriero.

    L’Altavilla aveva una volta confessato a suo figlio:

    – In questi anni ci sono financo quei monaci che non hanno mai preso una spada in mano, ma che scrivono che nessuno sapeva che fossi io a combattere! Ebbene, invece mi avevano riconosciuto, il duca lo sapeva, non a caso spedì un messaggero in Bretagna dopo che me ne andai. Egli voleva mandarmi a morte, e sarei davvero passato a miglior vita se non mi fossi dimostrato molto più ardito dei suoi uomini, – aveva sbuffato in un ghigno arricciato nell’angolo sinistro, – i cui volti scorsi sul viso di quel valoroso, e gli mozzai il capo e lo appesi sulla punta della mia lancia non per vendicarli, bensì perché compivo, così, la mia vendetta contro il Diavolo, perché tagliando quella testa tagliavo le teste dei suoi, e precludevo a Roberto di Normandia ogni possibilità di vendicarli. Si sarebbe vendicato poi con villania: appiccò il cadavere di quel bravo cavaliere poscia essersi preso la città. Ma io non gli permisi la maggior soddisfazione, così come lui non mi avrebbe mai permesso di lavare l’onta che avevo subito, perché quell’uomo vile, quel suo amico villano, era uno di coloro che lo avevano aiutato ad avvelenare suo fratello, – era stata la prima e l’unica volta in cui suo padre aveva pronunciato quell’accusa, ma non sapeva se quella era la verità o se era stato l’odio fermentato per anni, inghiottito e rigurgitato più volte nella vecchiaia, a far sì che credesse che fosse vero. Voci ce n’erano che Roberto il Diavolo avesse avvelenato suo fratello e predecessore, il duca Riccardo, con lo scopo di ghermire il potere.

    Eppure ormai quelle erano vecchie storie. Roberto di Normandia era morto da un bel pezzo e prima della sua morte aveva perdonato Serlone e lo aveva riammesso al suo servizio. Gli aveva addirittura concesso la mano dell’erede di Pirou, cioè della madre di Serlone II, e così avevano stabilito la pace esteriore. Ma in cuor suo Serlone I non era mai vissuto in pace né credeva al perdono del suo signore, bensì che lo avesse ripreso perché non voleva rinunciare alla sua forza.

    – La Bretagna mi sembrò, per un lungo tempo, già qualcosa di lontanissimo, poiché lì soffersi come Davide ingiustamente perseguitato da Saul. L’esilio mi faceva pensare ad Hauteville e alle cose della Normandia come faville del mio passato, una luce irraggiungibile e irrecuperabile come il sole durante la notte. Pativo per la paura dell’eredità persa, di non rivedere mai più il castello della mia famiglia. Come comprendere dunque la brama dei miei fratelli di allontanarsi dalle terre che amavo? Ma oggi comprendo loro e ti comprendo, figliolo mio. Costruisci un’eredità più grande e più degna di te, – al momento del congedo, il padre pronunciò codeste parole umide prima di abbracciarlo.

    – Tornerò un giorno, papà. Coperto di trionfi. Glorie che renderanno ancora più smagliante il nome di questa famiglia, – alzò gli occhi, davanti ai quali tremolava l’immagine del castello degli Altavilla.

    – Non promettere quello che non sai se potrai mantenere. I tuoi zii per caso sono tornati? So che andrai molto lontano. Ma non preoccuparti. Avrò chi si prenda cura di me, – accanto al vecchio Serlone, c’erano il suo confessore, padre Achard, col suo sorriso screpolato ma acceso, e l’anziana serva Batilde, che era stata la nutrice del giovane Serlone. Aveva da anni un odore di gigli appassiti, ma di lei si fidava di più di chiunque altra persona al mondo; aveva assistito sua madre nei suoi ultimi istanti.

    – Perdonatemi, papà. Vorrei... che fosse diverso. Non volevo... che fosse in questo modo, – parlava a scatti.

    – Invece è proprio quello che volevi, altrimenti rimarresti qui ad ascoltare le mie stupide storielle. Ho già detto che ti comprendo. Ora basta, figlio mio, – nondimeno si abbracciarono una seconda volta prima del definitivo congedo.

    ***

    Prima di scendere in Italia, Serlone II si recò all’abbazia di Mont-Saint-Michel per compiere sette giorni di penitenza e chiedere la benedizione del Sant’Angelo per il suo viaggio.

    In un passato non tanto lontano, si era recato lì il duca Riccardo, che aveva avuto con suo nonno Tancredi un rapporto meno turbolento di quello tra il duca Roberto e suo padre, ed era rimasto indignato dal lassismo dei canonici, che delegavano il culto a chierici salariati. Aveva ottenuto quindi da papa Giovanni una bolla che gli concedeva l’autorità di ristabilire le giuste norme nel monastero, fondandovi una nuova abbazia benedettina con monaci provenienti da Saint-Wandrille di Fontenelle.

    Ora ciò che vedeva era un’abbazia dove i canonici si dedicavano con tutto il loro impegno a Dio, e nessuno diceva che fossero avari e cupidi di denari, concupiscenti o infingardi. Provenienti in quei giorni da Saint-Wandrille di Fontenelle non dei nuovi monaci, bensì due altre anime che l’abate disse che volevano parlare con lui nella Cappella dei Trenta Ceri.

    Ancor prima di entrare, il giovane guerriero normanno spalancò gli occhi. Lo attendevano due graziosissime fanciulle.

    Entrò. Una era poco più alta, dai capelli che con tutti quei ceri accesi emettevano lampi d’oro fuso, i cui occhi mobilissimi e guizzanti erano simili a quelli di un’aquila. Sarebbe stato lui la sua preda? Perché? Che cosa voleva?

    Fece meno attenzione all’altra. Sebbene il suo sorriso suggerisse un raffinato allettamento e avesse una chioma che pareva costituita da un intricato intreccio di fili d’oro antico, possedeva un fascino assai minore.

    – Siete Serlone d’Altavilla? – Quella di più elevata statura gli si avvicinò, l’amica standole dietro; l’abate si mantenne a distanza, ma li osservava in tralice.

    – Serlone, figlio di Serlone, al vostro servizio, – le fece un cortese inchino. – Voi chi siete? E che cosa desiderate da me? – Non era una qualunque: le larghe maniche della sua tunica di seta in rosso vivace, il cui orlo era decorato da fini ricami geometrici, lasciavano intravedere sotto le maniche strette di una candida chemise; eppure nel suo abbigliamento prevalevano i colori roventi, come nei disegni floreali che guarnivano il taglio centrale della tunica che partiva dal collo per tutta la sua lunghezza. Erano petali o vampe blu e viola?

    – Sono Giuditta d’Évreux, figlia di Guglielmo d’Évreux, e questa è mia sorella Emma, – breve la loro riverenza. – Siamo andate prima da vostro padre, e allora, dopo che ci ha informato che intendevate venire qui in pellegrinaggio, siamo venute di corsa a trovarvi.

    – Per quale ragione?

    – Abbiamo saputo che intendete andare in Italia da vostro zio Ruggero.

    – Infatti. Come lo avete saputo?

    – Abbiamo da ringraziare nostro fratello Roberto, priore di Saint-Wandrille di Fontenelle. Anche noi vogliamo andare a sud. Ma non vorremmo partire senza un’adeguata protezione. Abbiamo un numero ridotto di uomini al nostro servizio. I quali comunque potranno esservi utili.

    – Ebbene, – incrociò le braccia e si grattò il naso, – questa non sembra una proposta del tutto cattiva. Ma mi permettereste di rivolgervi un’altra domanda, e poi usciremo con l’accordo assicurato, – abbassò il tono di voce, – giacché non possiamo restare qui insieme a lungo, altrimenti l’abate ci farà la pelle?

    – Potete domandarci qualunque cosa desideriate.

    – Perché volete andare a sud?

    – Ci sposeremo con degli Altavilla, che sono gli unici uomini degni di sposarci in questo mondo, – notò la bianca dentizione di Emma e socchiuse le labbra. Gli proponevano un matrimonio? Niente male, anche perché sapeva che Guglielmo d’Évreux era stato un gran signore.

    – Io ho già deciso chi sposare, – Giuditta sollevò il capo e piantò il suo sguardo dritto negli occhi di lui. – Emma invece ancora dovrà decidere.

    – Chi avete scelto? Scusatemi la nuova domanda.

    – Che partiate anche voi è un segno della Provvidenza, – per la prima volta da quando si erano visti, Giuditta arrossì e sorrise. – Sarebbe molto più difficile giungere da messer Ruggero senza la compagnia e l’aiuto di un altro Altavilla.

    II

    E vidi un altro angelo che saliva dal sol levante, il quale aveva il sigillo dell’Iddio vivente; ed egli gridò con gran voce ai quattro angeli ai quali era dato di danneggiare la terra e il mare, dicendo: Non danneggiate la terra, né il mare, né le piante, finché non abbiamo impresso il sigillo del nostro Dio sulla fronte dei suoi servitori. – Apocalisse 7: 2-3

    Eustacchio II, conte di Boulogne, su richiesta della sua consorte Ida, aveva ordinato che fosse prodotta, in minori dimensioni, una replica della Madonna del Mare, la Nostra Signora delle Onde – apparsa secoli prima su una barca senza vela, senza remi e senza alberi, che trasportava una Vergine di legno – , affinché rimanesse sull’altare della loro dimora. Marito e moglie ogni giorno ringraziavano Maria madre di Dio, sicché, circa un anno dopo la nascita di Eustachio III, la gratitudine avrebbe portato un nuovo frutto.

    Il cielo si incendiava d’oro e rosa, le mani della contessa di Boulogne adagiate sul bordo della finestra. Osservava la diurna luce che se ne andava. Quello le fece venire la malinconia e sbadigliò.

    Di notte ebbe un sogno, in cui tornava ad affacciarsi alla finestra perché sentiva un appello a radicare lì la sua presenza. Ma stavolta albeggiava. Le nebbie si sollevarono e veniva da oriente un cigno più lucente del sole: fendeva i venti e le nubi, sublime sovra il mare e sovra la terra; drizzò precipitando il volo in giuso, verso di lei.

    Dopo essersi destata da un torpore, la signora di Boulogne svegliò suo marito:

    – Non mi sento bene, la testa mi si spacca dal dolore, – i suoi occhi per giunta abbacinati da un bagliore soffuso. Ne seguirono nausee, vomiti e vertigini, lontane le voci di Eustacchio e dei servi che dormivano presso il talamo dei loro signori.

    Ebbe un’altra visione. O meglio, fu un’esperienza che andò oltre una visione: questa volta con soltanto le ali del cigno; le laceravano le spalle col fuoco di crescere e aprirsi lì.

    Restò a letto durante un paio di settimane, con la schiena come se un’aquila l’artigliasse. Non volle parlare di cosa aveva visto. Il conte di Boulogne dimostrò comprensione e non le fece domande tranne se si sentiva bene o male o se voleva mangiare oppure no. Con la fame che le struggeva le viscere, rispondeva di sì.

    Una gran gioia si diffuse dappertutto quando il suo ventre si rigonfiò. Il verbo faceva ritorno: spiegò al consorte tutto quanto aveva visto e patito.

    Purtroppo c’erano ancora molte pene da patire, soprattutto con il parto. Ma avrebbero pregato la Vergine onde affievolisse le conseguenze della condanna di Eva.

    ***

    Nell’imminenza della nascita del suo secondo erede, Eustachio II si preoccupava di più per la moglie. Di recente, un cavaliere gli aveva detto di aver perso la sua allorché aveva partorito il suo secondo bambino. Forse erano già troppe le due ali del cigno? Quando Ida gli aveva raccontato la sua visione, si era domandato chissà quale messaggio Dio intendeva trasmettere. E ora, con lei che urlava fino a perdere il fiato, entrata in travaglio un paio d’ore addietro, il signore di Boulogne camminava da una parte e dall’altra fuori dalla stanza. Si arricciava la punta dei lunghi baffi. Sebbene fosse Ida ad essere rinchiusa lì, era Eustacchio a sentirsi simile a un animale ingabbiato.

    Urla di gioia e sospiri di sollievo annunciarono l’uscita del bimbo. Concessogli il permesso d’entrare, si inquietò perché s’accorse che il piccolo non piangeva, dopo molta fatica e dolore da parte della madre, ella sì con il volto intriso di lacrime.

    – Per rimuoverlo, la levatrice ha dovuto invocare il sostegno di Dio, oltre che quello nostro, – il mantello circolare della loro fedele amica Fulda era chiazzato di sangue. – Poiché il pargolo non voleva venire al mondo. Forse per paura...

    Eustachio temette che fosse morto. Ma il problema consisteva in ostruzioni di sangue nel naso e nella bocca. La sua faccina fu asciugata e pulita da Fulda con un fazzoletto e allora scoppiò il pianto soffocato. Era un rampollo più grosso del primo. Magari questa la ragione della sua laboriosa uscita.

    Il padre si avvicinò a passi incerti, ma con il cuore che batteva all’impazzata. Avendolo preso tra le braccia, si appropinquò al letto per assicurarsi che Ida fosse ancora viva. Finito quel parto cruento, le ciocche castano chiare madide di sudore erano incollate al volto stinto e consunto e si vedevano due ampi cerchi violacei sotto gli occhi. La toccò con la mano sinistra; aveva la pelle fredda e bagnata e il fiato corto. Con il braccio destro, ancora reggeva il neonato, che sprofondò il viso sul petto del padre. Ida lo guardò dritto in faccia.

    – Come lo chiameremo il nostro piccolo cigno? – Pallide le sue labbra, la sua voce uscì in un soffio.

    Eustacchio non aveva dubbi che il nome che aveva in mente le sarebbe piaciuto.

    – Un cigno che ha affrontato le contrarietà di un lago di sangue. Che hai avvistato molto prima che fosse vicino alla sponda, ed hai concesso tutto di te per salvargli la vita. Non ha pure il Signore nostro sopportato le sofferenze del sangue per salvarci e condurci in Cielo? Forse Goffredo è venuto dall’alto per salvare e guidare molti uomini e donne che sanguinano e soffrono, – consegnò il bambino alle serve, che lo avrebbero lavato e fasciato, e ghermì un tratto ancora bianco del lenzuolo, che era diventato un altro mantello insanguinato.

    – Goffredo è un buon nome, – c’era l’accenno di un sorriso sui lineamenti di Ida.

    ***

    – Mio fratello mi confessò una volta che non lo aborrivano così tanto i preti con le mogli, – Goffredo il Barbuto, signore di Toscana, si trovava a tavola con sua moglie Beatrice di Bar e sua figliastra Matilde. – Ma i preti che hanno a casa una donna dovrebbero essere legittimamente sposati, – vuotò la coppa, qualche filo di vino come sempre sfuggendogli lungo la folta e spinosa barba, che gli raggiungeva l’ombelico. – Il che non avviene specie a Milano, dove spesso fanno le cose a modo loro! Colà molti si prendono come compagne donne di mala vita, e anziché redimerle persistono nel concubinato, talora con più di una alla volta. Non mi sorprende adunque quello che il buon Ildebrando di Sovana ci ha raccontato, che colà regni il più gran disordine e che papa Niccolò sia ansioso di rassettare quel covo di vipere.

    – Rimasi allibita quando messer Ildebrando ci rivelò che Landolfo Cotta cercò di parlare con il Santo Padre Stefano, ma che non ci riuscì a causa dell’arcivescovo Guido, – era stato intercettato sulla strada da sicari dell’arcivescovo di Milano; si era salvato dalla morte per un pelo, quel povero uomo. – Fino a che punto possono arrivare uomini che dovrebbero consacrarsi al servizio di Dio, che sono eredi degli apostoli?

    – La colpa è stata di Enrico il Nero. Aveva l’imbarazzo della scelta fra quattro uomini virtuosi e scelse Guido da Velate, che era il peggiore fra tutti, – ingoiò il pezzo di pane che aveva messo in bocca quasi senza averlo masticato.

    – Perché era lui il peggiore? – Matilde, curiosa di capire tutto quello di cui parlavano la madre e il patrigno, si accarezzava la punta di una delle trecce in cui erano acconciati i suoi capelli fulvi.

    – L’imperatore aveva paura di uomini giovani, forti e di elevata schiatta, come lo stesso Landolfo, oltre al quale erano candidati Anselmo da Baggio, Arialdo di Cucciago e un certo Attone, che secondo quanto diceva mio fratello appartiene a una famiglia della grande nobiltà milanese, il cui nome però adesso mi sfugge. Erano stati i nomi scelti da un’assemblea di cittadini. Ma Enrico li ignorò. Preferì scegliere un vecchiardo di una famiglia di valvassori, che è questo Guido, che è munifico nel fornire benefici a vantaggio di coloro che gli succhiano le palle. Si spiega facilmente pertanto la sua larghezza verso le sue concubine, nello stesso tempo che la popolazione muore di fame.

    – Ma perché hanno accettato la scelta dell’imperatore? Perché non si sono ribellati?

    – Per paura, Matildina, – schioccò le dita pelose. – Lo hai conosciuto Enrico, il più grande despota di questa nostra generazione. Ma ora Enrico è morto, e non c’è più nessuno per intimidire la gente, che adesso sì pretende di rovesciare Guido, e così la città è in preda alla violenza sfrenata. Se ci fosse un vero e giusto imperatore, l’intervento di papa Niccolò sarebbe dispensabile. Ho spedito una lettera a Roma dichiarando disponibile il mio sostegno, e anche quello delle truppe del figliol mio tuo sposo, ma la risposta è stata che per ora non saranno usate le armi, – Matilde s’immaginò il giovane Goffredo in testa a un esercito dalle armi luminescenti, bello e alto, montato su un bianco palafreno, accompagnato da una processione di monaci. Si sarebbe fermato per pregare con loro, esaltando il nome di Dio, cosicché non ci sarebbe stato il bisogno di spargere del sangue quando fossero arrivati in città.

    – Pure Landolfo e Arialdo hanno già commesso eccessi, – sua madre giunse le mani e fece aderire i polpastrelli delle dita ben curate. – Ho sentito dire che, per fare in modo che la popolazione rifiutasse i sacramenti ministrati dai sacerdoti simoniaci e nicolaiti, li profanarono. Landolfo diede un’ostia a un cane e pronunciò che lì non c’era nient’altro che pane. Arialdo versò del vino della comunione sul pavimento della basilica di Santa Tecla, invase una messa e disse che quel vino era degno soltanto degli ubriachi.

    – Ma poi furono tutti e due scomunicati da Anselmo e dovettero ritrattarsi. Anselmo mi ha detto che si sono pentiti amaramente; e Landolfo ha dichiarato che l’attentato di cui è stato vittima è stato forse una punizione divina.

    – Speriamo che tutto questo che sta accadendo non significhi l’avvento dell’Anticristo.

    – Enrico non era l’Anticristo, quindi credo che qualcuno peggiore di lui tarderà a fare la sua comparsa. Forse suo figlio...

    – Non celiare in questo modo, Goffredo. I papi stanno cercando di ristabilire nel mondo la virtù. Ed evvi chi afferma che, dopo che il regno dei virtuosi sarà stabilito, allora verrà l’Anticristo per tentare gli eletti e portare a perdere le anime.

    – Ma vi sembra che faccia senso tentare gli eletti se sono già eletti? Federico nutriva preoccupazioni per le anime altrui che io non nutro. Voleva pescare nella melma, ma Dio lo ha portato via da questo pantano prima che lui stesso ci cascasse dentro. Magari proprio perché era un eletto e adesso arriveranno tempi molto difficili.

    Matilde ascoltava quelle parole e alternava lo sguardo tra gli adulti e la zuppa. Non aveva toccato il cibo, che non fumava più. Le rape galleggiavano sul brodo, ma la carne si era sciolta fin troppo. Somigliava a una pozzanghera.

    Si domandò se sarebbe riuscita a vivere abbastanza per essere eletta da Dio. Cosa sarebbe successo invece se fosse morta con un grave peccato sulle spalle? A ogni modo non credeva che il giovane Enrico fosse l’Anticristo. Era un bravo ragazzino.

    – Matilde, ma perché oggi non mangi? – D’un tratto si accorse che era sprofondata dentro sé stessa in un modo tale che non aveva più sentito la voce di sua madre.

    – Mangia, perché altrimenti dimagrirai troppo e mio figlio non vorrà una donna ch’è pelle e ossa, – Goffredo ridacchiò. Gli occhi bluastri di sua mamma fissi su di lui le fecero ricordare lo sguardo di un cane malfidato.

    – Oggi non ho fame, – rispose in quel mentre Matilde.

    – Ma se hai fame di sapere tutte le cose, se hai fame nell’anima, anche il tuo corpo dovrebbe avere fame, Matildina. Oppure no?

    Fece uno sforzo e si portò una cucchiaiata alla bocca. Il sapore della zuppa non era del tutto da buttare, ma lo stomaco le bruciò. Tossì e storse le labbra.

    – Domani mangerò meglio, mamma. Oggi mi fa male la pancia.

    – Se tu fossi già sposata, questo sintomo mi accenderebbe la speranza, – il Barbuto era loquace quella sera. – Ma siccome non è il caso, chissà se non sia meglio che assaggi un po’ del mio formaggio, – spinse nella direzione di Matilde il formaggio che gli era vicino. – È un buon digestivo.

    – Grazie, messer Goffredo. Ma credo che oggi non mi scenda nemmeno il formaggio. Non ho proprio fame.

    – Fai allora come ti pare, – si strinse le spalle.

    Più tardi Matilde pregò per Enrico. Lacrime le colarono dagli occhi. I perché erano troppi, così com’erano tante le anime sofferenti.

    Eppure, grazie a quel pianto, si placò il dolore al ventre e si addormentò.

    ***

    Non erano ancora arrivati a Milano. Distesi sulla paglia, dormivano sia Anselmo da Baggio, vescovo di Lucca, che il giovane diacono Giulio dei Conti di Tuscolo. Pier Damiani era l’unico a restare sveglio, con le ginocchia sul fango.

    Aveva piovuto tutto il giorno. Il sole era sorto quando ormai si avvicinava il tramonto.

    Si ricordò del suo periodo a Ravenna. Di quando aveva deciso di andare a vedere gli eremiti – discepoli del Santo Romualdo – di cui le persone parlavano. Costoro risiedevano nelle paludi che si estendevano nei dintorni. Si era sporcato, corpo e indumenti, nella mota che arrivava fino alle caviglie; ma immondi erano i due anacoreti che trovò dopo ore di ricerca, allorché era sul punto di tirarsi indietro: vittorioso sullo stomaco, che sembrava aver dentro un topo afflitto dalla voglia di rosicchiare pane e formaggio, aveva scorto un paio di pilastri immobili, coperti di mosche e zanzare; ciò nondimeno gli erano parse le due più pure e limpide figure che avesse mai visto, avvolte da una splendente aureola di celeste umiltà.

    Si era avvicinato a loro e lo avevano squadrato in silenzio. Era l’unico a non essere inginocchiato. Un prurito alla mano sinistra gli suggeriva che una zanzara lo aveva punto. Indi si era messo in ginocchia, con la testa bassa.

    Aveva fissato la melma e avuto una visione di un anziano assiso su un trono di vetro e marmo, il suo volto nascosto da una luce strabiliante, con a fianco, che spuntavano dalle nuvole, trombe che annunciavano un giudizio. Era quindi giunto il suo giorno? Ma sentiva ancora la propria carne! Era stato colto da un inarrestabile vortice di terrore ed era affondato nella fanghiglia, dove aveva visto dei vermi affamati che si nutrivano delle sue viscere.

    – Vuoi venire a vivere tra noi? – La visione si era arrestata nel momento in cui questa domanda era uscita dalla bocca di uno degli asceti.

    Senza esitare, Pier Damiani aveva accettato l’invito. In quel modo si era fatto eremita. Errava insieme ai suoi due compagni nelle paludi, nei boschi e nelle grotte profonde.

    In una di quelle caverne, inginocchiato sulla roccia nuda, rapito da un’estasi di preci e lacrime, aveva avuto una visione di Cristo, fissato nella croce da dolorosi chiodi.

    – Signore, ditemi cosa volete, – la sua voce era scivolata fuori in un sussulto di gioiosa sottomissione.

    Gesù era rimasto a testa bassa. Ma, anche senza sentire la voce del Salvatore, aveva compreso che cosa doveva essere fatto.

    Aveva sollevato il capo e il corpo e si era avvicinato al legno. Aveva baciato le ferite del Signore. Tuttavia non bastava. Il sangue era colato sulle sue labbra e lo aveva bevuto.

    Non aveva mai assaggiato nulla di così dolce! Era molto più saporito del vino o di qualsiasi nettare.

    Allorquando la sua coscienza aveva fatto ritorno alla grotta, non c’era più niente né davanti né intorno a sé. Tutto era vuoto.

    – Signore, dove siete andato? Perché vi siete nascosto da me un’altra volta? – Aveva fatto scivolare la mano destra sulle labbra; c’era vero sangue.

    Di fronte al paragone con un incontro con Dio, quali altre sembianze poteva assumere il mondo che non quelle di un regno di ombre? Tutto quanto gli toccava il corpo non era altro che melma e polvere.

    Eppure il mondo lo richiamava in continuazione. Dio può essere dolce come Figlio, ma è severo come Padre; delega un compito preciso a ogni rampollo. Il suo quello di condurre le anime dissolute, inabissate nel fango spirituale, molto più immondo di quello corporale, alla famiglia degli eletti. Se non lo adempirò, non sarò giudicato degno di essere ammesso fra le anime beate in Cielo. Forse Dio avrebbe perdonato e invitato alla sua cena tanti peccatori contumaci, ma non lui.

    Neppure sarò meritevole di lodi e della salvezza qualora mi inorgoglisca dei miei atti. Ogni qualvolta venivano a visitarlo alcuni ammiratori, e uno di costoro un giorno gli aveva offerto un bel vaso che aveva scolpito in suo omaggio perché era convinto che un suo figlio malato fosse stato guarito dalle sue preghiere, rifiutava le lusinghe così come aveva respinto quel vaso:

    – Preferirei contrarre la lebbra a sopportare le sofferenze che un siffatto regalo mi infliggerebbe! Questo lo affermo con tutta la consapevolezza che mi è stata concessa da Dio, – c’erano altri molto più degni di lui. Come lo era il Santo Romualdo. Come il virtuosissimo Domenico, un altro compagno dei suoi tempi di eremita. L’uomo dal panciotto di ferro, poiché aveva avvolto l’addome e il torace con cinture di quel metallo. Se ne stava tutto il giorno a recitare salmo dopo salmo. Si colpiva con la frusta finché la sua carne emaciata si facesse simile all’orzo schiacciato da un pestello.

    Se la meritava tutta la venerazione ricevuta, e l’ammirazione di Damiani, perché il Cielo aveva già reso chiaro che approvava quelle dimostrazioni: era stata la prima volta nella storia, da quanto ne sapeva, che un uomo aveva presentato, sulle mani, sui piedi e sulla fronte – lì si trovava il più largo –, i segni dei chiodi di Gesù Cristo, dai quali il sangue zampillava copioso.

    Quel sangue non lo aveva portato alle labbra; il cardinale di Ostia si rammaricava di non averlo fatto.

    Siccome in quell’occasione era da tempo che non mangiava nulla, aveva avuto paura che il sangue di un uomo gli risvegliasse la fame assopitasi dai tanti giorni in cui si era limitato a deglutire liquidi, come tisane e insipide zuppe di grano che non riempivano la ciotola e molto meno il ventre. Aveva avuto tema di desiderare carne. Ma nonostante l’afrore emanato da Domenico, era stato un equivoco, un peccato, non credere con tutto il cuore che quello fosse il sangue di Cristo manifestatosi nel corpo di suo fratello!

    Gli doleva rimembrare quelle cose, soprattutto perché gli venne la tentazione di alzarsi e di abbandonare tutto mentre i suoi compagni di viaggio dormivano. Ma Pier Damiani restò in quella posa, fermo in ginocchia, e così si assopì.

    ***

    L’urbe mediolanense risultava impressionante agli occhi di qualcuno che non l’avesse mai vista prima. C’erano ospedali, bagni pubblici – con l’acquedotto che funzionava a meraviglia – e strade selciate. Queste senz’altro ricevevano una manutenzione costante, viste le buone condizioni delle pietre.

    I cives, i comuni cittadini, vivevano anche al di fuori della cinta muraria, dove si svolgevano diverse attività, come ad esempio un fiorente commercio. Mentre i signori abitavano nei loro palazzi turriti. Tra cui anche l’arcivescovo. La strada verso di esso pavimentata in porfido.

    Il cardinale Pier Damiani tuttavia incespicò, mulinò le gambe e le braccia e a malapena riuscì a non piombare sul lastricato. Giulio si avvicinò allo scopo di aiutare il suo maestro, ma costui, ritrovato l’equilibrio, si scansò dall’allievo e proseguì in una marcia celere.

    Proprio in quelle adiacenze, erano appesi agli alberi camici, casule e altri abiti sacerdotali, squarciati e insozzati di sangue. Su alcuni muri si vedeva scritto: coloro che profanano il sangue di Gesù Cristo meritano di avere il loro sangue versato, in mezzo ad altre frasi ancora meno cortesi. Pure alcune chiese presentavano sulle loro pareti esterne iscrizioni del genere.

    – Non entrate. Qui abita un falso sacerdote con la sua puttana, – Giulio lesse a voce alta una di queste.

    – La faremo finita con questo scempio, – Pier Damiani non arrestava il passo, pestando forte sull’acciottolato.

    Una volta arrivati al palazzo vescovile, furono interpellati dalle guardie:

    – Siete venuti dunque in nome del vescovo di Roma?

    – Se non ci sarà permesso di entrare, il vescovo eretico verrà scomunicato, – fu Giulio a rispondere. Pier Damiani aveva detto prima che non avrebbe rivolto la parola a nessuno prima di parlare con Guido da Velate, e Anselmo da Baggio lo aveva accompagnato in quella decisione, così come gli armigeri che costituivano la loro scorta e impugnavano le insegne papali.

    – Ti porterò con me perché sei un Conti di Tuscolo, – il cardinale di Ostia era stato franco con il diacono prima che intraprendessero il viaggio. – La tua famiglia si è per tante volte deviata dalle virtù di Cristo e, comunque, Dio lo saprà il perché, ha occupato in più di un’occasione la cattedra dell’erede di Pietro. Ora voglio prepararti non perché in futuro diventi papa, questo sarà nostro Signore a decidere se accadrà, seppure veda in te un destino sfavillante; voglio prepararti invece, precisamente perché intravedo queste faville, affinché tu non possa essere altro che un povero servo della Chiesa, – gli aveva preso il capo tra le mani e gli aveva baciato la fronte; la sua lunga barba marrone odorava di incenso. – Che anche Guido possa vedere la tua gioventù alleata alla virtù, e si possa pentire nella sua pervertita vecchiaia.

    – Non potrà invece vedere in me la gioventù che poi cadrà in corruzione? Come forse è accaduto a egli stesso?

    – Sei un ragazzo davvero intelligente. Ma dinanzi a Guido, cerca di pensare di meno e di lasciare che il tuo cuore parli di più.

    – Come lo avete conosciuto? Parlate di lui come fosse un caro amico.

    – Un’altra volta la tua intelligenza! Lascia perdere: questo lo saprai, magari, quando saremo a Milano.

    Introdotti nel palazzo, seppero che Guido da Velate si stava facendo il suo bagno. Lo trovarono tra i vapori di una delle sue calde piscine.

    – Piero Damiani, amico mio, scendi! Vieni qui nell’acqua! È da tanti anni che non ci vediamo! – Dal tronco in giù, era sommerso.

    – Vieni tu quassù da me, Guido. Sono alte le cose di cui dobbiamo parlare.

    – Non vedo perché questo sia necessario, – tirò qualche bracciata. – Dio non creò il mondo scuotendo le acque? Beh, se ti rifiuti, invito allora Anselmo, che suppongo non nutra la stessa stima che nutri tu verso le zanzare e i porci, e anche questo bel giovanotto. Tu chi sei?

    – Il suo nome è Giulio. È un mio allievo, – Pier Damiani fece precedere dalle sue parole la risposta del giovane, che aveva dato inizio al moto della sua bocca.

    – Stai attento allora, ragazzo! Piero vorrà farti diventare monaco, anche se il tuo sembiante mi denuncia che ti piacerebbe parecchio immergerti nell’acqua calduccia, – l’apprendista di Pier Damiani si era appena asciugato la fronte con il dorso della mano.

    – Basta, messer Guido. Siamo stati informati di ciò che succede a Milano. E un po’ lo abbiamo anche visto, – Anselmo da Baggio strinse gli occhi, che erano già piccoli per il volto e divennero due minuscole crepe.

    – Credo che non abbiate visto ancora nulla.

    In quell’ambiente afoso, dove i venti del freddo esterno non penetravano, si diffondeva un profumo di rose. Nondimeno Giulio discerneva nel sorriso di Guido da Velate un qualcosa di lercio.

    – Ti comporti come un pagano. Fammi vedere il tuo bordello, – lo rimbeccò Pier Damiani.

    – Dunque anche tu sei interessato, Piero? Alfine il monaco è diventato un cardinale?

    – Non mi farai uscire dal serio con le tue stupide facezie. Espellerò dalla città queste meretrici, mignotte, puttane, ninfe, sirene e streghe parassite e imporrò loro dure penitenze. Aspergerò l’acqua benedetta, questa sì l’acqua che vale, sui letti dove si sono stabiliti gli spiriti impuri, su ciò che è diventato una fangaia sovrappopolata di lardosi maiali. Non vedi nell’acqua il tuo riflesso?

    – So per certo che sono cicciuto. Ma cosa c’entri tu con questo? Dio è largo verso di me e verso tanti altri. Dio non ci costringe a vivere nella miseria e nella sofferenza. Ancora non hai capito, Piero? Lui ha già sofferto per noi! Il verbo si è fatto carne! La carne è stata perciò riscattata dallo stesso Gesù.

    – Non funziona in questo modo. La legge del peccato trova dimora nella nostra sovrabbondanza. Dobbiamo, adunque, astenerci dagli eccessi del bere e del mangiare.

    – Crapula e Gastrimargia, – Anselmo pronunciò i termini latini che si riferivano agli eccessi alimentari, i suoi denti in fuori sembrando più grandi del solito.

    – E come sacerdoti dovremmo assolutamente essere casti. Colui che si sposa con la Chiesa non può avere un’altra moglie. Né tantomeno delle concubine. Altrimenti è un adultero e sarà giudicato come tale. Dio ha sofferto per noi onde permetterci la salvezza, che prima era impossibile a causa della disobbedienza di Adamo ed Eva! Ora, al contrario di Adamo ed Eva, dobbiamo obbedirgli!

    – So che hai avuto visioni e udito voci, – Guido ora galleggiava sull’acqua della piscina. – Ma chi può assicurarti che sono state ispirate da Dio e non dal Diavolo?

    – Non hai mai sentito la voce del Signore perché

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