Il fattore Renzi
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Anteprima del libro
Il fattore Renzi - Emanuele Bormida
www.enzodelfinoeditore.it
A mia Mamma, pilastro del mio presente e del mio futuro;
a Miriam affinché divenga compagna di una vita
Indice
Prefazione
Introduzione
LA CONCEZIONE DEL CARISMA E LA PRATICA DELLA LEADERSHIP
La concezione weberiana del carisma
Il carisma in politica
L’estremizzazione della leadership nei totalitarismi novecenteschi
VECCHIA E NUOVA POLITICA: UN SALTO ESSENZIALMENTE MEDIATICO
L’Italia della Prima Repubblica, il regime della partitocrazia e la personalizzazione della politica
Dal proporzionale al maggioritario: la chimera del bipartitismo e la discesa in campo di Berlusconi
Mediatizzazione politica o politicizzazione mediatica?
LO STILE COMUNICATIVO DI RENZI ALLE PRIMARIE 2012
La (breve) parabola di Renzi e la contrapposizione con Bersani
La comunicazione del leader
Conclusioni
Bibliografia
«Solo chi è sicuro di non venir meno anche se il mondo, considerato dal suo punto di vista,
è troppo stupido o volgare per ciò che egli vuol offrirgli, e di poter ancora dire di fronte a tutto ciò:
Non importa, continuiamo!
,
solo un uomo siffatto ha la vocazione
per la politica»
Max Weber, La politica come professione
Prefazione
La crisi economica in Italia ha picchiato sodo, perché ci trasciniamo da anni un debito pubblico che è come una catena al piede dei prigionieri della Cayenne, aggravata da una classe politica che si è sempre più estraniata dai suoi compiti, trasformando l'attività politica in una professione molto ben remunerata, dove si entra senza particolari meriti, senza specifiche conoscenze.
Se aggiungiamo a questo che l'Italia in fondo non ha mai fatto una rivoluzione liberale potremmo riassumere la nostra condizione dicendo che siamo lontani sia dalla civis che dalla polis. Abbiamo un alto livello di corruzione, di evasione fiscale, con gravi infiltrazioni della criminalità organizzata in molti settori; siamo in sostanza un paese industriale con un arretrato livello di organizzazione della vita sociale ed economica.
Per questo probabilmente ogni tanto tiriamo fuori l'uomo della Provvidenza, cui deleghiamo volentieri la conduzione della vita pubblica.
L'ultimo finora è stato Silvio Berlusconi. Ora molti aspettano al varco di questa prova Matteo Renzi. Questo saggio, che esce a ridosso delle primarie del 2013 per la nomina del segretario del Partito Democratico, è stato scritto invece a ridosso delle precedenti primarie del PD.
Nel caso di un profondo cambiamento rispetto all'analisi che scaturisce da questo libro, saremo pronti alle necessarie correzioni.
l’editore
Introduzione
Questo testo si propone di indagare le peculiarità della comunicazione politica di Matteo Renzi, a partire dall’osservazione di alcuni suoi discorsi, durante i quali si è osservata una certa assonanza con altri esponenti del mondo politico italiano ed estero. In particolare, l’ipotesi di fondo è che Renzi attinga al repertorio tipico di Berlusconi e, soprattutto, di Barack Obama, presidente degli Stati Uniti d’America. Se così fosse, questo rappresentebbe un elemento di forte discontinuità all’interno della coalizione di centrosinistra, storicamente orientata a rifiutare l’artifizio comunicativo in nome di una presunta superiorità morale che, però, ne ha determinato troppe volte la sconfitta elettorale.
Di primo acchito, Renzi sembra andare in controtendenza rispetto a quelle che sono le abitudini storiche della sua parte politica. In passato si erano già conosciuti esempi, pur isolati, di personaggi politici volenterosi di modificare il proprio approccio con il pubblico e il proprio registro linguistico: uno di questi, il più recente, è sicuramente Walter Veltroni, il quale però non conobbe grande sostegno e fortuna entro le proprie fila.
Renzi, dunque, potrebbe essere solo l’ultimo di essi. Ci si è qui interrogati sulle peculiarità che lo contraddistinguono, sull’efficacia della strategia da lui adottata e sui risultati cui essa ha condotto.
La prima domanda che è sembrato opportuno porsi è stata se fosse o meno possibile definire Renzi come un leader e, in caso positivo, quali fossero le caratteristiche precipue che appartengono a questa classe di individui. Più specificamente: quali sono le eventualità che concorrono all’affermazione della leadership e in che modo questa si protrae nel tempo? Si è pertanto deciso di indagare il fenomeno da un punto di vista storico-disciplinare.
Per tale ragione, il primo capitolo descrive la teoria della leadership
di Max Weber, cercando di approfondirne le implicazioni pratiche secondo una chiave di lettura contemporanea. Durante questo complesso percorso si è scelto di non approfondire il concetto della leadership nella sua declinazione religiosa; questo perché, sebbene Weber muova la propria riflessione proprio da lì, in questo frangente è parso più opportuno considerare il solo contesto politico nella sua evoluzione storica.
Da ultimo, ci si è concesso un breve excursus durante il quale si sono approfondite quelle che si possono superficialmente definire le derive
della teoria weberiana. Il riferimento è all’affermazione dei regimi totalitari del Novecento, che hanno in larga parte portato ad etichettare in maniera negativa il corpo di una riflessione – quella di Weber appunto – che invece conserva preziosa attinenza pratica anche rispetto ai sistemi attuali e a quelli democratici tipici del periodo immediatamente postbellico.
Nel corso del secondo capitolo, invece, si è tentato di elaborare una visione d’insieme attraverso la quale guardare ai mutamenti che la comunicazione politica italiana ha conosciuto dalla nascita della Repubblica in poi. Si è studiato in particolare come lo scenario sia mutato in occasione della campagna elettorale del 1983, quando si è imposto un orientamento comunicativo del tutto differente rispetto alla nostra tradizione repubblicana, soprattutto grazie a Bettino Craxi, che ha introdotto nel Paese uno stile inedito.
Successivamente, ci si è soffermati su un altro grande protagonista della comunicazione politica: Silvio Berlusconi. Si è approfondito il contesto a partire dal quale è maturata la possibilità di proporre ai cittadini italiani una nuova offerta politica, in particolare riguardo al movimento referendario nato nel 1991 e protrattosi fino al 1993. Quest’ultimo, con la modifica della legge elettorale, ha agevolato l’affermarsi proprio di quella tendenza alla personalizzazione politica che, pur con evidente ritardo, ha contribuito ad allineare il nostro Paese con altre realtà estere.
Impossibile non soffermarsi sul ruolo che la diffusione della televisione ha giocato nel corso di questo passaggio di consegne. L’universo politico, invaso dall’egemonia comunicativa del piccolo schermo, ha dovuto adattarsi alle sue categorie, alle sue strutture, in un rapporto non sempre privo di attriti. Mentre ci si interroga ancora sull’esistenza o meno di un sistema videocratico, quel che è certo è che alla mediatizzazione della quotidianità ha fatto seguito la mediatizzazione della politica, dove il termine indica l’adeguamento di quest’ultima ai canoni semplificatori e drammaturgici tipici degli eventi mediatici.
Il terzo e ultimo capitolo analizza in modo specifico la comunicazione politica di Matteo Renzi in occasione delle elezioni primarie del centrosinistra del 2012. Dopo una breve riflessione sulle tipicità comunicative tradizionali della sinistra italiana, la nostra attenzione si è focalizzata sulla figura del sindaco di Firenze, la sua storia e la sua opposizione alla gerarchia democratica.
Si è poi proceduto all’analisi vera e propria delle sue peculiarità discorsive, paraverbali e visive, e del suo modo di proporsi agli elettori. Pur sapendo che una teoria della comunicazione non può mai prescindere dal contesto entro cui si attua, si è provato a tracciare una linea immaginaria omogenea, in grado di spiegare i perché delle scelte di Renzi, sottolineandone alcuni elementi positivi e altri negativi.
Infine, si è provato a tirare le somme di quanto seminato nel corso dell’intera dissertazione, delineando un profilo globale di Renzi da accostare ai suoi presunti analoghi precedente citati.
Data l’estrema attualità del tema, ci auguriamo che le pagine che seguono possano confluire in ulteriori approfondimenti e che le conclusioni tratte sappiano misurarsi con gli inevitabili sviluppi futuri.
La concezione del carisma e la pratica della leadership
Il potere carismatico
è un’espressione ambigua. Riflettere su di essa, però, può significare interrogarsi sulla questione del potere in generale e sul suo linguaggio, sul suo sorgere e consolidarsi all’interno di un contesto complesso qual è quello sociale. La storia è sempre stata scritta come resoconto dell’operato di grandi uomini
, Thomas Carlyle la identificava con le vite delle alte personalità che in essa hanno agito. Il rapporto tra le azioni del singolo e l’influenza che il contesto sociale specifico esercita su di esse è, però, controverso. Se vi sono autori che individuano nelle gesta dei singoli una forza capace di plasmare, in qualche modo, il contesto sociale, ve ne sono altri, è il caso di Herbert Spencer, più inclini a sottolineare l’influsso inverso, quello cioè esercitato dalla società sugli individui. Una valida sintesi delle posizioni in questione è offerta da Karl Marx, il quale rileva una biunivocità di flusso che esercita una certa influenza su entrambi, società e personaggi:
gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione¹.
Se è vero che alcuni personaggi hanno giocato un ruolo di primaria rilevanza nell’indirizzare e caratterizzare il corso della storia, è altrettanto innegabile l’impossibilità di attribuire con certezza la misura del cambiamento. Questo punto di vista suggerisce allora l’inevitabilità di un’influenza esercitata dagli uni sull’altra, e viceversa.
Sidney Hook, filosofo statunitense del Novecento, ha provato a offrire una chiave di lettura efficace per far chiarezza su un aspetto che resta, in ogni caso, di complessa valutazione, proponendo una distinzione tra due tipi ideali di leader: quelli spinti dagli eventi e quelli in grado di creare
gli eventi stessi. La prima categoria comprende quei personaggi che, con le proprie azioni, sono stati in grado di influenzare gli accadimenti successivi; la seconda, invece, fa riferimento a quanti contribuiscono a creare
ex novo gli eventi, deviando in maniera sostanziale quello che sarebbe stato il corso della storia.
A ben vedere, però, nemmeno l’apporto dicotomico offerto da Hook pare sufficiente a sbrogliare la matassa, poiché risulta difficile attribuire una paternità specifica a un’evoluzione che implica, piuttosto, l’agire concertato di una moltitudine di uomini. La storia si rivela essere un insieme di varie sfumature, ognuna delle quali esercita il proprio peso e la propria influenza specifica e su cui intervengono gli uomini nella loro complessità sociale. Quando si fa riferimento alla società quale entità condizionante la storia, lo si fa con la consapevolezza che le convenzioni e le istituzioni sociali circoscrivono notevolmente il corso degli eventi, contribuendo pesantemente a formare e definire gli strumenti interpretativi attraverso i quali le persone osservano la realtà e si approcciano a essa.
Nye offre una prima definizione della leadership utile a introdurre l’argomento e che terremo a mente durante l’analisi della campagna elettorale di Matteo Renzi. Il leader – dice – è una persona che ne guida altre o che ne è in qualche misura responsabile; ciò implica l’esistenza di un certo numero di seguaci che si muovono nella direzione indicata dal leader stesso. Leadership significa, allora, mobilitare gli altri per uno scopo, condizionarne in qualche modo le preferenze, orientando il loro agire in maniera precisa. Emerge dalle parole di Nye l’importanza di una cooperazione tra i seguaci e il leader: non è sufficiente compiere azioni plateali o che implicano una certa aleatorietà, così come non basta ricorrere a strumenti di coazione, ma è essenziale che ci sia un seguito disposto a seguire spontaneamente la persona identificata come capo
. I fini comuni, che possono anche essere derivati dal gruppo, sono dunque essenziali. Al leader soltanto, però, il compito di definire il senso d’identità e la coesione del gruppo che guida, mobilitandolo e conducendolo verso la meta. Gli attori di questa relazione agiscono all’interno di contesti determinati tanto dall’ambiente esterno quanto dai singoli individui per mezzo delle loro azioni. È essenziale, dunque, essere dotati della flessibilità e della capacità di analisi necessarie per interpretare al meglio l’evolvere egli eventi.
Ovvio che una relazione che presuppone il simultaneo operare di una guida
e di una moltitudine disposta a seguirla debba essere caratterizzata dalla presenza di una certa dose di potere. Ma questo, soprattutto in contesti democratici, non può avvalersi di strumenti di coercizione ma, al contrario, deve affidarsi a una carica emotiva in grado di attrarre e persuadere della bontà degli obiettivi proposti e perseguiti: in grado, appunto, di influenzare il comportamento altrui. La capacità di condizionare le preferenze di terzi deriva da risorse spesso intangibili – ad esempio, l’abilità nel saper incarnare valori cui anche altri desiderano conformarsi – che permettono il risparmio dell’uso della forza, a maggior ragione in ambienti in cui questo non è ammesso. Il potere cui facciamo riferimento si sovrappone allora alla capacità di attrarre, di portare all’acquiescenza, di indurre gli altri a collaborare nella convinzione che lo stiano facendo non solo in esecuzione di un ordine, ma perché convinti della bontà e della necessità delle loro azioni e del loro contributo.
Finora si è parlato di seguaci inserendoli in un contesto di passività rispetto al capo
. Bisogna però interrogarsi su quale sia il vero ruolo svolto dalla massa. Una descrizione di Albert Speer, alto gerarca nazista, può essere illuminante. Egli sottolineava il rapporto biunivoco tra Hitler e il popolo tedesco, rapporto che noi trasliamo al nostro contesto attuale di riferimento. Con biunivoco
si intende dire che sì, Hitler deteneva un potere di indirizzamento ideologico sul suo popolo, ma che anche quest’ultimo svolgeva un ruolo primario, assecondando l’indirizzo offerto.
Detto in altri termini, per un leader è essenziale essere in grado di intuire la direzione verso cui sono diretti i suoi seguaci, adattandosi di conseguenza. In un qualunque contesto politico di riferimento è improbabile che un personaggio possa affermarsi contestando bisogni e pulsioni dei cittadini; al contrario, egli rappresenta generalmente la persona che meglio di tutte si è dimostrata capace di offrire una sintesi e un indirizzo preciso a degli orientamenti già in essere, che esistono in quanto tali e a prescindere dal leader. Il potere di quest’ultimo dipende quindi dagli obiettivi espressi dai seguaci conformemente alla propria cultura e dalla sua capacità di rielaborarli a vantaggio proprio e dei suoi obiettivi.
Tornando alla figura del capo
e alla forza attrattiva che questi può esercitare sugli altri, quest’ultima può essere di diversi tipi. Le persone possono essere attratte da un leader tanto per le sue qualità personali, quanto per un suo particolare modo di comunicare. Ancora Nye ci aiuta a distinguerle in maniera più nitida; in particolare, egli scrive che la qualità emotiva o magnetica dell’attrazione personale è spesso chiamata carisma. Fermo restando il riferimento a Weber offerto nel paragrafo successivo, ci soffermiamo ora sul paradigma della leadership neocarismatica e trasformativa.
Di regola le persone tendono a distinguere tra persone carismatiche e persone non carismatiche. Il risultato elettorale del 25 febbraio 2013 ha visto una contrapposizione del tipo appena descritto, con candidati dotati di maggiore o minore carisma agli occhi dei cittadini. Il possesso di questa qualità viene comunemente descritto come il potere di ispirare negli altri sentimenti di passione e lealtà; i leader carismatici vengono solitamente descritti come sicuri si sé e dei propri mezzi, energici, capaci di entusiasmare la gente e abili manipolatori dei simboli del potere e del successo, esercitando in tal modo un’attrazione emotiva sui seguaci.
Il termine carisma deriva dall’ambito religioso. Come si vedrà meglio in seguito, Weber lo utilizzava per descrivere un particolare tipo di duce
, dotato di questa specifica qualità considerata straordinaria, una caratteristica che dotava il soggetto in suo possesso di proprietà e forze sovrannaturali. Weber stesso individuava nella relazione tra duce
e seguaci l’elemento imprescindibile per la sussistenza del carisma stesso, negando così l’idea che questo fosse una semplice caratteristica personale del leader. Inoltre, esso non aveva durata illimitata, essendo piuttosto vincolato al suo riconoscimento da parte della massa: una volta esaurito quest’ultimo, e una volta lesa la fiducia tra il capo e le persone, il carisma cessava di esistere.
La necessità di riconoscimento da parte di un gruppo e la temporaneità del carisma gli attribuivano una dimensione psicologica e sociologica. Benché sia difficile individuarne l’origine, molti autori sono concordi nell’individuare momenti di particolare crisi come base della ricerca del carisma; in effetti, molti dei personaggi carismatici che la storia ci ha consegnato, sono emersi in contesti di forte incertezza. Ciò può anche voler dire che, se i seguaci sono indotti dalle difficoltà a ricercare salvatori
carismatici, questi ultimi potrebbero essere a loro volta spinti a esasperare alcune crisi e ad alimentare le angosce nelle persone, al fine di innescare il meccanismo di attribuzione di cui prima.
La percezione del carisma varia, inoltre, al variare del contesto culturale in cui si è immersi: ciò significa che una persona descritta come carismatica in un contesto occidentale potrebbe non essere rappresentata come tale in un contesto culturalmente diverso. La stessa argomentazione potrebbe spiegare la difficoltà nel trovare leader donne cui storicamente è attribuito un grande carisma.
Stante la difficoltà nell’individuare un tipo particolare di carisma o nel prevederne la manifestazione in almeno alcune delle sue forme, Nye si concentra su un’altra distinzione che tornerà utile durante l’analisi dell’operato di Renzi, individuando due modelli di leadership: quella trasformativa e quella transazionale.
I politici appartenenti alla prima categoria sarebbero soliti responsabilizzare ed esaltare il proprio seguito, sfruttando le crisi per accrescerne la consapevolezza di sé e quindi trasformarlo. In questo modo, sarebbero in grado di mobilitare grandi energie per realizzare i cambiamenti prospettati, facendo appello ai grandi ideali e ai valori morali dei propri seguaci piuttosto che alle loro emozioni più impulsive; essi sarebbero così indotti a trascendere i propri interessi particolari, in nome di finalità di gruppo più ampie. Al contrario, politici di tipo transazionale sarebbero più inclini a motivare quanti li seguono facendo appello agli interessi particolari di questi ultimi, affidandosi a un sistema di punizioni e ricompense di stampo personale.
L’altro aspetto introdotto all’inizio del paragrafo riguarda le doti comunicative del leader, essenziali nel processo di relazione con il pubblico e, quindi, con i suoi seguaci. La comunicazione esercitata dal politico può essere di varia natura, da quella simbolica a quella persuasiva (fino alla retorica, estensione estrema della comunicazione persuasiva). Quello che è certo, è che un leader ispiratore deve saper comunicare efficacemente. Non è solo la comunicazione verbale ad essere importante; anzi, quella non verbale esercita spesso un’influenza inconscia sugli elettori che è assai più determinante delle reazioni indotte da un sapiente discorso retorico. L’abbigliamento, la gestualità, le espressioni del viso (soprattutto dopo l’avvento della televisione) hanno un peso enorme nel giudizio che le persone si formano sui candidati. Tramite il proprio stile comunicativo, i politici comunicano la loro capacità di visione, vale a dire formulano un quadro generale, una chiave di lettura che dia significato alle loro idee e che funga da fonte di ispirazione per quanti li seguono. La comunicazione è, allora, il mezzo principale con cui i politici creano quegli obiettivi condivisi di cui si parlava prima.
La leadership, si è detto, è una relazione di potere tra leader e seguaci; il potere, tuttavia, dipende dal contesto in cui si è immersi. Diviene quindi essenziale essere abili nel leggere le diverse situazioni che si susseguono per interpretarle al meglio, fornendo le giuste risposte agli stimoli che esse comportano. Questa abilità può essere definita intelligenza contestuale
e delinea la capacità di comprendere un ambiente in continua evoluzione per sfruttarne in maniera vantaggiosa le tendenze in atto. Nye definisce questa caratteristica come «un’abilità diagnostica intuitiva che aiuta il leader ad adattare le tattiche agli obiettivi, in modo da formulare strategie brillanti nelle situazioni più diverse»².
Intelligenza contestuale significa, quindi, sia riuscire a cogliere le tendenze in atto in una determinata realtà, sia riuscire ad adattarsi mentre si cerca di influenzare gli eventi. Nel caso specifico di un politico, questo può tradursi nella capacità di saper attendere il momento più adatto per agire, saper aspettare l’attimo più appropriato per poter far vincere le proprie istanze, sfruttando la positività delle contingenze. I leader dotati di questa qualità sanno dotare le proprie azioni di senso; per fare questo occorre definire correttamente i problemi di fronte ai quali il gruppo si trova, comprendere accuratamente eventuali conflitti di valori che possono generarsi dalla contraddizione tra le necessità del momento e gli ideali e le credenze che il gruppo di riferimento coltiva. In questo modo, diventa possibile tracciare un solco e trovare equilibrio tra ciò che è desiderabile e ciò che invece è fattivamente realizzabile.
L’intelligenza contestuale consiste allora nel saper sfruttare il corso degli eventi per dare esecuzione a una strategia; essa permette, inoltre, di adeguare il proprio stile alla situazione e ai bisogni dei seguaci, anche attraverso la corretta valutazione delle dinamiche di potere all’interno del proprio gruppo. Vedremo nel corso del terzo capitolo come queste considerazioni possono applicarsi allo studio proposto, ma qui può essere interessante analizzare le principali dimensioni cui questa abilità fa riferimento.
Il contesto culturale. Identifica l’insieme dei comportamenti ricorrenti attraverso cui i gruppi trasmettono saperi e valori. Ogni gruppo umano, di dimensioni più o meno vaste, sviluppa e possiede un propriobackgroundculturale di riferimento; la cultura del gruppo definisce ilframeentro cui il leader agisce ma non solo, essendo quest’ultimo parte attiva nel processo di creazione culturale. La cultura inoltre elegge
il proprio capo, vale a dire definisce i criteri tramite i quali le persone avvertono la leadership, per cui ogni dimensione culturale ne produrrà al suo interno un particolare tipo ideale. Il leader dovrà poi, a sua volta, essere acuto nel decifrare i limiti e gli spazi di manovra che il contesto culturale in cui si trova a operare gli offre.
La distribuzione delle risorse di potere. Questa dimensione dell’intelligenza contestuale fa riferimento alla capacità di intuire e valutare la distribuzione delle risorse di potere all’interno di un gruppo. La cultura di gruppo, enunciata poco sopra, influisce in modo rilevante su questo secondo aspetto, poiché gli obiettivi espressi all’interno di un contesto culturale specifico vanno a condizionare la definizione delle risorse di potere. La cultura politica del gruppo, assieme alle sue strutture formali e non, determina le risorse di potere che il leader ha a disposizione nell’avvicendarsi di diverse situazioni. Ma come si traduce questa particolarità all’interno dell’attività politica? Molto spesso, quasi sempre anzi, i