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Paesaggi dell'accoglienza: La governance dei rifugiati vista da sud
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E-book223 pagine3 ore

Paesaggi dell'accoglienza: La governance dei rifugiati vista da sud

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L’inasprimento delle politiche di ricezione dei richiedenti asilo e rifugiati evidenzia gravi rischi per il futuro della democrazia. Emergono, tuttavia, anche pratiche innovative di accoglienza e forme scoordinate di governance che si muovono al di fuori della consueta retorica umanitarista, promuovendo la partecipazione dei rifugiati alla costruzione di modelli più sostenibili di economia e società. Il volume analizza queste esperienze alla luce delle principali teorie che indagano il tema dell’accoglienza nel contesto europeo, per presentare poi i risultati di una ricerca empirica realizzata nelle città di Riace e Cosenza. L’obiettivo, nel complesso, è mostrare come all’insoddisfazione verso politiche d’asilo sempre più restrittive, oggi seguano dinamiche di rescaling dei processi decisionali che intensificano un conflitto costante intorno allo Stato, localizzando i diritti e fronteggiando dal basso i nuovi rischi sociali lasciati senza risposta dalle sovranità. 
LinguaItaliano
Data di uscita19 feb 2020
ISBN9788868228910
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    Anteprima del libro

    Paesaggi dell'accoglienza - Mariafrancesca D'Agostino

    (1808)

    Prefazione

    L’autonomia dei processi migratori (Sivini 2000) ha contribuito ad alimentare il dibattito nazionale ed internazionale degli ultimi decenni, che ha ampiamente decostruito la scienza delle migrazioni (Dal Lago 1999; Mezzadra 2001; Palidda 2010). Espressione di un pensiero di Stato fortemente radicato nell’episteme emersa dalla violenza dell’esperienza coloniale (Quijano 2000; Sayad 1999), la sua dissoluzione impone alle scienze sociali di sbarazzarsi del nazionalismo metodologico (Wimmer, Glick-Schiller 2002) per aprirsi ad una prospettiva transnazionale (Bash et al. 1994). Si tratta, ora, di indagare come ciò possa collegarsi ad una riflessione sulle possibili forme di co-esistenza cosmopolita adeguata a questo compito. Una riflessione non più improrogabile di fronte a quella che nella retorica dominante viene definita crisi dei rifugiati, ma che in realtà si presenta come crisi delle categorie che hanno costituito la narrazione della modernità.

    Il lavoro di Mariafrancesca D’Agostino è un gradito contributo a questa riflessione. Partendo da un ragionamento intorno al regime internazionale d’asilo, l’autrice mostra come la trasformazione del suo funzionamento operativo venga attraversata da processi di securizzazione che permettono di gerarchizzare la cittadinanza e realizzare nuove forme di accumulazione e sfruttamento. A questi eventi, l’autrice si accosta attraverso un registro processuale, che induce a volgere lo sguardo anche verso quelle numerose pratiche di accoglienza tese a sperimentare nuove forme di partecipazione e cosmopolitismo, incanalandosi nella ricca gamma di esperienze di cooperazione sviluppate negli ultimi anni dagli attori sociali per reagire ai fallimenti dello stato e del mercato.

    La riflessione si snoda a partire da Sud, dalla Calabria. Un luogo simbolico, collocato fra le frontiere tracciate da cartografie securitarie travestite da strumento di protezione della società, militarmente pattugliate contro l’invasione che arriva dal Mediterraneo. Un luogo privilegiato da cui osservare come quella stessa società affronta, con risposte e soluzioni innovative, i fenomeni di mobilità umana che nella produzione discorsiva dominante vengono collocati nel campo semantico dell’emergenza e della crisi.

    Due sono i casi calabresi che l’autrice decide di approfondire, ripercorrendone lo sviluppo. L’avvio della prima esperienza si ha dall’accoglienza data agli esuli curdi sbarcati prima a Badolato (1997) e poi a Riace (1998), esperienza che si è venuta sviluppando intorno al modello ispirato da Domenico Lucano. La seconda esperienza, a Cosenza, si sviluppa nelle pratiche di occupazione che un numero crescente di rifugiati e richiedenti asilo inventa e porta avanti assieme ad attivisti, precari e disoccupati di cittadinanza italiana nell’ambito del comitato PrendoCasa; un nuovo spazio attento a cogliere le istanze delle popolazioni migranti, ma che è anche propulsore di forme di coabitazione che riaccendono l’attenzione sui bisogni dell’intera comunità locale, sulle sue forme di convivenza e di sviluppo.

    L’analisi offre un contributo importante, in considerazione dell’attuale dibattito politico e scientifico sulle ambiguità pratiche e teoriche della ragione umanitaria (Fassin 2018; Mellino 2019). L’autrice evidenzia che, lungi dal cadere in uno schema paternalistico, le pratiche oggetto di studio si sviluppano in una direzione che scavalca l’etica dell’umanitario individuando nell’accoglienza un settore strategico nel quale fondare esperienze di comunità che si sottraggono ai condizionamenti delle politiche neoliberiste, basate su forme di riconoscimento, reciprocità e socialità radicalmente alternative a quelle che il governo attuale dei processi migratori forzati vorrebbe introdurre e stabilizzare. Sottolineando come la piena soggettività dei rifugiati abbia da tempo sfidato e trasformato l’immagine stereotipata di passività, viene dimostrato come queste figure sociali non siano meri partecipanti, ma costitutive dei conflitti sociali contemporanei e dei nuovi modi di sperimentare la con-vivenza, producendo nuove forme di co-abitazione a partire da una socialità che trasforma in luogo il territorio.

    Queste pratiche non sono prive di contraddizioni, ma è proprio questo il segno della potenzialità di aprire a possibilità finora impensabili. Esse sfidano, sul terreno della prassi, l’astratta categoria di definizione dell’umano forgiata dall’Occidente, aprendosi alla differenza. In ciò la possibilità – almeno – di liberarsi dalla prospettiva totalizzante di una supposta essenza umana e dal corrispondente necessario compiersi di una comunità che ha mostrato essere comunità di morte (Nancy 1992).

    Annamaria Vitale

    Introduzione

    Dal principio degli anni novanta le politiche d’asilo dei paesi occidentali risultano attraversate da enormi trasformazioni che hanno portato a incorporare l’azione degli stati in una nuova cornice di cooperazione e governance multilivello nell’intento, riaffermato recentemente dall’ONU,

    di «dare vita a una risposta più forte ed equa a situazioni riguardanti grandi movimenti di rifugiati»[1]. Ne sono derivate forme complesse di coordinamento che tendono, però, a concentrarsi su esclusive esigenze di controllo dei flussi, rese per lo più operative attraverso lo sviluppo di accordi che esternalizzano le procedure di asilo dai paesi di destinazione a quelli di origine e transito (Rigo 2007; Hammerstadt 2014). Ci riferiamo, in particolare, all’adozione di accordi transnazionali basati sull’organizzazione congiunta di pattugliamenti marittimi, sull’addestramento del personale di polizia e sull’allestimento di grandi centri di raccolta e contenimento dei profughi, dove un ruolo cruciale spetta anche ai professionisti dell’associazionismo umanitario e dell’industria della sicurezza, venendo ad assumere funzioni di controllo che prima rientravano tra le prerogative tipiche della sovranità. Prende conseguentemente piede un nuovo modello di umanitarismo che trasforma in maniera significativa le forme tradizionali del potere, depoliticizzandole e despazializzando i confini prodotti in epoca moderna (Giddens 1990; Poggi 1996; Strange 1998; Flinders, Buller 2006; d’Albergo, Moini 2019).

    Nel caso specifico dell’Unione europea si incentiva, in particolare, la riconversione dei fondi destinati alle politiche di cooperazione allo sviluppo in finanziamenti volti a subappaltare la gestione delle sue frontiere esterne a paesi terzi che in cambio ricevono attrezzature, mezzi tecnologici e altri supporti logistici (Koff 2014). Le trattative hanno in genere riguardato paesi considerati chiave da un punto di vista geopolitico e alla luce della loro vicinanza con l’Europa. Tuttavia, le negoziazioni sono state portate avanti anche quando la controparte non dava sufficienti garanzie democratiche (un esempio ne sono gli accordi stipulati con l’Egitto, la Libia, la Turchia e il Sudan), con l’effetto di sottoporre migliaia di rifugiati e richiedenti asilo a lesioni gravissime dei loro diritti umani (Palladino 2018). È quanto denunciano il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura e altre ricerche importanti con le quali, in questa sede, ci confronteremo per cogliere più analiticamente le linee di indirizzo seguite dall’attuale regolazione transnazionale delle migrazioni forzate, ma anche per segnalare le sue diverse territorializzazioni in una fase in cui le politiche migratorie non sono gestite in maniera coerente all’interno di uno scenario geopolitico che diventa sempre più problematico e frammentato (Ambrosini 2016a; Harvey 2018).

    In Europa, soprattutto, se prima l’enfasi ricadeva sulle politiche di chiusura delle sue frontiere esterne, lo scoppio di diversi conflitti nelle aree vicine del Mediterraneo ha reso progressivamente visibili i fallimenti regolativi di questo sistema e la conseguente ricerca di risposte bottom-up che offrono un aiuto diretto ai rifugiati al di fuori della consueta retorica solidarista: coniugando forme accese di protesta e conflitto con pratiche di mutuo-aiuto e cooperazione capaci di dare risposte concrete ai bisogni di chi vive ai margini e non accetta di essere escluso (Biorcio, Vitale 2016; Cannavò 2018; Fumagalli et al. 2018). Su queste più recenti forme di accogliere si sofferma la nostra indagine con l’obiettivo di discutere i mutamenti che si stanno determinando nella relazione fra i vari attori pubblici e della società civile che partecipano ai processi organizzativi dell’accoglienza in un contesto caratterizzato dalla crisi del governo europeo dei rifugiati e delle sue razionalità (Dines et al. 2018). In particolare, sul piano teorico, metteremo in collegamento la letteratura sulla governamentalità delle migrazioni con alcune linee di ricerca che indagano le dinamiche dell’accoglienza nel contesto europeo per esplicitare i cambiamenti che stanno portando a nuove forme di impegno dal basso, capaci di legittimare dinamiche di riconoscimento e accesso ai diritti che rivitalizzano il livello locale e le sue peculiarità (Sassen 2008). Gli assunti che scaturiscono da queste riflessioni verranno poi discussi alla luce di una ricerca che abbiamo condotto in Calabria, nelle città di Riace e Cosenza, dove è possibile osservare modelli inediti di accoglienza, che qui descriviamo mettendo in evidenza la rilevanza che la partecipazione locale può assumere nel ridisegnare la figura del rifugiato e le politiche a loro rivolte, spingendole oltre la logica umanitaria e il linguaggio della vittimità (Ong 2003).

    Nel complesso, la volontà di concentrarci sull’evoluzione dell’accoglienza in relazione ai meccanismi che la declinano sui territori intende dimostrare l’esistenza di scenari più fluidi rispetto a quelli rappresentati da chi, pur con buone ragioni, intravede nel postfordismo il passaggio a una grande infrastruttura governamentale che riesce ad articolarsi su livelli spaziali differenti incentivando la partecipazione, ma piegandola a obiettivi gestionali di svalorizzazione e intensificazione del rendimento complessivo della forza lavoro (Lippert 1999). In effetti, è innegabile che la ristrutturazione economica e istituzionale operata dal neoliberismo punti a servirsi di organizzazioni non governative che rendono più stringente il nesso fra migrazioni e sviluppo (migration-development nexus), permettendo la mobilità esclusivamente alle risorse umane considerate utili alla crescita (Vitale 2005). Soprattutto nel campo delle migrazioni forzate si favoriscono politiche di esternalizzazione che cercano di contenerle a ridosso delle aree di crisi (Marchetti 2006), rendendo gli attori dell’umanitario complici di programmi che negano ai rifugiati sicurezza e diritti essenziali, e che invece offrono agli stati il vantaggio di aggirare norme e vincoli di rilevanza internazionale (Bloch, Dona 2018). Senza disconoscere l’importante contributo proveniente da questi approcci più critici, questo lavoro sposta l’attenzione su scorci diversi di realtà, dove si rendono identificabili chiare dinamiche di politicizzazione delle pratiche sociali e della solidarietà. Ci riferiamo a percorsi partecipativi ancora fragili e carichi di contraddizioni ma che, nell’ipotesi centrale di questo lavoro, si rivelano già capaci di operare nel campo dell’accoglienza oggettivando nuove spazialità politiche e modelli differenti di comunità grazie a un mix di strategie in cui convivono e si rafforzano reciprocamente conflittualità locali, discrezionalità amministrativa, pluralismo giuridico e culturale. Nella parte empirica di questo lavoro, vedremo meglio come sia proprio tale dinamica evolutiva a emergere nelle città di Riace e Cosenza nel momento in cui esse hanno concepito l’accoglienza come un inedito spazio di ricomposizione di pratiche e conflitti che rafforza l’interazione fra i rifugiati e l’ambiente circostante allo scopo di intervenire su problematiche considerate ormai trasversali a comuni condizioni di crisi. Benché si tratti di casi influenzati da numerose variabili di contesto, essi condensano in maniera emblematica la presenza di azioni sociali che disarticolano la partecipazione come risorsa dello stesso processo di neoliberalizzazione, legittimando il territorio e le reti che lo attraversano quali elementi fondamentali di un nuovo modo di accogliere e di essere comunità (Ostrom 1990; Laville 1998; Magnaghi 2000; Grassi 2018).

    Una delle principali premesse poste alla base del nostro ragionamento per spiegare tali processi di rispazializzazione del potere politico e localizzazione della cittadinanza la ricaviamo dalla teoria dell’autonomia delle migrazioni, specie laddove si incrina il vecchio dualismo fra migranti e rifugiati mostrandoli come soggetti in entrambi i casi capaci di sviluppare spostamenti irriducibili alla logica dei confini e a esclusivi condizionamenti macro (Sivini 2000; Mezzadra 2001; King 2012). Diverse ricerche oggi, appunto, dimostrano come il continuo scoppio di nuove guerre e conflitti tenda ad accompagnarsi a strategie migratorie portate avanti da rifugiati animati da forti pretese normative (Caruso 2015), protagonisti di lotte che mentre sfidano i dispositivi di controllo dei confini che si vorrebbero introdurre, provocano vivacissime controversie in merito alla valutazione di questi processi. Queste dinamiche migratorie esprimono infatti un’evidente autonomia, che come tale riteniamo debba essere approcciata analiticamente per spiegare sia le diverse forme che assumono le migrazioni forzate nel contesto della globalizzazione (Castles 2003; Zetter 2015), sia per vagliarne l’impatto sui processi di incorporazione e accoglienza, laddove anche da questo punto di vista i rifugiati possono rivelarsi soggetti agenti, in grado di cambiare le politiche e il modo in cui sono definiti i loro spostamenti. È ciò che ricaviamo dalle analisi più recenti sulla partecipazione dei rifugiati (della Porta 2018), ed è quanto, poi, mettono in risalto gli studi che invece si soffermano sui caratteri della governance locale delle migrazioni mostrandoci città che affrontano l’accresciuta complessità della società multiculturale considerandosi non solo come luoghi in cui le politiche nazionali e sovranazionali prendono corpo, ma anche come entità che si autogovernano (Borghi, Camuffo 2010; Villa 2018; Caponio et al. 2019).

    Nel momento in cui inquadriamo il tema dell’accoglienza attraverso la lente della cittadinanza locale (Ambrosini 2013), a tutte le latitudini scopriamo diversi esempi di città rifugio che mitigano i processi in atto di securizzazione delle politiche per inserire rifugiati e richiedenti asilo nella logica della partecipazione e della condivisione, dando centralità alle pratiche urbane e al principio di residenzialità (Isin, Turner 2002; Sassen 2008). Le analisi che osservano questi sviluppi non sottovalutano, in realtà, la possibilità che anche nelle città prevalgano orientamenti politici e interessi di natura particolaristica, capaci di tradurre il sogno di una integrazione diversa in forme deboli di riconoscimento ovvero in solidi criteri di differenziazione ancorati alla razza (Caponio 2012; Carbone et al. 2018). Sono rischi che arrivano tante volte a investire anche il terreno della cooperazione sociale, come accade nei programmi che incentivano il volontariato dei richiedenti asilo, quando finiscono per riprodurre retaggi colonialisti che li educano a essere riconoscenti in nome di un supposto dovere di restituzione (Pasqualetto 2017). Diversi programmi oggi si sviluppano in questa direzione, ma, accanto a loro, tende a dispiegarsi un movimento di segno opposto che invece riequilibra la posizione fra insider e outsider disegnando inedite esperienze di auto-organizzazione dal basso e anche forme scoordinate di governance che, in questo caso, raggiungono l’ambito pubblico per affermare e condividere nuove progettualità.

    Entro questa prospettiva emancipante e conflittuale si inquadrano tante esperienze di lotta e associative che operano nel campo dell’agroecologia, dello squatting e del contrasto del precariato costruendo un diverso contratto sociale fra persone di diverse nazionalità, collegato ad una visione non meramente procedurale della democrazia (Cattaneo, Martizez 2014; Olivieri 2016; Mudu, Chattopadhyay 2017). Si tratta di esperienze che ancora denunciano le gravi violazioni provocate dall’irrigidimento delle politiche migratorie, ma è interessante notare come esse lo facciano sviluppando contemporaneamente una richiesta più ampia e generale: e cioè quella di provincializzare l’Europa, le sue razionalità e i suoi modelli di sviluppo (Chakrabarty 2000; Torre 2018), in quanto adeguatamente letti come parte inseparabile e promemoria di forme di accumulazione che si impongono sul pianeta attraverso l’espulsione, la guerra e il saccheggio dei territori più vulnerabili (Sassen 2014). È a partire da questo ragionamento che, in un’ampia varietà di arene, richiedenti asilo e rifugiati sono stati sottratti allo sguardo paternalistico del passato (Zetter 1991) per diventare l’espressione emblematica di disuguaglianze economiche che si riconoscono nella loro tendenza a coinvolgere la società per intero, e che queste forme di impegno per l’appunto fronteggiano favorendo la partecipazione dei rifugiati e co-attivandosi sugli stessi problemi.

    Tutte queste sperimentazioni locali ci restituiscono un quadro molto dinamico e frammentato. Emblematicamente rappresentano la complessità della fase attuale, accompagnandosi a modalità di collaborazione che anche quando prendono forma nell’arena istituzionale lo fanno in maniera problematica, riappropriandosi di spazi autonomi di attivazione che le istituzioni si limitano a riconoscere e a sostenere finanziariamente. L’idea di una governamentalità delle migrazioni forzate uniforme e pienamente realizzata cade di fronte alla presenza di una serie di aporie e di elementi sfuggenti (Foucault 1994) che dimostrano di poter incentivare evidenti dinamiche di rescaling dei processi decisionali mantenendo uno stretto collegamento fra misure di assistenza e azione politica. Basti guardare a ciò che avviene in Occidente, dove l’incapacità degli stati di trovare un reale equilibrio fra esigenze di controllo dei flussi e rispetto dei diritti umani sta generando, specie in questa fase di grande recessione, un’evidente polarizzazione fra sovranismi che radicalizzano la nazione come necessità storica e criterio esclusivo di appartenenza

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