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Crisi della storia, crisi della verità: Saggi su Marrou
Crisi della storia, crisi della verità: Saggi su Marrou
Crisi della storia, crisi della verità: Saggi su Marrou
E-book380 pagine5 ore

Crisi della storia, crisi della verità: Saggi su Marrou

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Info su questo ebook

"È difficile dire che impressione faccia, oggi, la lettura dell’opera di Henri Irénée Marrou in uno studente universitario. È certo che non deve
trattarsi di una lettura semplice e non solo perché un libro come, ad esempio, 'La storia dell’educazione nell’antichità' ha uno spessore erudito che difficilmente si lascia penetrare senza un’adeguata strumentazione. Il punto rilevante a me pare un altro. Marrou procede, per continuare nell’esempio prescelto, nella sua Storia rivestendo l’oggetto di tanta erudizione di un linguaggio che non arretra di fronte al rischio di attualizzare il proprio discorso."
LinguaItaliano
Data di uscita16 lug 2018
ISBN9788838247248
Crisi della storia, crisi della verità: Saggi su Marrou

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    Anteprima del libro

    Crisi della storia, crisi della verità - Gabriella Seveso

    Adolfo Scotto di Luzio

    Crisi della storia, crisi della verità

    Saggi su Marrou

    Tutti i volumi pubblicati nelle collane dell’editrice Studium Cultura ed Universale sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche, ci si avvale anche di professori esterni al Comitato scientifico, consultabile all’indirizzo web http://www.edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.

    Realizzato con il contributo del Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’Università degli Studi di Bergamo

    Copyright © 2018 by Edizioni Studium - Roma

    www.edizionistudium.it

    ISBN: 9788838247248

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Prefazione

    I. La storia come amicizia

    1. I termini di una inimicizia: Marrou e Croce

    2. Autoritratto dello storico

    3. Un intellettuale del dopoguerra

    4. Il senso di una frattura

    5. Una riflessione esistenziale

    6. L’individuo e la comunità: una prospettiva per il mondo nuovo.

    7. L'analisi del dispotismo

    8. L'amicizia come via d'uscita

    II. Henri Irénée Marrou (1904-1977): tasselli per un profilo storico-intellettuale

    III. La musica degli antichi per rianimare i cuori dei giovani: Marrou historien (et musicologue) engagé*

    IV. Di fronte al fascismo. Gli anni italiani di Henri-Irénée Marrou

    V. Marrou e la riforma della scuola fra fascismo e democrazia: tracce poco esplorate di un historien engagé

    1. L’apprezzamento per Giovanni Gentile e il suo contributo alla conservazione di una cultura classico-umanistica

    2. L’insegnamento elementare in Italia come punto di incontro fra la cultura popolare e il processo di fascistizzazione

    3. Dalle riflessioni sulla riforma Gentile ad una proposta di riforma dell’istruzione francese

    VI. «Bisognava rianimare nei cuori dei giovani la fiamma della libertà»: perché insegnare ancora la storia dell'educazione ai giovani oggi

    1. La difficile relazione con il passato

    2. Qualche riflessione a partire dal testo di Marrou

    VII. Prospettive pedagogiche a partire dai fondamenti di H.I. Marrou

    1. Il contesto culturale negli anni della pubblicazione dei Fondamenti

    2. Il valore pedagogico dei Fondamenti

    VIII. Il mondo tardo antico secondo Marrou

    1. Marrou «ouvrier de la culture»

    2. Marrou editore di testi

    3. Marrou organizzatore di conoscenza

    4. Forme della cultura e forma dell’interpretazione

    IX. Le fonti per la storia dell'educazione nell'antichità: il contributo di Marrou e nuove acquisizioni

    1. I primi esercizi della scuola elementare

    2. Le liste di parole

    3. Brevi testi per esercizi di dettato/trascrizione

    4. Mitologia per ragazzi

    5. Un antenato della lavagna

    CULTURA

    Studium

    126.

    A dolfo Scotto di Luzio (ed.)

    CRISI DELLA STORIA,

    CRISI DELLA VERITÀ

    Saggi su Marrou

    Prefazione

    di Adolfo Scotto di Luzio

    È difficile dire che impressione faccia, oggi, la lettura dell’opera di Henri Irénée Marrou in uno studente universitario. È certo che non deve trattarsi di una lettura semplice e non solo perché un libro come, ad esempio, La storia dell’educazione nell’antichità ha uno spessore erudito che difficilmente si lascia penetrare senza un’adeguata strumentazione. Il punto rilevante a me pare un altro. Marrou procede, per continuare nell’esempio prescelto, nella sua Storia rivestendo l’oggetto di tanta erudizione di un linguaggio che non arretra di fronte al rischio di attualizzare il proprio discorso. Esemplari, in questo senso, sono le pagine notissime in cui affronta il problema dell’imperatore romano come «evergete» e dove tratta del passaggio da quella che Marrou stesso chiama senz’altro la fase «liberale» dell’impero ad una in cui il titolare del potere non è più ormai il privatus cum imperio , il primo dei cittadini della Repubblica, bensì un’autorità ormai investita della rappresentanza dell’«interesse collettivo», che giustifica nel nome di questo interesse un interventismo inedito dell’«amministrazione centrale» tale, sono sempre parole di Marrou, da sancire il tramonto definitivo del mondo ellenistico aprendo così le porte ad una fase completamente nuova nella storia della civilizzazione dell’Europa. È il problema dell’«intervento» statale nell’educazione.

    In questa spinta che attraversa il testo e gli fornisce tensione e passione facendo dell’antico quasi lo specchio del moderno e il riflesso dei temi della «filosofia generale» dello storico, agli occhi di uno studente dei nostri giorni ho l’impressione che a diventare problematica sia non tanto l’identificazione del perimetro di ciò che pertiene all’antico ma proprio la penetrazione conoscitiva degli elementi che definiscono i tratti peculiari di una modernità che con tutta evidenza non è più quella del nostro studente. Che cosa voleva dire Stato liberale e cosa implicava la sua fine agli occhi di uno studioso come Marrou, nel quadro delle sue convinzioni politiche e religiose, appunto della sua «filosofia generale», di quanti «segnali» era carica la parola «fine», così prossima a tutta la tematica del «tramonto» che segna così potentemente di sé il clima culturale dell’Europa tra le due guerre mondiali, quale eco queste parole riverberano fino alla coscienza attuale del nostro giovane lettore?

    I problemi che agitavano la coscienza di Marrou negli anni della sua formazione «dopo il 1918», l’emergere della società di massa, il potere debordante della macchina statale, le sue inedite funzioni «sociali», la dedizione totalitaria dell’individuo alla comunità (totalitario è una delle parole chiave della Storia), insomma l’insieme dei riferimenti all’attualità di cui è così fittamente intessuta la trama della narrazione di Marrou e che solo trent’anni fa facevano ancora vibrare più di una corda nella coscienza del lettore di allora, oggi sembrano stare tutti dal lato di una indifferente «antichità».

    A partire dagli anni Novanta una profonda frattura si è prodotta nell’esperienza storica e di conseguenza nei processi formativi delle generazioni che oggi si lasciano alle spalle le soglie della loro prima giovinezza. Chi oggi ha tra i venti e i trent’anni ha compiuto per intero il ciclo della sua formazione a valle della grande cesura novecentesca che è stata l’«Ottantanove», e tutto ciò che pertiene alle speranze e alla tragedie di quel secolo esige da parte sua uno sforzo di penetrazione intellettuale non meno complesso di quello che richiede una qualsiasi altra epoca storica.

    Per uno studioso che ha speso il suo impegno accademico e intellettuale per rivendicare il diritto della storia alla «presenza nel campo dell’esperienza culturale», una soluzione di continuità del tipo di quella appena richiamata rappresenta un ostacolo alla comprensione della sua opera non da poco. Come interprete della coscienza novecentesca prim’ancora che come studioso del mondo antico, Marrou sta saldamente al di là dello spartiacque del secolo, separato dal mondo che sarebbe venuto dalla doppia cesura del Sessantotto (che pure fece in tempo a conoscere, ma non evidentemente in tutta la portata degli effetti che quell’evento avrebbe dispiegato nel corso dei decenni successivi) e della fine della guerra fredda.

    Il libro che qui presentiamo si muove nel solco di questa frattura e delle sue drammatiche implicazioni sul terreno della formazione. Il giovane lettore, a cui non abbiamo l’azzardo di rivolgerci ma che l’esperienza di insegnamento di molti di noi ha costituito in questi anni nella forma di un assillo costante per la coscienza intellettuale, sta alla fine di un processo culturale e inevitabilmente pedagogico di cui proprio Marrou aveva colto tutta la gravità nel bel mezzo del secolo scorso e che si era sforzato di contrastare, quando riconosceva nella crisi della storia uno dei tanti aspetti in cui si manifestava una più generale «crisi della verità». Era questo il lascito avvelenato dell’età del totalitarismo, che nel capitolo introduttivo alla Conoscenza storica riconosceva come un tratto permanente delle società democratiche del dopoguerra, le quali, scriveva allora, non «possono dirsi senza macchia» al riguardo (il paradigma era niente meno che la «teoria della menzogna» del Mein Kampf di Adolf Hitler), e portava come esempi il maccartismo americano, con le «stolte calunnie dei cacciatori di streghe», e la nuova retorica del politico democratico, i «nostri ministri» scriveva Marrou, il cui linguaggio era (ma quanto è giustificato questo imperfetto?) fondato sul ricorso sistematico alle «menzogne» (pietose le definisce Marrou, citando il dispositivo largamente invalso delle «smentite ufficiali»).

    È difficile non riconoscere la portata conoscitiva di una simile riflessione per un’epoca di «false notizie» come la nostra.

    Il problema della storia si ripropone dunque oggi in relazione a quella che ne costituisce agli occhi di Marrou la sua più insidiosa minaccia, la riduzione a retorica, una raccolta di exempla buoni per giustificare qualunque posizione pratica o fatto compiuto che sia. Da questo punto di vista, Henri-Irénée Marrou, filosofo critico della ragione storica, può essere considerato come il testimone di una cultura che è stata pienamente padrona dei suoi mezzi conoscitivi, depositaria di tecniche e, con le regole pratiche del lavoro di ricerca che esse comportano, di una deontologia dello storico di cui è difficile sottovalutare ai nostri giorni il valore, tanto come capitolo della storia della cultura europea del Novecento che, a maggior ragione, come presupposto per un apprendimento di sé in quanto soggetto storico, inserito in un certo «ambiente» e chiamato ad agire in esso. La fiducia di Marrou nella conoscibilità del reale e dunque nella sua trasformazione, senza per ciò ricadere nelle illusioni dell’oggettivismo, vale al tempo stesso come remora posta all’individuo, che conosce la realtà sempre ed esclusivamente nell’«ambito» di regole precise e alle quali non si può rinunciare senza correre rischi per la stessa civiltà. Agire nel mondo è sempre un atto di responsabilità, reso tale da un alto grado di controllo intellettuale. Nella Conoscenza storica, richiamando il titolo di un libro del 1931 di Daniel Halévy, Marrou scriveva che la crisi della verità era ancora più preoccupante della stessa «decadenza della libertà», perché è «una piaga che raggiunge il più profondo dell’essere».

    La discussione intorno all’opera di Marrou che questo libro propone si inserisce nel quadro di una importante ripresa di interesse per l’autore della Storia dell’educazione nell’antichità, in occasione della nuova edizione che l’editore che la propose per la prima volta al lettore italiano nel lontano 1950 ha voluto fare nel 2016, accompagnata da una ricca prefazione di Giuseppe Tognon e dalla postfazione di Paolo Cesaretti e Francesco Lomonaco, nonché dalle note e dagli aggiornamenti bibliografici di Lucia Degiovanni. La nuova edizione della Storia ha suscitato almeno due occasioni di riflessione di cui fa piacere qui ricordare i risultati: l’inserto della rivista fondata Franco Cambi, «Studi sulla Formazione», Un libro in discussione [1] e, nel giugno del 2017, nella sezione «Confronti» della rivista «Contemporanea», l’inserto a cura di Giuseppe Tognon, Storia ed educazione in Henri Irénée Marrou (1904-1907) [2] .

    Quale sarà il nostro contributo a questa ricca discussione spetterà ai lettori dire, a me resta il compito di presentare il senso di una piccola impresa intellettuale e la linea di intervento che abbiamo scelto di privilegiare.

    Ci è parso subito evidente che uno studioso come Marrou non si lasciasse affrontare se non per sondaggi parziali, che provassero a restituire, seppure in forme frammentarie, la complessità della sua personalità. Una personalità intimamente novecentesca quella di Marrou, lo abbiamo detto, di un Novecento anche questo non si può trascurare, a cui la Seconda guerra mondiale avrebbe inferto un colpo formidabile. Nell’estensione della sua cultura, nell’aspirazione all’universalità che la biografia esprime costantemente, c’era il prototipo di uomo colto, di un umanista, che era stato possibile concepire e realizzare in un quadro di civiltà che le due guerre mondiali, i totalitarismi che ne sorsero, la nuova società di massa del dopoguerra avrebbero ferito a morte.

    Sul profilo della storia di Marrou come intellettuale, profondamente implicato nella meditazione dei problemi del proprio tempo, mi sono soffermato nel saggio introduttivo a questo volume, che segue un percorso circolare, a partire dalla fine per così dire, dalla riflessione sui problemi della conoscenza storica degli anni Cinquanta e Sessanta per poi risalire alle loro premesse nella riflessione degli anni Venti e Trenta e di lì ridiscendere il filo del tempo seguendo alcune tappe degli scritti dei tardi anni Quaranta e degli anni Cinquanta.

    A partire da qui, e senza voler minimamente pensare di poter riassumere la ricchezza dei loro contributi, tanto Michel-Yves Perrin quanto Donatella Restani, si sono soffermati sull’importanza cruciale che la musica assume nella formazione umana di Marrou. Perrin, in particolare, ha messo in evidenza la natura ideale della musica per l’autore della tesi su Sant’Agostino. La musica non è qualcosa che c’è, è un anelito, l’oggetto di una ricerca. Nell’aspirazione che al riguardo rivela Marrou, la musica in quanto è nostra ci isola. Profondamente legata al nostro divenire interiore, tanto da non potersi accordare senza attrito con le cose che gli altri chiamano musica, nella concezione di Marrou la musica è come animata da un soffio polemico, perché tende verso una forma che è ancora da creare. È una musica che non esiste ancora se non in parte. Non è un repertorio nel quale aggirarsi, un po’ come la letteratura classica. È qualcosa di più esistenziale. Perrin valorizza l’importanza che, al riguardo, ricopre nel percorso biografico di Marrou l’amicizia formativa con Jean Laloy. Jean era figlio di Louis Laloy, di cui Marrou aveva letto negli anni della formazione all’École Normale la tesi dedicata ad Aristosseno di Taranto e pubblicata a Parigi nel 1904. Attorno a questo nodo al tempo stesso amicale e formativo si muove anche Donatella Restani, che rintraccia nei Carnets posthumes gli elementi di una musicologia e legge in questa chiave le due tesi di dottorato, quella dedicata a Sant’Agostino e quella sul Mousikos anê r. Donatella Restani mette in evidenza il rapporto tra gli elementi sonori nell’oralità e nell’eloquenza e la loro permanenza nella trasformazione di quest’ultima in forma scritta. Si sofferma poi sul ruolo che giocano le scuole di grammatica e di oratoria della Cartagine del IV secolo, ispirate al modello del De oratore ciceroniano, nell’apprendimento di specifici procedimenti musicali da applicare alla prosa d’arte e in genere in ambito retorico. A partire da qui, l’autrice si chiede cosa aggiunga di nuovo la rilfessione svolta nella Storia dell’educazione al pensiero di Marrou sulla musica che si forma già, nei suoi elementi essenziali, nel corso degli anni Trenta.

    Agli anni Trenta, al posto centrale che nel decennio, coprendo pressoché per intero la loro estensione, occupa il periodo italiano, ho dedicato il mio contributo. Chi incontrò Marrou in quella lunga stagione della sua formazione come studioso? Quali autori lesse, che cosa significarono l’Italia per lui, Roma e poi Napoli, la sua tradizione intellettuale, la sua storia spirituale, il paesaggio storico e naturale? Bisogna rassegnarsi al ruolo di testimone del fascismo, di cui restano le cronache italiane inviate ai corrispondenti francesi, oppure è possibile provare a schizzare l’abbozzo di una storia che è ancora tutta da fare? In attesa di un lavoro più sistematico da condurre negli archivi francesi, ho provato a mettere in evidenza alcuni dei nodi che nel rapporto stabilito da Marrou con il nostro paese mi paiono degni di attenzione, a cominciare dai rapporti con l’ufficialità culturale e accademica dell’Italia fascista.

    Agli anni italiani si richiama ancora in parte Evelina Scaglia la quale prende le mosse per il suo contributo da un suggerimento di lettura proveniente da Dominique Julia. Nel saggio che apriva il volume Que reste-t-il de l’éducation classique?, Julia sottolineava, tra l’altro, l’importanza di due testi, compresi tra la fine degli anni Trenta e i primi anni Quaranta, molto importanti per comprendere la tematica dell’educazione contemporanea nella riflessione di Marrou. Mi riferisco al contributo dedicato al problema educativo dell’Italia fascista, pubblicato su iniziativa di Celestin Bouglé, nel fascicolo quarto della collezione che doveva illustrare Le mouvement pédagogique à l’étranger. Il testo, ripreso parzialmente in Crise de notre temps et réflexion chrétienne, si segnala per un giudizio sulla riforma Gentile che rivede le posizioni dei primi anni Trenta di netta chiusura da parte di Marrou. È, nell’incupirsi dell’orizzonte alla fine del decennio, una rivalutazione dei valori umanistici della riforma gentiliana degna di rilievo. L’altro testo di cui Julia segnalava allora l’importanza è un documento della resistenza, che circolò negli ambienti dell’opposizione antifascista nel 1944, e che doveva disegnare dal punto di vista di Marrou l’abbozzo di una riforma dell’educazione per la Francia del dopoguerra. È anche questo un documento di grande significato perché propone alla coscienza democratica del secondo Novecento una riflessione sulla tensione, che è ancora la nostra, tra aspirazione alla «refonte totale, revolutionnaire» dei sistemi educativi e la necessità al tempo stesso di tenere conto del contesto storico, sociale e politico in cui la riforma sognata si iscrive. Era opportuno fissare l’attenzione del lettore su questo complesso di problemi di cui è difficile non comprendere l’attualità.

    Al problema del ruolo educativo dell’umanesimo di Marrou si rivolge Gabriella Seveso, in un saggio che affronta direttamente il problema della permanenza del valore dell’educazione umanistica e della sua capacità di rispondere ai conflitti di nuovo tipo che sorgono nella sfera educativa contemporanea. Andrea Potestio, dal canto suo, parte da un testo di notevole spessore e impegno come i Fondements d’une culture chrétienne e senza pretese di un confronto diretto e globale con le profonde tematiche che esso implica tenta di ricavarne gli elementi di una pedagogia.

    Infine, un contributo importante alla discussione proposta dal libro viene direttamente dagli antichisti. Paolo Cesaretti ha messo a fuoco il tema su cui mi sono soffermato all’inizio di questa breve prefazione, il mestiere dello storico, in particolare nel suo rapporto con le fonti, epigrafiche, archeologiche, letterarie e con le discipline ausiliarie della storia. Tema, abbiamo visto, che sta al centro della riflessione di Marrou sulla «conoscenza storica». Cesaretti, in particolare, si sofferma sul tema di Marrou editore e interprete di testi antichi, la Lettera a Diogneto e il Pedagogo di Clemente di Alessandria, che consente di riflettere sul valore di una filologia trasposta in proiezione storico-culturale per un discorso sul mondo attraverso l’analisi del testo. Metodo utilizzato, soprattutto, per il Sant’Agostino, ma non solo. Infine, Lucia Degiovanni, che firma la curatela della nuova edizione della Storia dell’educazione nell’antichità e che nel suo contributo a questo volume affronta il problema delle fonti per la storia dell’educazione nell’antichità, presentando alcune risultanze sul piano della ricerca archeologica più recente.

    È venuto il tempo di lasciare al lettore la libertà di accedere direttamente ai contributi di questo libro non prima, tuttavia, di aver ricordato che la sua occasione deriva da una giornata di studi organizzata dal Dipartimento di Scienze umane e sociali dell’Università degli studi di Bergamo nell’ormai lontano ottobre del 2016. Il seminario fu concepito in occasione della nuova edizione della Storia dell’educazione nell’antichità prima ricordata. Le relazioni allora presentate sono state profondamente riviste dagli autori e costituiscono un contributo affatto originale alla discussione. Al gruppo originario si è poi unita la dottoressa Evelina Scaglia mentre altri colleghi non hanno potuto partecipare alla costruzione del volume. A loro come a tutti gli autori presenti in questo libro va il mio più sentito ringraziamento per il lavoro fatto e per la pazienza che hanno voluto mostrarmi per il tempo lungo che ha richiesto l’uscita di questo libro. Grazie anche alla dottoressa Alberta Bergomi che ha rivisto materialmente il testo in vista della sua pubblicazione.


    [1] Vi compaiono oltre ad una nota a due voci scritta da Egle Becchi e me, sulla circolazione della Storia di Marrou nell’Università italiana, il saggio della stessa Becchi su I bambini di Marrou, e quello di Franco Cambi, Rileggendo "tristezza dello storico di H.I. Marrou: qualche nota.

    [2] Ospita importanti contributi di Francesco Traniello, Dell’utilità della storia secondo Marrou, dello stesso Tognon, L’Antico del Presente. Crisi di civiltà e umanesimo cristiano in H.-I. Marrou, Egle Becchi, Storia dell’educazione nell’antichità: tre termini pedagogici di Marrou e infine Jacques Prévotat, che dedica il suo intervento a I Carnets posthumes di Henri Marrou.

    I. La storia come amicizia

    di Adolfo Scotto di Luzio

    Chi era lo studioso che, nel cuore di una guerra che avrebbe definitivamente sconvolto l’Europa, impegnato sul fronte della resistenza spirituale al nazismo, aveva pensato e scritto quel ponderosissimo manuale di storia dell’educazione nell’antichità, centinaia di pagine a ripercorre quindici secoli di storia della civiltà greca e romana, dall’anno mille avanti Cristo al cinquecento dell’era volgare? un libro crocianamente impegnato a fare i conti con l’orizzonte morale, con quel complesso di problemi sollecitati dalla «situazione presente» dello storico, continuamente attraversato dalla tensione del presente, dalla necessità morale di innalzare, attraverso la riflessione storica, e per il tramite della critica del discorso storiografico un muro intellettuale al fascismo? Nessun luogo nell’opera di Marrou è, forse, più acconcio ad illustrare questa passione del presente delle righe che nella Storia dell’educazione nell’antichità sono dedicate, nel quadro della trattazione della pedagogia spartana, alla descrizione dell’«ambiente reazionario» in cui visse Socrate e che Marrou paragona a quello della borghesia francese negli anni del Fronte popolare, con le sue simpatie revansciste «in favore dell’ordine e della potenza dell’Italia mussoliniana»: «Di fronte a tale scatenamento di passione, come mi si può domandare di rimanere impassibile? Così prenderò posizione anch’io e denuncerò con forza la truffa morale, che, a dispetto della sana cronologia storica, una tale esaltazione della pedagogia spartana presuppone. Ritorcendo una frase di Barrès, squalificherò senza sforzo gli elogi che essa ha ricevuto, dicendo che questi sanno di spirito subalterno: questo è l’ideale d’un sottufficiale di carriera!» [1] .


    [1] H.-I. Marrou, Storia dell’educazione nell’antichità, Studium, Roma 2016, p. 100. A non smarrire il nesso tra passione politica e sorvegliatezza intellettuale dello storico, che non smette mai di essere padrone del proprio metodo, vale la pena notare che in questo caso Marrou non fa che porre un problema di teoria della conoscenza, che troviamo formulato nella sua forma più piana fin dalle pagine iniziali de La conoscenza storica, dove, notando «l’indifferenza» di tanti studiosi contemporanei per la «questione pregiudiziale posta dalla riflessione critica», si chiedeva e chiedeva a quegli studiosi: «di questa storia che tanto volentieri invocate, che cosa sapete? e in qual maniera lo conoscete?» (il Mulino, Bologna 1962, pp. 14-15).

    1. I termini di una inimicizia: Marrou e Croce

    Crocianamente, dicevo prima, perché è evidente che, se la misura della scrittura di Marrou è molto lontana dal pathos contenuto ma intensissimo di Croce, lo storico della tarda antichità trovava nel filosofo napoletano e in maniera particolare ne La storia come pensiero e come azione – un libro uscito nel 1938 al termine del lungo apprendistato italiano di Marrou – un’autorevole conferma a quella nozione di «ruolo sociale della storia» che sta alla base della sua stessa immagine di «historien engagé» fissata da Pierre Riché in una biografia che in maniera piuttosto singolare non fa mai menzione per altro del filosofo idealista, se non per qualche brevissimo cenno [1] .

    Certo, i rapporti con la cultura idealistica e con gli «hegeliani», come li definiva Marrou, furono sempre segnati da una irriducibile inimicizia culturale, e nei confronti di Croce in particolare le riserve furono sempre esplicite [2] . Ma nel quadro di un rapporto polemico, il giudizio di Marrou al riguardo è inequivocabile. Sulla strada che porta alla redazione della Connaissance historique, in una nota sulla Méthodologie historique pubblicata, immediatamente a ridosso del volume maggiore, dalla «Révue historique» nel 1953, Marrou scriveva, e l’affermazione è significativa, anche se attenuata dalla limitazione «chez lui aussi»: «[...] ci sono molte cose, in questa teoria e soprattutto nelle sue applicazioni, che restano valide al di fuori del sistema: l’idea che si ritrova anche presso di lui [Croce], del ruolo sociale della storia [...] essa è l’opera di uomini in carne ed ossa che cercano di usare in modo utile la memoria che l’umanità conserva del proprio passato» [3] .

    Per la riflessione di Marrou sulla conoscenza storica la lezione crociana fu decisiva. Mosso da una forte carica polemica contro ogni forma di astrazione e di essenzialismo nel discorso storico, Marrou spingeva per una teorizzazione fiduciosa nel racconto e nella narrazione. La ricerca, osservava nelle sue note sulla metodologia, non ha per fine di alimentare la «contemplazione solitaria dello storico», il quale accumuli nelle sue schede una scienza sempre più precisa e completa ma «incomunicabile». No, scriveva lo studioso di Agostino, con una voce che nella storiografia francese rimandava direttamente ad Henri Berr e al dibattito fondativo delle «Annales» di Lucien Febvre e Marc Bloch, «il fine è la sintesi, vale a dire un libro, un racconto» [4] . Eppure, il racconto non bastava. Se per l’hegeliano Croce, lo storico non si contentava di raccontare ma giudicava, che nel suo linguaggio voleva dire «liberare il Reale, lo slancio dello spirito-libertà che si nasconde nel cuore dell’avvenimento» [5] , in ciò pure bisognava rilevare un sentimento «très juste»: «lo storico – osserva Marrou – non può raccontare senza giudicare, perché egli descrive i fatti storici per mezzo di concetti portatori di qualificazione (in termini filosofici significa l’indissolubilità del predicato di esistenza dal predicato qualitativo)» [6] . Per Marrou, che qui citava esplicitamente il Croce della Logica, il limite del filosofo napoletano era la risoluzione del giudizio storico in termini di pura logica formale. La posta in gioco era il giudizio da dare sull’opera di Ranke e, come vedremo tra breve, sulla natura dello storicismo. Nel luogo a cui rimandava la citazione di Marrou della Logica, Croce contestava a Ranke, e alla sua formula della storia come descrizione delle cose così come «propriamente sono state», la pretesa di predicare l’esistenza senza qualificarla, vale a dire come se l’esistenza di un soggetto bastasse al giudizio che se ne formulava senza bisogno di altri predicati [7] . Ma la disputa intorno a Ranke, implicando, con il superamento crociano della distinzione tra definizione logica del concetto puro e giudizio individuale, l’identificazione di storia e filosofia, metteva direttamente in gioco un conflitto che si svolgeva intorno ad una genealogia possibile dello storicismo (abbiamo visto la linea Meinecke-Ranke tracciata polemicamente da Croce) e, come vedremo, a partire da qui, intorno ad un modello filosofico di storia della cultura europea del primo Novecento [8] . Accentuando lo sbilanciamento di Croce in senso idealistico-hegeliano, Marrou poteva tracciare una linea che, ritagliando nel corpo del pensiero storicistico una sezione nella quale accanto al nome di Ranke trovava spazio quello di Wilhelm Dilthey, gli permetteva di opporre uno «storicismo degli storici» a quello dei filosofi (leggi Hegel), marginalizzando così il contributo della filosofia idealistica italiana alla comprensione del problema storiografico del Novecento [9] . Bisognerà tenerne conto in particolare per la prospettiva che Marrou verrà svolgendo riguardo alla formazione intellettuale della generazione cattolica cresciuta «tra le due guerre».


    [1] Non ho elementi per risolvere la questione se Marrou abbia letto il libro di Croce alla data della pubblicazione. Nel giugno del 1942, tuttavia, Marrou partecipa a Lione ad un dibattito con Georges Bidault, presso la «Société lyonnaise de philosophie», proprio sul filosofo napoletano. Se ne ricorda ancora nel 1954 in una nota della Conoscenza storica. Argomento della discussione, il «valore esistenziale della storia»; cfr. P. Riché, Henri Irénée Marrou. Historien engagé, Cerf, Paris 2003, pp. 74 e 178; per quanto riguarda invece La conoscenza storica, cit., cfr. pp. 29 e 48.

    [2] «Con questi hegeliani – scrive Marrou -, abili nel porre e nel tenere in equilibrio i termini della contraddizione, non si è mai sicuri riguardo alla coerenza interna delle loro prese di posizione», in H.-I. Marrou, La Méthodologie historique: orientations actuelles, in «Révue historique», a. 77, t. CCIX, 1953, p. 260. In questo come in altri casi di opere di Marrou non tradotte in italiano, la traduzione è mia.

    [3] Ibid., pp. 260-261.

    [4] Ibid., p. 259. Sui rapporti di Marrou con Berr attraverso Lucien Febvre, si veda P. Riché, Henri Irénée Marrou, cit., pp. 172-173. Si vedano anche le osservazioni di Giuseppe Tognon nella prefazione

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