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La metropoli come mondo in rovina
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La metropoli come mondo in rovina
E-book161 pagine2 ore

La metropoli come mondo in rovina

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Info su questo ebook

«… la metropoli ha distrutto la città ma non è riuscita a liberarsi delle sue virtù. Le temibili virtù della civilizzazione. Credo di avere qualche ragione nel dire questo. E vorrei riuscire a dimostrarlo qui con voi, procedendo in ordine sparso. Con il rischio di perdermi. Esattamente come accade a chi si avventura per le strade della metropoli.»

"Tre brevi testi tra i tanti che per vari decenni, a partire da 'Forme estetiche e società di massa' (1973), ho elaborato mettendo al centro del mio discorso l'esperienza metropolitana. Sono testi che segnano tre tappe di tale costante mia attenzione al tema di cui l'ultima in ordine di tempo è la più estesa. Un testo che, grazie a un convegno organizzato da Benedetta Bini presso l'Università della Tuscia a Viterbo, mi ha consentito di fare il punto sulla questione: perché è stato ed è così importante parlare di metropoli quale sia la disciplina che mettiamo in campo. La relazione risale a pochi anni fa. Pronunciata con qualche tono di congedo: in parte conclusiva, una sorta di ricapitolazione, ma consapevole, per quanto ancora solo in parte, della polverizzazione della metropoli nel montante clima delle reti: un essere e fare mondo fuori del tempo e dello spazio della storia e delle sue identità sociali. Delle sue estetiche, etiche e politiche." (Dalla nota introduttiva)
LinguaItaliano
EditoreRogas
Data di uscita27 mar 2020
ISBN9788835395225
La metropoli come mondo in rovina

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    Anteprima del libro

    La metropoli come mondo in rovina - Alberto Abruzzese

    ATENA

    Nota dell’autore

    Tre brevi testi tra i tanti che per vari decenni, a partire da Forme estetiche e società di massa (1973), ho elaborato mettendo al centro del mio discorso l’esperienza metropolitana. Sono testi che segnano tre tappe di tale costante mia attenzione al tema di cui l’ultima in ordine di tempo è la più estesa. Un testo che, grazie a un convegno organizzato da Benedetta Bini presso l’Università della Tuscia a Viterbo, mi ha consentito di fare il punto sulla questione: perché è stato ed è così importante parlare di metropoli quale sia la disciplina che mettiamo in campo. La relazione risale a pochi anni fa. Pronunciata con qualche tono di congedo: in parte conclusiva, una sorta di ricapitolazione, ma consapevole, per quanto ancora solo in parte, della polverizzazione della metropoli nel montante clima delle reti: un essere e fare mondo fuori del tempo e dello spazio della Storia e delle sue identità sociali. Delle sue estetiche, etiche e politiche.

    Il primo testo riguardava una analisi della massificazione come contenuto e forma dei media alla luce della vita nazionale italiana da me raccontata – ancora da comunista (per quanto periferico) – nel vivo della crisi delle ideologie di sinistra (intellettuali e movimento operaio) di fronte alla potenza dei media e dell’immaginario collettivo (dalla piazza alla televisione). A determinare l’ottica del punto di vista espresso in questo testo credo che fosse da un lato la mia inesperienza di un vissuto propriamente metropolitano (Roma non è stata mai una metropoli, solo una grande città sopravvissuta all’Antico, ai totalitarismi di Dio e dell’Impero) e dall’altro lato già una forte pulsione affettiva e non solo storico-teorica verso il significato e dunque la funzione della metropoli nei processi di socializzazione del tempo moderno fondati sullo sviluppo industriale otto-novecentesco. Solo abitando Napoli, infatti, ho potuto fare esperienza dello spirito della metropoli (Napoli divenuta già dimensione post-metropolitana senza avere potuto compiersi davvero come metropoli). Soltanto in questa città di confine con se stessa, ho potuto fare fruttare l’arco di grandi autori (che vanno da Simmel a Benjamin a McLuhan) nel quotidiano confronto universitario ma amicale con un agguerrito gruppo di giovani già prima di me attentissimi per vocazione all’immaginario collettivo. Si è trattato di una comunità di intenti che mi ha fatto da ponte con quella successiva, comunità di studi vissuta nei miei anni di docenza a Roma. Qui, nel mio napoletano abitare nella Capitale, il testo che più fa da raccordo con l’ultimo è il volume curato da Valeria Giordano Linguaggi della metropoli (Liguori, 2002).

    Spero che riproporre questi tre testi serva a capire alcuni nodi cruciali del perdurante dibattito sulla differenza tra civiltà dei consumi e civiltà delle istituzioni. Dibattito in cui si gioca il destino del presente e in particolare la degenerazione progressiva dei ceti dirigenti a fronte della caduta del capitalismo storico (quello appunto che ha avuto come motore lo sviluppo della metropoli e l’ambiguità dei suoi regimi democratici). Di conseguenza riguarda lo stallo della ricerca e della formazione in Italia. Per dimenticare davvero la metropoli – teatro di una socializzazione del desiderio fondato sulle merci – bisogna capire in cosa essa si è tradotta trapassando dai dispositivi meccanici della civiltà industriale ai dispositivi delle reti digitali. C’è anche di mezzo il gioco al massacro tra disgregazione della sovranità e proliferazione di popoli (populismo): l’aperto conflitto che ci affligge senza che la politica abbia più nulla da dire.

    Alberto Abruzzese

    Fingere la metropoli

    Premessa

    1. Il rapporto tra spettacolo e metropoli ˗ come vedremo già storicamente determinato e passato ˗ implica la definizione del territorio in tutte le sue funzioni essenziali. Dalla lunga fase preindustriale all’attuale processo di trasformazione postmetropolitana il segmento fondamentale presente nelle articolazioni dell’intero sistema è costituito dalla dimora dell’individuo. Infatti, ripercorrendo tutto l’arco di sviluppo della società industriale, mentre il processo di valorizzazione dell’istituto familiare subisce dopo la sua piena produttività borghese e la sua capillare estensione di massa una curva discendente (crisi del dispositivo, dei suoi protagonisti, dei suoi rapporti di potere, interni ed esterni), la dimora, cioè il recinto abitativo privato, non perde la sua capacità di resa tecnologica nei confronti dell’assetto economico e politico; non solo si integra perfettamente alle funzioni familiari ma ne segue e, per molti aspetti, ne compensa la crisi e l’obsolescenza ideologica o affettiva.

    Proprio l’ambiguità e la problematicità con cui attualmente dimora e famiglia, abitazione e individuo, intrecciano le loro funzioni sociali ci portano a seguire, per il discorso che qui vogliamo fare, una linea metodologica che concentra lo sguardo sull’insieme di attrezzature di cui il corpo dell’individuo dispone piuttosto che sul nucleo familiare o sui gruppi. Si tratta di accettare come dato materiale della nostra mappa territoriale l’avvenuta atomizzazione delle funzioni umane, la natura di attrezzo che passioni, desideri, comportamenti, ideologie, valori hanno assunto nel processo generale di tecnologizzazione dei rapporti sociali. La stessa direzione assunta dalla civiltà dei consumi ci dimostra l’evidenza di questo processo nella poderosa conversione delle forze produttive e della ricerca scientifica verso la distribuzione capillare di un macchinario leggero, facilmente agibile, tendenzialmente a basso costo, tecnologicamente sofisticato e dinamico. Poderosa trasformazione del rapporto classico tra consumatore e apparato produttivo, e dunque tra cultura dell’individuo e cultura complessiva del sistema sociale: tendenza ad unificare sul corpo stesso del consumatore una quota sempre più elevata di funzioni produttive (il che significa, naturalmente, una sempre più stretta integrazione tra corpo dell’individuo e macchina produttiva generale). Certamente il lancio sul mercato di videogames, video-registratori e teletext significa appunto questo. Proprio queste attrezzature costituiscono il trasferimento di una serie di atti produttivi, espressivi, informativi dallo spazio di tutta la società civile (apparati, istituzioni, mercato, ecc.) al piccolo segmento di base costituito dalla dimora. Oggi il fenomeno di tecnologizzazione dello spazio domestico corrisponde al grande fenomeno di ieri che aveva visto spettacolarizzare la città, produrre la metropoli, diffondere la cultura metropolitana ben oltre i suoi confini fisici.

    I modi con cui leggere la complessità di questi fenomeni sono molteplici. Qui si sceglie l’ipotesi che al centro dei processi in questione vi sia un nucleo di funzioni sociali in cui lo sviluppo conflittuale dei consumi (come definitivo salto tecnologico dei modi di produzione dell’industria culturale) si salda alla necessità stessa di controllarne la pericolosità estrema.

    Dato il luogo di espansione di questi fenomeni, e cioè le concentrazioni urbane ottocentesche, le funzioni della regia e dell’attore, vale a dire il nucleo fondamentale della messa in scena, assumono un significato paradigmatico che va ben al di là del recinto puramente specialistico e professionale in cui l’estetica le ha chiuse.

    È possibile allora ricostruire le tappe della messa in scena teatrale, dell’industria cinematografica e dell’informazione televisiva come i progressivi salti tecnologici con cui l’evolversi dei rapporti sociali sperimenta il suo potere di controllo sulla violenza dei processi di massificazione e socializzazione. È appunto in questa direzione che qui tentiamo di ricucire una serie di riflessioni in cui il teatro, il cinema e la televisione trovano un nesso forte e significativo con la metropoli e con molte delle sue funzioni più tipiche. La storia del cinema fa, allora, tutt’uno con la storia della città moderna, la storia della regia fa tutt’uno con le forme di contenimento della frantumazione dei linguaggi, la storia dell’attore fa tutt’uno con l’evolversi del comportamento e del protagonismo sociale. È la storia di un grande processo di integrazione tra l’insieme di pratiche produttive, volte a rendere sempre più meccanica la messa in scena (il vettore che porta al teatro delle supermarionette in aperta concorrenza con il cinema) e l’insieme di pratiche produttive volte a liberare il potere del corpo (secondo il vettore del teatro povero).

    1.2. All’origine infatti fu raccontato che il cinema era nato per distruggere il teatro. Solo qualche alto borghese nel primo ventennio di storia della riproducibilità tecnica cinematografica seppe vedere il film accanto al teatro e non contro: da un lato la tragedia, il luogo unico e la forma irripetibile, dall’altro la commedia, il divertimento, l’elettricità; il comunicare rapido e riproducibile sino al punto da farsi fantastico. Reazionari, piccoli borghesi e progressisti, invece, vollero vedere il cinema non come tecnologia prodotta dal teatro e dalle letterature di massa, non come macchina inventata dallo sguardo scenico, ma come corpo estraneo e distruttore.

    Da allora ad oggi esiste una lunga storia in gran parte sconosciuta perché non scritta e non pensata, ma soltanto quotidianamente vissuta dalla massa del pubblico. Una ricostruzione parziale e tradizionale dei meccanismi dell’industria culturale, una descrizione deterministica e rozza degli apparati culturali, una definizione accademica e scientistica dei linguaggi espressivi ci portano a scrivere o leggere i modi in cui l’avvento del cinema progressivamente irrigidisce la mobilità tutta umana e artigianale dell’attore, lo spazio materiale della scena, la partecipazione emotiva del pubblico.

    Certo è un fatto incontestabile il chiudersi progressivo dei teatri in cambio dell’aprirsi massiccio dei cinematografi: dall’Europa all’America e dal­l’America all’Europa. Eppure il teatro, quello grande della grande borghesia, era già morto molto tempo prima della nascita del cinema; le avanguardie storiche non parlano più il linguaggio antico del teatro ma sono già teatro della comunicazione. Forme di comunicazione che ancora non hanno assunto l’immagine piena che avranno nel­l’informazione elettronica ma già costituiscono circuiti fortemente tecnologizzati e mercificati. Il cinema, dunque, sin dal suo inizio non si contrappone al teatro, ma lo comprende: l’industria culturale non è un insieme di linguaggi separati ma una pianificazione di settori congiunti. Il cinema ingloba per lungo tempo sino alla massima sua espansione tra gli anni ʼ30 e gli anni ʼ50 tutto ciò che del teatro poteva essere inglobato, esaltato in luce e colore, ricostruito in memoria e desiderio, frantumato in racconti e generi, socializzato in di­vi, rilanciato in pubblicità.

    Il corpo dell’attore si trasferisce nel corpo dello spettatore. Un pubblico che vive giorno per giorno le fasi di passaggio tra una società dello spettacolo e una società dell’informazione.

    Nelle fratture, nelle fessure, nelle discontinuità di un sistema espressivo che abbandona le certezze della forma compiuta, l’equilibrio dell’estetica, il ritmo della tradizione, il teatro come riduzione della macchina espressiva ad uso diretto del corpo fisico continua a funzionare da laboratorio, partecipa alla costruzione del futuro uomo elettronico, programma il terminale di carne e passione innervato nel pubblico di massa.

    Eccoci così giunti ai giorni nostri: non solo il cinema torna sulla scena teatrale ma anche la televisione, i flippers, i videogames. Una nuova teoria della regia e della rappresentazione che probabilmente non è passata né attraverso la figura del regista cinematografico, né attraverso quella del regista teatrale, ma è andata crescendo nella città immaginaria prodotta dall’informazione. Pagine e pagine di rotocalchi e di fumetti, radio e manifesti, pubblicità e televisione, linee di comunicazione e organizzazione urbana, socializzazione della fabbrica e esplosione del tempo libero… tutto ciò da Carosello a Massenzio non rappresenta una linea di frattura con il passato estetico o la memoria del divo, ma ricicla le forme e i linguaggi in un modo di vivere dell’immaginario collettivo estremamente più complesso e profondo.

    Finzione e realtà

    2. Molti temi della ricerca filosofica, estetica e sociologica riconducono dunque sempre alla metropoli, alla sua storia, alle sue forme, alla crisi di trasformazione che ha vissuto e all’ultima che ora si vive perdendo il suo nucleo, la sua centralità, smarginandosi cioè nella megalopoli, nella città diffusa. Non solo parlando di immaginario collettivo ma anche di giovani o di nuovi bisogni o di sessualità, il discorso ruota in gran parte sui processi attuali di trasformazione che la metropoli italiana sta attraversando e sui fenomeni che produce. Trasformazioni, inoltre, che ancora una volta ci dimostrano la rilevanza storica e culturale del­l’avvento di una società dell’informazione fondata sulle risorse tecnologiche dell’elettronica, sui meccanismi a catena della cibernetica, sull’accumulazione del sapere.

    Ma vediamo

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