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L Ordine della città
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E-book218 pagine2 ore

L Ordine della città

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Info su questo ebook

Questo volume indaga il modo in cui la relazione fra il fenomeno della violenza e la forma-città si è andata trasformando nella storia, e descrive quella attuale come una condizione ‘post-cittadina’ in cui la violenza è divenuta elemento costitutivo dell’idea stessa di metropoli. Analizza perciò l’emergere di percezioni e rappresentazioni delle città contemporanee come ambienti investiti da uno specifico problema di sicurezza, da una minaccia endemica di violenza, disordine, degrado, che risulta tuttavia priva di qualificazione politica o comunque difficilmente leggibile in termini politici attraverso la contestualità moderna.
LinguaItaliano
Data di uscita1 apr 2020
ISBN9788872858844
L Ordine della città
Autore

Federico Tomasello

Federico Tomasello è assegnata di ricerca nell’Università Ca’ Foscari di Venezia e Research Associate presso European University Institute. Redattore di «Scienza&Politica», ha pubblicato, fra l’altro, La violenza. Saggio sulle frontiere del politico (2015), L’inizio del lavoro. Teoria politica e questione sociale nella Francia di prima metà Ottocento (2018), La questione francese. Marx e la critica della politica (2018).

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    Anteprima del libro

    L Ordine della città - Federico Tomasello

    Cop_Epub_Tomasello.jpg

    Territori

    Federico Tomasello

    L’ordine della città

    Violenza e spazio urbano

    Collana Territori

    diretta da Carlo Cellamare, Roberto De Angelis,

    Massimo Ilardi, Enzo Scandurra, Fabio Tarzia

    Impaginazione a cura di battitoriliberi − info@battitoriliberi.it

    © 2020 La talpa srl − manifestolibri

    Via della Torricella 46, Castel San Pietro Romano (RM)

    ISBN 979-12-8012-426-5

    www.manifestolibri.it

    Introduzione

    La violenza è il problema intorno a cui il pensiero politico moderno è andato organizzandosi in dottrine e istituzioni, in un progetto di ordine volto al superamento della situazione di pericolo e guerra permanente simboleggiata dalla metafora dello stato di natura e dall’adagio hobbesiano dell’homo homini lupus. Le prime formulazioni di una dottrina dello Stato inscrivono la radice dell’obbligazione politica in questa esigenza di protezione, pensando la legittimazione del potere come una funzione di sicurezza compendiata nella formula del protego ergo obligo. La moderna sovranità mira perciò a limitare i rischi di aggressività interindividuale attraverso l’organizzazione di una forza istituzionale in grado di inibire la violenza dalle relazioni sociali: per perseguire il suo scopo di ordine, il potere deve cioè dotarsi di una propria violenza specifica e organizzarla razionalmente per renderne incontestabile la minaccia. È la circolarità tipicamente moderna di potere e violenza, l’«aporia hobbesiana» di un potere sovrano che mira a elidere la violenza dalle relazioni sociali fondando e avocandosi una forza coattiva illimitata.

    La celebre definizione weberiana dello Stato quale monopolista della violenza legittima cristallizza, all’inizio del Novecento, il pieno sviluppo di questo progetto, che orienta l’intera comprensione teorico-politica della violenza e la dispone su una scala spaziale specifica, quella dello Stato. I confini del protego ergo obligo coincidono con quelli statuali, ed è questa logica spaziale a definire le fenomenologie della violenza politica. A fornire cioè, da una parte, un criterio ‘esterno’ e ‘orizzontale’, che fa della guerra fra Stati la fattispecie quintessenziale della violenza politica. E, dall’altra, un criterio ‘interno’ e ‘verticale’, che muove dall’‘alto verso il basso’, identificando le forme di violenza proprie del potere – tortura, genocidio, terrore dispotico, pena di morte eccetera –, oppure ‘dal basso verso l’alto’ qualificando politicamente le fattispecie della violenza organizzata contro lo Stato: la rivoluzione e la guerra civile su tutte.

    Questo libro muove dalla constatazione degli effetti di depoliticizzazione che tale impianto è andato producendo rispetto a un’altra scala spaziale: quella della città. Facendo della sovranità statuale una soglia generale di politicizzazione, la concettualità moderna ha infatti teso a comprendere e descrivere le dimensioni urbane quali ambienti sociali retti essenzialmente da logiche funzionali, economiche, amministrative, opacizzando così i significati politici dei conflitti che le attraversano. Spazialità urbane che apparivano invece decisive negli assetti e nelle dinamiche della violenza politica prima dell’avvento della modernità e che nel nostro tempo sembrano riacquistare, anche sotto questo profilo, un loro rilievo specifico.

    Il compiersi a ritmi crescenti di quella che nel 1970 Henri Lefebvre chiamava Rivoluzione urbana rende infatti questa dimensione spaziale sempre più rilevante nei grandi fenomeni politici e sociali del nostro tempo.¹Gli studiosi parlano dell’avvento di una civiltà urbana e nella comunità internazionale si fa largo uso del termine Urban age per designare il fatto che ben oltre metà del genere umano vive ormai in aree urbanizzate, e che questa porzione è destinata a crescere esponenzialmente fino ad abbracciare tre quarti degli abitanti della Terra entro il 2050.²I geografi individuano processi di urbanizzazione che eccedono di gran lunga l’unità-città per investire intere macroaree regionali, che acquistano un profilo compiutamente urbano in ragione del livello d’integrazione dei loro sistemi di infrastrutture, trasporti, organizzazione del lavoro, del commercio e dei servizi.³ Il generale accordo su una visione ‘urbanocentrica’ dell’attuale momento geostorico fa insomma dell’urbanizzazione una sorta di archivio generale cui rubricare ogni discorso sullo sviluppo delle geografie umane, al punto che il mondo stesso viene rappresentato sovente attraverso metafore urbane, come una ‘metacittà’ avente il suo ‘centro’ e le sue ‘periferie’. Sembra difficile descrivere la fisionomia politica del nostro tempo a prescindere da questi processi. E tuttavia, concetti e paradigmi che il Moderno ci consegna per nominare tale fisionomia risultano forgiati eminentemente su altre scale spaziali, quella dello Stato su tutte.⁴ Lo studio delle fattispecie della violenza politica non fa eccezione a questo impianto, ma sempre più spesso si trova a fare i conti con il rilievo crescente degli spazi urbani nella descrizione dei fenomeni di violenza. Dall’ultimo quarto del secolo scorso sono infatti venute intensificandosi percezioni e rappresentazioni delle città contemporanee come ambienti investiti da uno specifico problema di sicurezza, da una minaccia endemica di violenza, disordine, degrado che risulta tuttavia priva di qualificazione politica o comunque difficilmente leggibile in termini politici attraverso l’apparato categoriale proprio della modernità.

    La riflessione che qui si presenta mira a descrivere e interpretare proprio questo iato fra un movimento tipicamente moderno di spoliticizzazione della violenza urbana e i nuovi significati politici che essa assume nel nostro tempo. Di qui, il libro indaga il rapporto fra il fenomeno della violenza e la forma-città sotto il profilo storico, politico e sociale analizzando i nessi fra l’ontologia urbana e due fattispecie maggiori della violenza politica: la guerra, su cui verte la prima sezione del volume, e il tumulto, oggetto della seconda metà. Il primo saggio lavora a conferire profondità storica alla problematica in esame osservando come la questione della violenza è stata affrontata in tre grandi ontologie urbane del passato: la polis antica, il comune medievale e la moderna città industriale. Tale indagine del modo in cui il nesso fra protezione e obbligazione politica è stato pensato in queste grandi configurazioni storiche della forma-città consente di definire un doppio versante analitico. Da una parte il tema di un rapporto ‘esterno’ ed esclusivo fra la città e una violenza disgregativa cristallizzata nell’immagine dei barbari e declinata nella forma della guerra: è questo l’oggetto del secondo saggio, che interroga i nessi fra le trasformazioni del fenomeno bellico e quelle delle rappresentazioni degli spazi urbani contemporanei. Dall’altra parte vi è poi la questione di una violenza ‘interna’ e specificamente inerente alla spazialità urbana, che ha natura ‘tumultuaria’ e irradia la città di linee di conflitto, talvolta disgregative, talvolta produttive e cariche di significati politici. La seconda parte del volume affronta questo aspetto interrogando il modo in cui, nel nostro tempo, può essere inteso quel carattere tumultuario che emergeva vivido nelle rappresentazioni delle grandi ontologie urbane del passato. Essa verte perciò sul fenomeno delle sommosse metropolitane e sul loro enigmatico rapporto con il campo del politico, indagandolo a partire dal più eclatante tumulto urbano del nostro tempo: la rivolta di Los Angeles del 1992, cui è dedicato il terzo saggio. Il quarto sviluppa poi un’indagine critica delle principali rappresentazioni sociali e linee interpretative di questi fenomeni di violenza urbana emerse tanto nel dibattito pubblico quanto nella teoria politica e sociologica. L’ultimo saggio lavora infine a definire alcuni riferimenti intellettuali e fondamenti concettuali attraverso cui istruire una teoria politico-sociologica dei tumulti urbani contemporanei e interrogare la natura del loro rapporto con la sfera dell’agire politico.

    Ad eccezione del primo, inedito, gli altri capitoli rivisitano testi già pubblicati autonomamente. Ho ritenuto che potessero costituire un insieme sufficientemente coerente da essere riuniti in un libro, ma essi conservano comunque le specificità dei contesti per cui sono stati pensati e possono essere letti in modo indipendente. Il primo saggio risulta dallo sviluppo di relazioni presentate nelle conferenze Philosophy of the City (University of San Francisco, novembre 2016), Diritto alla città: territori, spazi flussi (Fondazione per la critica sociale, Roma, novembre 2016) e Protego ergo obligo: il rapporto tra ordine, sicurezza e legittimazione nella storia del pensiero politico (convegno dell’Associazione Italiana degli Storici delle Dottrine Politiche, Napoli, dicembre 2017). Il secondo saggio rivisita un articolo pubblicato sul trimestrale «Paradoxa» del giugno 2016, curato da Emidio Diodato e dedicato a La geopolitica che viene; il terzo è una sintesi dell’introduzione del libro da me curato No Justice No Peace. La rivolta di Los Angeles (Manifestolibri, 2017); il quarto è la traduzione italiana del capitolo Urban Riots and Paper Riots: Elements for a Critical Discourse Analysis, pubblicato nel volume Crisis, Risks and New Regionalisms in Europe: Emergency Diasporas and Borderlands, curato da Cecile Sandten, Claudia Gualtieri, Roberto Pedretti, Eike Kronshage (Wissenschaftlicher Verlag Trier, 2017). L’ultimo saggio è la sintesi di un ormai datato capitolo di Senza asilo. Saggi sulla violenza politica curato da Gianluca Bonaiuti (Ombre corte, 2011) ed è l’unico testo precedente alla pubblicazione del mio La violenza. Saggio sulle frontiere del politico (Manifestolibri 2015), di cui il presente volume sviluppa e approfondisce alcuni motivi. A tutte e tutti coloro che mi hanno consentito di partecipare a queste imprese va un sentito ringraziamento, così come all’editore Manifestolibri e in particolare a Massimo Ilardi, che mi ha motivato a non abbandonare questa traiettoria di ricerca e l’ha nutrita di spunti sempre nuovi. Un momento importante nello sviluppo di questo lavoro è stato inoltre il simposio Monumental Strategies of Sub/ Urban Riots, promosso nel 2016 all’Akademie Schloss Solitude di Stoccarda da Gal Kirn e Niloufar Tajeri, che ringrazio per avermi invitato. Durante la composizione del volume ho inoltre contratto diversi debiti di gratitudine con Dimitri D’Andrea, Mirko Alagna, Giso Amendola, Jean-Thomas Arrighi, Marco Bontempi, Salvatore Cingari, Niccolò Cuppini, Ubaldo Fadini, Michele Filippini, Costanza Margiotta, Beatrice De Santi, Ann Thomson, Mattia Tuliozi, Adriano Vinale.


    ¹ Cfr. H. Lefebvre, Le Droit à la ville, Seuil, Paris 1968, Id., Du rural à l’urbain, Antrophos, Paris 1970, Id., La Révolution urbaine, Gallimard, Paris 1970.

    ² Cfr. in part. il progetto delle Nazioni Unite http://unhabitat.org.

    ³ Cfr. ad es. N. Brenner, Theses on Urbanization, in «Public Culture», 25, 1, 2013, pp. 85-114.

    ⁴ Si pensi, ad esempio, alla nozione di ‘cittadinanza’ che, pur essendo etimologicamente calcata sulla città, non fa oggi riferimento che a una spazialità statuale.

    Prima parte

    I confini della città

    1. Linee storico-Concettuali

    sul rapporto fra violenza politica

    e spazio urbano

    Questo capitolo ricostruisce alcune formulazioni del rapporto fra il fenomeno della violenza e tre grandi ontologie urbane del passato: la polis antica, il Comune medievale e la città industriale. L’obiettivo è mettere in luce il ruolo che l’esperienza della violenza gioca nella definizione dell’idea di città, nelle sue rappresentazioni e nel modo in cui essa struttura specifiche concezioni della politica. Il confine cittadino viene assunto come angolo epistemico generale a partire da cui distinguere le funzioni e i significati politici di una violenza esterna alla spazialità cittadina, che è anzitutto quella della guerra, e di un’altra che la solca invece dall’interno, nella forma del tumulto o della guerra civile. Questa traiettoria volge infine lo sguardo al contesto attuale per interrogare le discontinuità che esso segna rispetto alle precedenti configurazioni urbane considerate.

    1.1 La città antica: i barbari e la polis

    Una prima ontologia urbana come dimensione politica integrale di convivenza umana viene emergendo in Grecia con la polis fra l’ottavo e il quarto secolo a.C. Questa forma-città costituisce l’«orizzonte materiale e intellettuale del mondo antico», sottolinea François Hartog,¹ e ad essa dobbiamo la nozione stessa di politica, ta politika: le cose che ineriscono alla polis, il concorso dei cittadini (políte¯s) alla definizione dei compiti e delle leggi di una comunità autonoma che concorre al governo di se stessa e della spazialità urbana condivisa – distinta da quella privata domestica dell’oikos. Di qui la politeia designa il regime politico che regge la polis, la sua forma di governo, e l’agorà è il luogo della ‘libertà degli antichi’ intesa come virtù pubblica, come isonomia e isegoria, come libertà di parola fra uguali nella partecipazione al governo della comunità.

    È questa istituzione della polis come città-Stato che distingue i Greci e la loro civiltà dagli ‘altri’, dai ‘barbari’, dai loro regimi tirannici fondati sul dominio, e dal dispotismo delle loro monarchie orientali: «i princìpi di onestà e di libertà della polis sono così saldi, sani e per natura avversi al barbaro – scrive Platone –, grazie al fatto che i Greci sono puri e senza mescolanza con i barbari» (Mx, 245d).² Come noto, questi ultimi sono definiti a partire da un principio di esclusione linguistica: il ‘bar-bar’ è il suono afasico e ripetitivo che designa la forma di espressione di tutti coloro che sono incapaci di parlare la lingua greca. I barbari sono la figura di questa alterità radicale che principia dal linguaggio e sfocia nella possibilità sempre aperta della violenza e della guerra, perché la relazione con loro non può avvenire per il tramite della parola e perché il rapporto di irriducibile estraneità fra la civiltà greca e la barbarie altrui non può che assumere forma conflittuale. Fino ai giorni nostri, d’altra parte, la figura – storica o metaforica – dei barbari appare intimamente connessa a un’immagine di violenza, a una forma di rapporto che passa per la sopraffazione piuttosto che per il linguaggio, all’idea di un dominio che si esercita attraverso la forza, il sopruso, l’invasione, il saccheggio, la sottomissione. Come punto di partenza di questa indagine possiamo dunque assumere una relazione idealtipica di opposizione fra la spazialità urbana della classicità e la minaccia di violenza simboleggiata dall’immagine dei Barbari.

    Di origine indoeuropea, il lemma polis corrisponde al sanscrito pur, che significa ‘fortezza’, ‘cittadella’:³ rimanda cioè anzitutto all’idea di uno spazio protetto, difeso dall’Altro non civilizzato, dai Barbari e dal pericolo della loro violenza. La città antica «nasce come luogo delle sicurezze», scrive Sergio Caruso: «ciò che sta al di là delle mura, la ingens silva, è ‘radicalmente altro’».⁴ La perimetrazione, muraria o naturale, dello spazio urbano assegna un confine materiale a tale distinzione antropologica primaria, e definisce la città come ambito di una convivenza di segno opposto alla violenza, consente di pensare il ‘dentro’ come luogo di protezione ma anche di produzione d’identità e di senso attraverso un rapporto oppositivo con la legge della forza che regola l’esterno.

    La polis «si definisce in maniera esplicita come il modo di vita fondato esclusivamente sulla persuasione e non sulla violenza», scrive Hannah Arendt, l’autrice contemporanea che con maggiore profondità ha pensato la politica attraverso il riferimento all’antichità greca.⁵ «Solo la mera violenza è muta», e la polis le è logicamente contrapposta perché costituisce lo spazio del discorso come «modo specificamente umano» di affrontare il corso delle cose. Questa idea di città si definisce come sfera pubblica in contrapposizione tanto a quella privata dell’oikos quanto

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